Barme, fourest, jumarre e chaouvie
Val d'Angrogna
25 aprile
In un baleno
Angrogna è uno di quei paesi senza un vero concentrico, poiché è invece formata da tantissime frazioni equipollenti, diffuse a macchia sui pendii più propizi all'insediamento e all’agricoltura. Il territorio comunale include un’intera valle prealpina, breve e incassata, di difficile accesso a dalla pianura e senza sbocchi oltre lo spartiacque. Dalle colline all'estremità occidentale della Pianura Padana, dove si coltivano la vite e gli ulivi, sale in pochi balzi fino a quasi 3000 m, dove il consumo frequente della carne degli stambecchi conferiva agli alpigiani «una meravigliosa dispsizione dei loro corpi e soprattutto della gamba» e qualche goccia del loro sangue sciolta nel vino combatteva la depressione
Diario di viaggio
Facciamo la colazione sociale con brioche industriali di pedigree in un bar di Luserna, che alle 8.30 va affollandosi per la colazione festiva dei nativi. Mostro al mio amico il percorso tra fourest e borghi alpini ideato esclusivamente sulla cartina. L’escursione altimetrica è limitata, dai 700 ai 1400 m, ma non ho un'idea precisa di quanto possa essere lungo e di quale possa essere il dislivello dopo cento saliscendi e mille circonvoluzioni negli impluvi. Credo che potrebbe piacere molto a lei, ma devo capire se può essere adatto o inadeguato.
Dall’incassato fondo della valle Angrogna (Alpi Cozie), ne risale un fianco, punta in direzione della testata transitando tra diversi fourest, gli stazionamenti intermedi della monticazione agli alpeggi, scende tra le ultime borgate abitate in passato tutto l'anno, invertendo la direzione, per risalire quindi a due nei nuclei più caratteristici della valle, costruiti al riparo di pareti rocciose, e chiude infine il cerchio scendendo al torrente.
Angrogna è uno di quei paesi senza un vero concentrico, poiché è invece formata da tantissime frazioni equipollenti, diffuse a macchia sui pendii più propizi all'insediamento e all’agricoltura. Il territorio comunale include un’intera valle prealpina, breve e incassata, di difficile accesso a dalla pianura e senza sbocchi oltre lo spartiacque. Dalle colline all'estremità occidentale della Pianura Padana, dove si coltivano la vite e gli ulivi, sale in pochi balzi fino a quasi 3000 m, dove il consumo frequente della carne degli stambecchi conferiva agli alpigiani «una meravigliosa dispsizione dei loro corpi e soprattutto della gamba» e qualche goccia del loro sangue sciolta nel vino combatteva la depressione.
Partiamo in località Chiot d'l'Aiga: il primo termine indica sia un pianoro che un recinto, il secondo (acqua) è la designazione locale del torrente che dà il nome alla valle e pure al comune, che la include per intero. Ci troviamo lungo la strada di fondovalle per Pra del Torno, costruita nel 1964-65 al posto della precedente mulattiera, di cui troveremo le vestigia a monte della frazione e un ponte in pietra qui alla partenza; evita i principali nuclei abitati, adagiati a mezzacosta sull’adrech. In questo slargo della valle operava invece un mulino, di cui è rimasta una ruota idraulica di legno a ricordo; fu uno degli ultimi della valle a essere dismessi, quando cessò l’agricoltura di montagna.
Imbocchiamo la ripida e tortuosa strada per Serre Malan, presso un romantico ponte medievale in pietra della vecchia mulattiera, venendo presto superati da una Panda e un piccolo fuoristrada. Siamo in un fitto bosco di faggi, le cui novelle foglie sono di un passeggero verde molto chiaro, destinato a tramutarsi presto nel tono estivo più cupo, e traslucide contrastano con il pendio opposto in ombra. Sotto una casa molto rustica e raffazzonata, una cucina economica è accasciata nel bosco e mezza mangiata dal terreno e dal tappeto di foglie secche. Sfiorato un nucleo abitato, dove mettiamo in fuga i gatti e in agitazione i cani, tralasciamo un sentiero sulla destra, indicato da una tacca bianca, che ci condurrebbe diretti a Barfè.
In un impluvio troviamo parcheggiata una Panda 4x4 seconda serie, un euro 0 di quando c'era ancora l'URSS. Il suo proprietario, un vecchio montanaro, sta recuperando a mani nude della legna gettata malamente nella sottostante scarpata, adoperando una mano per aggrapparsi al terreno e l'altra per trasportare i pezzi. Il mio amico gli suggerisce soluzioni meccaniche, quali l'uso di una corda o un verricello, ma lui le respinge, in quanto ci metterebbe ancora più tempo, e preferisce invece frantumarla in loco in pezzi abbastanza piccoli da essere issati senza strumenti. Una volta la raccolta della legna secca era invece un lavoro che coinvolgeva un'intera comunità: il comune, proprietario dei boschi, concedeva alle famiglie di una borgata il diritto di raccoglierla e queste si consorziavano per fare il lavoro in gruppi e dividersi infine tramite sorteggio le varie cataste. L'usanza era detta fournillho, da un termine latino per fascina.
Tralasciamo una prima traccia da capre che taglia un tornante, per trovare poco oltre, presso delle baite di pietra a monte di terrazze, una pista erbosa da cui si stacca un sentiero lastricato molto pregevole, la mulattiera affiancata solo nel 1987 dalla pista. Transita per i prati terrazzati a valle di Serre Malan, che presto raggiungiamo; erano talmente ripidi che, secondo i burloni, le galline di qui dovevano indossare come delle mutande, affinché le uova non rotolassero nel bosco sottostante fino al torrente. I medesimi mattacchioni consideravano gli abitanti una sorta di uomini di mondo, perché Novarea, una frazione presso quella al primo tornante, era popolata da una comunità di bestie molto esotiche, dei cattolici a due passi dalla roccaforte valdese di Pra del Torno. Ci troviamo infatti nelle valli che offrirono rifugio a questa eresia medievale, successivamente confluita nella riforma protestante, che ha resistito a secoli di cruente persecuzioni ed è viva ancora oggi. Questa in particolare, per l'angustia del suo fondovalle, come in una sorta di Panshir del comandante Massud, fu il fortilizio in cui i valdesi si rinsaldarono nei momenti di aggressione militare.
La frazione è in gran parte disabitata, ma sono ancora molto ben apprezzabili seppur deteriorate le vecchie case con grandi porticati, dove era possibile proseguire le attività durante le frequenti precipitazioni delle zone prealpine. Seduto su un muretto, vi troviamo un matusalemme degno di una lastra ottocentesca, dal naso bitorzoluto e i vestiti consunti, che trascorre qui l'inverno, per poi salire in estate alla vicina Barfè. Fino a un decennio addietro saliva a un'alpe di cui ho dimenticato il nome, oggi «tutta rovi e lamponi», ci dice. Non si capacita della sorgente del paese secca per la prima volta da quando ha ricordi, a causa delle eccezionali siccità e arsura dell’ultimo anno e mezzo, né delle altre prosciugate dai lavori fatti malamente, ad esempio per le strade; questa montagna inselvatichita gli appare trascurata. Gli sembra poi incredibile che l'erba sia già alta mezza spanna, poiché, quando era giovane, in questa stagione c'era ancora la neve sul versante ombroso a fianco del paese; sul Vandalino, il primo monte della catena divisoria tra val Pellice e Angrogna, di cui da qui vediamo la spalla su cui sorge un ripetitore, «venivano tre metri».
Molti vorrebbero che i tempi della propria gioventù durassero in eterno, forse per nostalgia dei giorni in cui erano forti e ricolmi di futuro, forse perché, non avendo memoria diretta di un passato, li percepiscono fuori dal tempo ed eterni, anziché un momento qualsiasi dell'incessante divenire della natura e dell'ancora più rapido avvicendarsi delle società umane. Sarà anche che molti sistemi del passato si presentavano come stato di natura, sorretto da leggi immutabili o anche divine e tale ideologia è interiorizzata da larghe fette di popolazione. Oggi per contro viviamo in un sistema che, per reggersi, deve far sembrare il nuovo modello di cellulare come migliore del precedente e tale da renderlo obsoleto; sebbene molti condividano questa impostazione per gli oggetti di consumo, hanno mantenuto la tradizionale per tutto il resto.
L’usanza di fermarsi a chiacchierare con i conoscenti, raccontare i fatti propri ed essere informati sulle novità del paese, era pratica comune a ogni incontro, tanto che salutarsi era detto se arazounȃ; oggi, ridottasi drasticamente la quantità di valligiani, lo si fa anche con i viandanti forestieri.
Imbocchiamo il ripido sentiero segnalato che taglia i tornanti, fino a raggiungere una casa dai serramenti ristrutturati, ma con chiari segni di abbandono nel cortile e anche un trattore moderno trasandato. Qui lasciamo il sentiero, perché taglia via un roccione panoramico che il vecchio aveva chiamato con un nome da me recepito come Giovannà, storpiando il patois nella più gloriosa tradizione dei cartografi militari sardi. Potrebbe forse essere simile a Giourneva, un toponimo presente in valle, che indica un posto dove la luce del sole arriva il mattino presto. Sempre nel bosco, ma arioso, passiamo ai piedi di un paio di sporgenze rocciose e superiamo una casa con una serra a forma di giandujotto e una pietra appuntita antimasca su un trasformatore elettrico (tradizionalmente i fulmini sono un maleficio diabolico), quindi un'altra da cui arrivano voci di bambine.
Al colmo di questa prima salita, raggiungiamo il masso panoramico, su cui sono incise delle lettere e in una zona cattolica avrebbero senz'altro eretto un pilone votivo. Qui attorno ci sono incisioni preistoriche, ma curiosamente non su questa sporgenza così dominante. Il panorama è davvero sconfinato, con in lontananza le Langhe (naturalmente con il binocolo individuo il Bric Puschera, l'Ottomila della catena), le Alpi Liguri di cui riconosco Cima delle Saline. Di fronte ci sono le borgate principali di Angrogna, tra boschi e prati, in mezzo la piatta distesa del pinerolese e del cuneese pedemontano, con l’isolotto roccioso della Rocca di Cavour, che emerge da un sottile strato di foschia. Discosta si eleva la piramide del Frioland con le ultime chiazze di neve primaverile. L'elemento che maggiormente spicca, tuttavia, è la posizione di Serre Malan, un nido d'aquila sulla valle, allungata su uno sperone. Quest'ultimo è il significato di serre, mentre Malan è un cognome diffuso in zona. Attualmente uno di costoro è un senatore molto in vista sui media, mentre in passato, a furia di emigrazioni successive, un ramo arrivò in Sudafrica al seguito dei Boeri e un loro discendente fu il primo ministro che introdusse l’apertheid. Facciamo una pausa contemplativa, nel contempo bevendo un po', perché al sole la temperatura è tiepida e abbiamo traspirato già, oltre che sbocconcellando qualcosa: comincio a intaccare il mezzo chilo di fragole appresso - in questa stagione mi nutrirei di fragole e asparagi.
Transitati a valle di una zona di vetusti faggi senza sottobosco e con qualche spuntone roccioso, superiamo un costone e passiamo tra fitte betulle. Sbuchiamo infine nei prati a monte del rifugio Barfè, dove sono molto accoglienti e cucinano ottimi manicaretti, ma oggi non è nei nostri programmi. Imbocchiamo invece una pista in quota, diretti al rifugio Sap, per un rado bosco.
Prima di una baita in vendita, la lasciamo in favore di un sentiero che guadagna quota e offre panorami sul tratto di adrech a monte di Pra del Torno, tra la Vaccera e il Gran Truc. Attorno a questa cima sono stati rinvenuti diversi petroglifi, uno dei quali ho sfiorato un paio di volte ignorandone l'esistenza (la Roccia del Mago a Conca Cialancia). Al di sotto, nella zona di Barma Mounastira, notiamo da tempo una vasta zona terrazzata oggi ripresa dal bosco, come ne osserveremo molte altre nel corso dell'escursione. Va tuttavia detto che nelle foto di fine Ottocento, l'estensione dei boschi è superiore a quella di altre zone solatie analoghe delle valli circostanti.
Una piccola bastionata rocciosa nasconde Cialaroccia, oggi abbandonata, ma con le baite ancora in piedi, quasi allineate su un pianoro di forma ellittica. Era, come molti altri insediamenti che vedremo oggi, un fourest, quelli che altrove sono detti maggenghi. A differenza dei coltivi, privati, erano di proprietà comunale; di quelli della contigua val Pellice è dato sapere che furono riscattati nel 1588 dall'abbazia di Staffarda, che li aveva in feudo, mentre di questi non abbiamo tracce documentali. Il prodotto caseario di questa zona da me preferito è il seirass, una ricotta molto saporita, normalmente conservata nel fieno. Il mio amico resta impressionato dai cardini di legno delle porte.
Proseguiamo in traverso lungo le ripide pendici settentrionali della catena tra Vandalino e Vergia, ricoperte in larga misura da cespugli di invasione. Ci inoltriamo in due impluvi più profondi di quelli attraversati finora, con rii più cospicui, ma magri per la stagione del disgelo che dovrebbe essere, se lo scorso inverno fosse nevicato. Prima del secondo su un masso leggiamo una vecchia scritta gialla del Trail del Monte Servin, di cui abbiamo visto le tacche dello stesso colore accanto a quelle biancorosse del CAI. La manifestazione esiste tuttora, ma si svolge su un percorso più breve tra la Vaccera e Pra del Torno. Il Servin, proprio qui di fronte, con il dirimpettaio Vandalino e il lontano Monviso, era la triade delle cime su cui osservare l’addensarsi delle nubi per pronosticare l’arrivo dei pericolosi temporali estivi. Ogni valle alpina ha il proprio riferimento.
Oltre gli impluvi ci sono torrioni di rocce chiare stratificate, che potrebbero essere dei micascisti, rocce derivate dal metamorfismo di sedimenti argillosi. Sul successivo costone era edificato il fourest Sapè, ora in rovina, in aerea posizione, sul margine di un ripiano affacciato sul precipizio. Il nome deriva dal termine dialettale dell'abete bianco, che doveva essere presente in zona quando fu disboscata, presumibilmente dopo il Basso Medioevo, quando prese il via la colonizzazione stabile della montagna, con le coltivazioni in basso e i pascoli in quota, come è perdurata fino agli anni '40 del Novecento. Questi alberi, amanti dei climi piovosi della media montagna, conobbero la massima diffusione nel Neolitico, dal clima mite e umido, quando fu disboscata solo la zona dei pascoli superiori. Con la messa a coltura furono sostituiti dai pascoli o dai faggi, con cui talvolta condividono l'habitat, poiché questi ultimi offrono un legno più idoneo alla combustione e semi sfruttabili come foraggio. Oggi sono molto diffusi in val Pesio, anche sotto forma di esemplari monumentali, nelle Alpi Liguri baciate dall'umidità marina, perché in passato i monaci della Certosa li coltivavano per il legname da costruzione. Sui monti di Merano cenai in una stube di abete bianco, mentre nella montagna latina la casa è prevalentemente di pietra, per cui non sono stati molto coltivati, sebbene il clima piovoso delle zone prealpine sarebbe loro adatto.
Tuttavia non tutti i boschi furono abbattuti, in quanto fungevano da riserva di legna e proteggevano dalle slavine. In valle tali boschi sono detti devesio, che significa indivisi tra vari alpeggi e protetti dallo sfruttamento indiscriminato.
Da qui sono già visibili i terrazzamenti di Imbergeria, sfruttati come pascolo e in passato per la fienagione. Oltrepassiamo un ulteriore impluvio e saliamo per noccioleti d'invasione dovuta all’abbandono, alternati a faggi monumentali, che invece ricordano i tempi passati. Transitando a monte di una casetta ristrutturata, con vista sul sentiero appena percorso, arriviamo sul costone prativo, tappezzato di fatte di vacca e pecora. Una volta non le avremmo trovate, perché, terminata la mietitura a fine agosto, le famiglie contadine salivano ai fourest e agli alpi a raccogliere lo sterco di pecora, per adoperarlo come concime per i campi. Ci sporgiamo un poco a valle, fino alle baite dei pastori, dove ci accomodiamo per una pausa. Il mio amico come Obelix ha fame già da mezzogiorno, ma gli chiedo di aspettare ancora un pochino. Il luogo gode di un panorama simile a quello visto sinora.
Proseguiamo per un impluvio meno incavato ma più scosceso dei precedenti, dove un paio di volte mi slitta il bastoncino lato valle, ma senza conseguenze. Con uno strappo siamo al Bric del Bec, un paio di baite ristrutturate e un grande frassino.
Confluiamo su una strada, da cui arrivano in direzione opposta due coniugi di mezza età, che sono saliti da Pra del Torno e vorrebbero dirigersi al rifugio Sap, ma seguendo il navigatore stanno andando dalla parte sbagliata, nonostante i chiari cartelli. Li ruotiamo di mezzo giro e proseguiamo in parallelo, costeggiando una casa dove sono parcheggiati molti macchinari e attorno a cui è sospeso il taglio del bosco per il giorno festivo.
In breve siamo al rifugio, i cui tavoli esterni sono ricolmi di pedoni e ciclisti. Si tratta infatti di un tipico rifugio mirato ai numerosi escursionisti che amano fare una breve passeggiata seguita da una mangiata: i suoi dintorni saranno l’unica zona in cui incroceremo altri camminatori. Consumiamo il nostro pasto poco distante, insalata di farro io e panino tonno e cime di rapa lui, per poi cercare il conforto di un caffè. In cucina, dove riconosco lo stesso gestore di quando venni con le ciaspole a mangiare nel 2009, sono nel pieno del caos della giornata festiva di sole, ma ci sporgono lo stesso due tazzine su un vassoio. Intanto il mio amico rimira con profonda invidia le terrine di tagliatelle ai sughi di arrosto e di erbette che ci scorrono davanti.
Per sentiero scendiamo nel prato fino al gruppo di case che dà il nome al rifugio, dove sono parcheggiate un po' di fuoristrada, dopodiché proseguiamo per la sterrata in discesa, tra ciclisti ed escursionisti in ambo le direzioni, con un po' di panorama verso punta Cornour alla testata della valle. Arriviamo a Ceresarea, dove non trovo la fioritura di ciliegi che il toponimo prometteva, perché gli alberi sono ancora spogli. Il fourèst si trova quasi sul fondovalle, alla testata di una zona a pendenza ridotta posta tra versanti ripidi, ed è costituita da casette curate ed è attorniato da terrazzamenti tenuti a prati.
Raggiungiamo l'Angrogna e lo passiamo su un guado di tubi di cemento, di fronte a una casetta ai piedi di prati terrazzati, con qualche grande masso nei dintorni. Nel bosco saliamo dolcemente fino a Chiot, un gioiellino da cliché bucolico, non serve dire molto altro, dove una famiglia è seduta a un tavolo nel giardino e due bambini giocano attorno a una bealera.
Aggiriamo le case e puntiamo al rio, dove c'è un guado sistemato, appena attraversato da un signore in compagnia di un cane di mezza taglia dalle zampe cortissime. Prima di raggiungerlo, notiamo una vipera allontanarsi dal sentiero.
Risaliamo alla borgata successiva Saben, accolti da un cucciolone nero che abbia furiosamente, ma poi si fa coccolare, e dalla mamma trattenuta dalla padrona, perché lei è meno brava. La signora è una pastora di quasi 80 anni ancora in attività. A differenza del vecchio di Serre non rimpiange la neve, perché senza la vita è meno aspra e con il rialzo delle temperature cresce verdura che una volta nessuno sognava di piantare, una considerazione già sentita altrove. D’altronde una tradizione orale vuole che vi fosse stato un tempo florido in cui un’erba magica cresceva abbondante, dove invece nei tempi passati non vi era che neve o ghiaccio per buona parte dell’anno. Tuttavia anche lei ha visto letteralmente svanire il suo popolo: «manca la manodopera», ci dice, con tutti i connessi di solidarietà di un gruppo coeso contro le avversità della montagna, con forme che andavano dai lavori collettivi di sgombero neve alle società di mutuo soccorso in caso di incendi o morte del bestiame. In questa valle ha forse la manifestazione più concreta e duratura nella Bealera Peyrota, un canale irriguo tenuto in esercizio con lavoro collettivo di corvée (ruide in dialetto) ormai da quasi 600 anni. Analogamente ve ne erano per la manutenzione delle vie di comunicazione, su terreni privati ma gravate da servitù pubblica, stavolta dette fiaresc.
Per contro la natura ostile ha guadagnato terreno: sono arrivati i lupi, che la impauriscono - «immaginatevi circondati da un branco di lupi», ci dice. Non si può non pensare al terrore atavico dei pastori impotenti contro il leone nello scudo di Achille, un'immagine che rimanda ai tempi remoti, di quando l'umanità viveva in isolette di civiltà minacciate dalla natura selvaggia. I grandi carnivori sono percepiti come esseri non assoggettabili alle norme di giustizia umane, totalmente al di fuori del nostro controllo, e perciò pericolosi come briganti.
Ciò che attrae gli escursionisti come me, che campano con le attività della pianura antropizzata e arrivano solo come visitatori, è visto in maniera parecchio diversa da chi lo deve affrontare in prima persona. L’abbandono dell’agricoltura marginale ha creato ampie aree in cui la natura ha potuto insinuarsi, dopo esserne stata espunta a partire dalle prime colonizzazioni medievali fino all’apoteosi dell’assalto alla montagna ottocentesco. Se è un bene per chi la vive nel tempo libero, è un dramma per chi si vede sopraffare. Un’ulteriore manifestazione è l’invecchiamento degli alberi da frutto, che non rendono più come una volta.
L’aspetto più eclatante è però la scomparsa dei suoi amati pascoli, ingoiati dai boschi, che lei ritiene colpevoli del disseccamento delle sorgenti, perché assorbono molta acqua. La cultura mediterranea non ha certo un rapporto idilliaco con i boschi: anche senza scomodare mostri sacri come Gilgamesh o Benedetto da Norcia, che cercarono l'immortalità abbattendo una foresta sacra, tra i latini gli dèi della natura addomesticata come Cerere o Bacco erano connotati positivamente, mentre il dio silvano Pan, simbolo degli istinti incontrollabili, era così negativo che i cristiani trasferirono nel diavolo la sua raffigurazione. Inoltre essi erano soliti piantare croci o edificare edicole votive nei pascoli montani sottratti al bosco, per confinarlo con la forza soprannaturale dei propri dèi. Quando il fascismo per motivi bellici tentò dei rimboschimenti, si trovò contro l'opposizione dei montanari e dovette scendere a patti con essi.
Nel mondo germanico, per contro, il bosco selvaggio è un valore: un tedesco incontrato qualche settimana fa in Liguria era sconvolto per i danni arrecati agli alberi dall'ondata di calore della scorsa estate. Curiosamente questa affezione deriva a sua volta da un mito latino, perché Tacito, volendo opporre moralmente i Germani ai corrotti Romani, li pose nei boschi, sebbene sin dal Neolitico avessero disboscato anch'essi per praticare l'agricoltura, seppure in maniera temporanea e non permanente come la più strutturata civiltà mediterranea.
È poi significativo che sia lei che il Malan attribuiscano gli effetti del cambiamento climatico a cause locali, legate all'avvenimento principale della loro biografia, ovvero l'inselvatichimento della montagna. La nostra intuizione non è in grado di cogliere una cosa così evanescente come il nesso tra biossido di carbonio e temperatura, che richiede mezzi intellettivi assai sofisticati e del tutto astratti dall'esperienza individuale. Ricordo di aver letto di uno scienziato che, durante un'operazione bellica, era stato sfiorato dall'esplosione di una granata nel momento in cui tirava la catena dello sciaquone e aveva avuto la percezione immediata di averla provocata lui stesso con quel gesto.
Con la signora facciamo una lunga chiacchierata sui tempi della gioventù, su cosa è migliorato e su cosa è peggiorato, mentre non scatto foto alla borgata, perché sembra infastidita da quelli che salgono apposta per farlo.
Dato che la prossima frazione è Chiavia e il marito di una signora con quel nome mi ha raccontato che è una colonia di sardi, le chiedo cosa ne sa. Scopro così che è una parente per parte di bisnonno, ma questa storia non le risulta, perché chaouvie (poi italianizzato dal fascismo) non è altro che il nome dialettale delle cornacchie. Su una pubblicazione del comune leggerò che fu ripopolata da savoiardi durante il periodo dell'esilio valdese, prima del Glorioso Rimpatrio: per questa ragione la mia conoscente era di famiglia cattolica.
Ci indica infine il prossimo ponte (dë l'Amach), che le risulta romano. I Romani valicavano le Alpi anche a 3000 m, come attesta un ritrovamento nelle valli di Lanzo, tuttavia conosco anche un ponte detto romano su cui è affissa la targa dei costruttori con la data del 1700; del Ponte del Diavolo di Lanzo, pur essendo di fine Trecento, già nei secoli successivi si era persa memoria, tanto da far nascere ben due leggende magiche al suo riguardo.
Trascino via a forza il mio amico, per non fare notte (arriveremo alle 19.30) e pure la pastora conviene che abbiamo ancora tanto da camminare: «Alè lünga», le dico facendo sfoggio dell'80% del mio torinese. Le richiamo così alla mente il maestro di Angrogna, immagino si tratti di Jean Louis Sappé, che cerca di tenere vivo il patois con gli scolari. Alla biblioteca valdese di Torre troverò un suo breve dizionario, in cui qualche voce serve a rievocare usanze passate e che saccheggerò ampiamente per questo diario. Tuttavia la signora ci fa pure notare che il nostro programma di esplorazione delle borgate è incompleto, perché a monte ce ne sono altre tralasciate dal nostro anello.
A valle delle case il sentiero diviene un pregevole manufatto e tale rimarrà fino a Chiavia, tra possenti muri ai lati e lastricato sul fondo. Ben presto giungiamo al ponte in pietra, con le pietre chiare appuntite sulle due sponde, non so se solo come decorazione o stavolta davvero perché le masche e il diavolo avevano il potere di scatenare i distruttivi temporali: una credenza valligiana voleva ad esempio che, per scongiurare le nefaste grandinate, bastasse disporre due falci a croce al loro approssimarsi. Come i lupi, non c'è modo materiale di soggiogarli e bisogna perciò fare affidamento sulle forze soprannaturali.
Poco oltre c'è Chiavia, anticipata da alti muri per le terrazze e da due covoni di fieno, già osservati a Saben. Sono detti fnie e sono coni di fieno pestato radunato attorno a un palo infisso nel terreno, pettinati all’esterno per renderli impermeabili. Il fatto che fossero lasciati nei prati ricorda che una volta non vi erano erbivori selvatici come caprioli o cervi in grado di consumarli mentre erano incustoditi (infatti non sono neppure citati come esistenti nel passato dal libro sul folklore di Pons): a Saben, dove non sono solo decorativi, sono ricoperti di quei fogli di plastica arancione traforata, che preservano appunto dal morso dei caprioli. È poi difficile comprendere quanto mi piacerebbe entrare nelle vecchie case abbandonate, senza rubare nulla, solo per manipolare testimonianze della vita che fu e provare a immaginare i pensieri di quella gente così lontana nelle prospettive di vita, una passione che mi ha trasmesso lei.
Arriviamo al parcheggio di Pra del Torno, dove termina l'asfalto e c'è già un certo traffico di rientro. Saliamo alla borgata, dove gruppi familiari con bimbi e cani occupano le vie; riconosco una signora tedesca incrociata lo scorso sabato, mentre saliva in gonna verso il Barfè in compagnia di un bambino. Nelle foto di un secolo fa le escursioniste hanno tutte la gonna, mentre ora prevale un abbigliamento unisex, anche se le tutine pronosticate dai film di fantascienza sono appannaggio solo di chi pratica sport come il MTB o il trail, mentre noialtri indossiamo ordinari pantaloni e maglietta, seppur in tessuti speciali.
Il tempio, simbolo del paese e facilmente riconoscibile da diversi punti del giro, fu edificato sul sasso a monte della vecchia frazione, per iniziativa di un attivo pastore sul finire dell'Ottocento; purtroppo oggi non è accessibile e possiamo solo leggere le targhe commemorative dei benefattori all'ingresso. In precedenza la rocca era stata a lungo una fortezza inespugnabile dei valdesi, caduta un'unica volta grazie all'acume strategico del generale francese Catinat, in quel momento alleato dei sabaudi, ma entro pochi anni nemico nel bagno di sangue della Marsaglia.
Edmondo De Amicis, in visita alle valli nel 1883, fu sorpreso di vedervi «una ragazza di dodici o tredici anni, una piccola vaccaia, scalza, con un cencio di vestito, [...] che leggeva un libro [in francese, ndr]. Era la prima contadinella italiana che vedevo leggere». Ogni comunità valdese stipendiava infatti un maestro, detto rezan in dialetto e régent in francese, dal momento che la capacità di leggere in autonomia la Bibbia e farsene un’idea personale è fondamentale per i cristiani riformati. C’erano quindi scuole superiori, destinate ai futuri pastori delle comunità; inizialmente furono unicamente maschili e solo dall’Ottocento ne furono aperte anche per le ragazze. L’istruzione di base si svolse a lungo in locali di fortuna, come le stalle. Solo per l’opera Charles Beckwith, ufficiale inglese rimasto mutilato a Waterloo che si stabilì nelle valli, furono edificati locali dedicati, spesso tuttora esistenti e adibiti a musei. Gli alunni dovevano essere parecchio vivaci, perché sono rimaste nella memoria le violente punizioni corporali previste per gli indisciplinati, così come le risse tra bande all’uscita dalle lezioni.
Dopo un fallito tentativo di socializzare con un pastore bernese, ci facciamo ingannevolmente attrarre da un cartello che promette un sentiero storico e tralasciamo pertanto la via diretta per Barma Mounastira. Arranchiamo su un ripido sentiero fino al Coulege dei Barba, dove la tradizione vuole che nel Medioevo vi fosse la scuola dei predicatori erranti clandestini, detti appunto barba (zio in latino medievale e piemontese odierno). Qui imparavano a memoria alcuni libri della Bibbia e un mestiere, per mascherare la loro attività. Al sinodo di Chanforan, indetto per discutere se aderire o meno alla Riforma e uscire allo scoperto, si opposero strenuamente, per mantenere invece la natura clandestina e sommersa. Questo edificio è sempre aperto e contiene ricostruzioni di locali. Entriamo quindi nel fitto bosco e prendiamo a salire anche ripidamente, transitando tra gruppi di case di cui restano quasi solo i muri perimetrali. Ad un certo punto il sentiero va su come traccia da capre per la massima pendenza, per poi tornare ben costruito e confluire su un altro proveniente da Bagnou. Scendiamo, anche ripidamente, per terrazze riprese dal bosco, fino a ritrovare il sentiero diretto e graduale.
Quasi subito oltrepassiamo un costone, con eccellente panorama sulla bassa valle e la pianura, dove si è dissolta la foschia mattutina e i dettagli sono ora nitidi. Siamo così a Barma Mounastira, un complesso di edifici rurali al riparo di una parete di roccia: lo suggerisce il primo termine del toponimo, di origine ligure, comune nelle Alpi Occidentali e in Liguria (nella variante arma). Una volta era abitata permanentemente (vi nacque la madre del signore di Serre Malan) ed era dotata di un vasto complesso di terrazzamenti, in parte attraversati poco prima e in parte nascosti, ma ben apprezzabili dalla strada tra il ponte Barfè e il rifugio omonimo.
La prima documentazione certa sulla barma risale al 1905, quando fu acquistata da Giacomo Odin di Fau, la frazione tra qui e Pra del Torno che abbiamo saltato, con i soldi guadagnati dalla moglie allattando una bambina proveniente dall’ospedale. Il nome non fa riferimento a monasteri antichi, ma a un cognome locale, Monastier, di cui compare già traccia in un documento del 1232 e che dà il nome alla prima borgata sfiorata. Allora vi era un solo edificio (su quello identificato come più antico è presente la data 1897 su una trave).
A mano a mano che la sua famiglia si allargava, con nascite a matrimoni, Giacomo, un abile muratore, costruì il resto, imitato dai suoi eredi. L’architettura scelta è abbastanza comune in montagna, con le stalle al piano terra e le abitazioni al di sopra. C’è anche un forno, che era acceso una volta al mese, per cuocere del pane di grano e segale. Allora serviva come abitazione invernale e sui terrazzamenti circostanti erano coltivate le solite patate, segale, grano saraceno, eccetera. Sulle rocce meglio esposte al sole era coltivata la vite, dai cui acini passiti si ricavava una bevanda immergendoli in acqua calda. La qualità di uva comune in valle era il doux d’henry, tuttora prodotta presso quel pilone votivo sulla collina, che si vede arrivando a Bricherasio dalla vecchia circonvallazione. Tuttavia il reddito agricolo, con la vendita del sovrappiù al mercato di Torre, non era sufficiente a mantenere la numerosa famiglia, per cui un po’ tutti scendevano anche a valle a prestare la propria manodopera, chi come muratore, chi come personale di servizio. Tutto sommato una sorte migliore di quelli costretti a emigrare stagionalmente nella lontana Francia a svolgere le mansioni più dequalificate, una sorte assai comune in valle sin dalle prime documentazioni storiche che ci sono pervenute, come la seicentesca Histoire générale del Leger.
Nel 1960 le famiglie si trasferirono a Buonanotte e la barma fu impiegata per un po’ solo come abitazione temporanea durante la transumanza. Dopo decenni di abbandono, e un tentativo di recupero nello scorso decennio, nel 2022 è stata acquistata da Marco Fraschia, insegnante ed ex preside del liceo valdese di Torre, e dalla consorte, in memoria del figlio Davide, prematuramente scomparso nel marzo 2020; il ragazzo aveva espresso il sogno di viverci, come anche lei, d’altronde, che era anche riuscita a ravanare dentro, quando era abbandonata, restando impressionata dalla quantità di scatolette di sardine presenti.
Attorno ci sono dei cartelli di proprietà privata e sui balconi c'è della gente, ma noi, non sapendo ancora nulla di tutto il pregresso, proviamo ad avvicinarci sperando non siano territoriali. Con nostra sorpresa e gioia, ci vediamo offrire una birra, che il mio socievole amico beve insieme a loro, mentre io, più timido, mi faccio allungare su un tavolo per i visitatori sotto un tettoia. Visto che paiono molto ospitali, mi faccio coraggio, salgo sul balcone ed entro. A questo piano c'è un semplice soggiorno con lavandino, stufa e tavoli, sul soppalco in legno una camerata da 8 posti con letti a castello come nei rifugi.
Marco organizza concerti, passeggiate naturalistiche, storiche e letterarie nei dintorni, attività per bambini e ha fatto attrezzare una palestra di arrampicata. È un modo di tenere vivo questo luogo che non troverà i favori della pastora di Saben, ma corrisponde a quanto si fa in pianura con gli edifici industriali dismessi dalla terziarizzazione dell'economia, trasformandoli in luoghi della cultura o dei servizi alla persona, le attività in maggiore espansione in questi ultimi decenni. Qui non mi pare attuabile l'alternativa di un'agricoltura di prodotti ad alto valore aggiunto conditi con l'immaginario della montagna, vista la lontananza dalle strade e la rusticità delle abitazioni. Gli lascio il mio numero di telefono per essere aggiornato sugli eventi futuri.
Riprendiamo in traverso e raggiungiamo delle baite abbandonate, con l'ultimo scorcio panoramico prima di Cacet, in quanto ora ci aspettano l'ora di luce più fotogenica, senza la possibilità di riprenderla per l'esteso bosco. Al primo bivio, non segnalato, prendiamo la direzione sbagliata, perché questo sentiero non è riportato sulla mappa Fraternali, consultata prima di riprendere il cammino, e credo pertanto di essere già al prossimo. Quando mi rendo conto di dirigermi dalla parte sbagliata, decidiamo di tornare sui nostri passi, per vedere anche l'altra barma, anche se ci tocca un'erta risalita di 100 m fino al bivio, seguita da un ulteriore strappo non da meno. Dal culmine, con una breve discesa siamo alla Barma dl’ Ours (secondo la Fraternali) o dar Loup (secondo la pastora di Saben) o ancora barma e basta. Questa è abbandonata e gli edifici sono più modesti, ma altrettanto suggestivi e senza dubbio ancora più rustici, tanto da giustificare il richiamo del nome alla natura selvaggia. Quando già non vi abitava più alcuno, fu sede della prima stamperia clandestina del locale giornale partigiano, che successivamente si trasferì sempre più vicino alla civiltà a mano a mano che la resistenza guadagnava terreno. Ovviamente ai locali non poteva essere tenuta nascosta, ma i ribelli potevano contare sulla naturale ostilità dei valdesi verso il fascismo, che tra le altre cose aveva imposto il cattolicesimo come religione di stato, l'italiano come unica lingua del culto (l'assemblea religiosa valdese) - tradizionalmente era alternato al francese per via del legame teologico con il calvinismo ginevrino - e italianizzato i cognomi e i toponimi di una comunità tradizionalmente cosmopolita ed europea.
Percorriamo quindi il tratto meno interessante del giro per un profano, in quanto richiederebbe un botanico, per apprezzare le mille variazioni della vegetazione al mutare del soleggiamento, dell'umidità e così via (come spiegato in effetti in una delle passeggiate organizzate da Marco). Io a malapena stamattina avevo notato che i farfaracci bianchi al principio della fioritura, quei fiori sferici che a lei ricordano i virus, riconoscibili perché crescono attorno alle sorgenti e lungo i rii. All’ennesima rimonta ripida, che oltrepassa in souplesse pur essendo sovrappeso e fuori allenamento, dato che in queste condizioni può tranquillamente sciropparsi una gita da 9 ore per 1500 m, il mio amico mi consiglia di riflettere bene prima di condurre lei su questa via, se non voglio rischiare il divorzio prematuro. Forse dovrei prima procurarle un esemplare di jumarre, il fantomatico animale domestico delle valli valdesi, nato dall’incrocio tra un cavalla e un toro, dalla forza «inconcepibile» e in grado di «divorare la strada», come neppure una chimera tra una Harley e una Lamborghini oggi potrebbe, che il Leger afferma di aver cavalcato per mesi attraverso le Alpi. A lei piace Tolkien, quindi una creatura leggendaria farebbe al caso suo.
Dopo una zona ombrosa che durava quasi senza interruzione dalla prima barma, raggiungiamo nei prati a monte di Cacet il sole, in procinto di scomparire dietro i monti: riesco ancora a scattare un paio di foto prima di finire nella cupa monotonia della sera in una forra. Vittorio Amedeo II, venuto ad ammirare di persona la fortezza valdese espugnata da Catinat, restò molto impressionato da questa valle descritta come «inaccessibile». Allora era ancora in fasce l'ammirazione per il sublime dei monti, per cui avvolti dalla impenetrabile vegetazione dovevano apparire assai repellenti.
Prima di Cacet salutiamo un pastore di pecore, preoccupato per l'assenza di pioggia. Un detto locale afferma che se ad aprile piovesse per 31 giorni non sarebbe un problema: invece questo è stato l’ennesimo mese quasi senza pioggia, una siccità estrema che si protrae da un anno e mezzo e, come abbiamo constatato a Serre Malan, ha seccato sorgenti ritenute perenni. Poi peraltro le poche gocce cadute di recente sono state sufficienti a far spiaccicare dalle auto le salamandre persino nei posti più spopolati, come abbiamo constatato nel primo troncone di gita. Non ne vedo una viva da un anno, per arrivare a due devo risalire indietro di altri 7 mesi. Solo a cavallo con maggio cadrà la prima vera pioggia da allora.
Tra le case non dobbiamo seguire i segnavia, che conducono in quota a Serre, una delle frazioni principali di Angrogna; dobbiamo invece scendere nella parte bassa del paese, dove le abitazioni sono in rovina e quindi proseguire ripidamente nella fitta faggeta. Raggiungiamo e superiamo due anziane dall'aria alto borghese, che ci chiedono se percorriamo spesso questo sentiero. Come altri prima, restano molto impressionate dal nostro giro, che non è poi chissà quanto lungo, ma senz'altro inusuale, perché la minoranza di italiani che non cammina in montagna solo per brevi tratti fino alla polenta o al prato su cui crogiolarsi al sole, come illustri escursionisti stranieri del passato e del presente hanno osservato, va piuttosto dritta verso le cime.
Raggiunta la strada a Gournie, dove la sua costruzione ha cancellato una marmitta detta nera e ritenuta scura perché senza fondo. La seguiamo in discesa e in cinque minuti siamo al mulino del mattino.
Potrei dire al mio amico che a Torre c'è la pizzeria di un legionario in congedo, reduce della Guerra del Golfo, dove si scialerebbe coi discorsi militari, lui che ricorda la leva come uno dei periodi migliori della sua vita. Tuttavia già al mattino aveva espresso apprezzamento per lo schifezzaio sotto casa mia, dove finiamo pertanto a ingurgitare gloriosamente altra birra e sale condito con patatine.
La gita sarà però davvero conclusa solo dopo una puntata alla raccolta biblioteca valdese di Torre Pellice, per leggere una tesi di laurea su Barma Mounastira e qualche altro libro sulla valle, irreperibile nei circuiti delle biblioteche civiche torinesi e dello SBAM. Qui peraltro riuscirò e a reperire dei ciclostilati, battuti a macchina e disegnati a mano al comune di Angrogna, come usavano fare le mie maestre quando ero alle elementari.
Per approfondire
- R. Bertot, Architettura rurale in val d'Angrogna, Angrogna 1985
- E. Buffa, L'alta Val d'Angrogna, Angrogna 1991
- H. Küster, Storia dei boschi, Torino 2009
- J. Leger, Histoire générale des Eglises evangeliques des vallees de Piemont ou vaudoises, Leida 1669
- C. Papini (a cura di), Come vivevano. Val Pellice, valli d'Angrogna e di Luserna fin de siècle (1870-1910), Torino 1998
- R. Pogue Harrison, Foreste. L'ombra della civiltà, Milano 1992
- T.G. Pons, Vita montanara e folklore nelle valli valdesi, Torino 1992
- A. Rodella-G. Zetti, Barma Mounastira, un'architettura da riscoprire, restaurare e vivere, Tesi di laurea (relatore E. Coïsson), Università degli Studi di Parma, Corso di Laurea Magistrale in Architettura, AA 2014-2015
- J.L. Sappé, Lou courousèt e la furmìa : piccolo dizionario delle parlate occitane della Val d'Angrogna, Saluzzo 2012
- F. Sappé, Angrogna di là del Vëngie, Angrogna 1990
- F. Sappé, Angrogna di qua del Vëngie, Angrogna 1987
- G. Sena Chiesa - A. Pontradolfo (a cura di), Mito e natura. dalla Grecia a Pompei, Milano 2015
- E. Buffa, L'alta Val d'Angrogna, Angrogna 1991