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M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018
Il libro nelle prime pagine sostiene che il bosco italiano va considerato un manufatto. L'autore procede poi con una lunga serie di esempi, dal tempo dei Romani ai giorni nostri, che articolano in maniera convincente quest'affermazione: mostra infatti come il paesaggio boschivo italiano, almeno fino al secondo dopoguerra, tanto per le specie presenti quanto per le loro interazioni con il contorno, sia il prodotto delle attività, agricole, pastorali e industriali, oltre che della cantieristica navale, a cui è dedicato un capitolo specifico. Questa consapevolezza oggi spesso manca agli agenti, che hanno il potere gestionale. Una premessa esplicita di questo libro è che ciò sia un valore aggiunto del paesaggio italiano, che ha sempre suscitato l'ammirazione dei viaggiatori stranieri. Sotto questo punto di vista, il rapporto italiano con il bosco è perciò agli antipodi della concezione germanica, alla base delle narrazioni dei fratelli Grimm o dei dipinti di Friederich, ma molto in consonanza con la selvicoltura tedesca dell'Ottocento. Infatti una premessa invece implicita, forse non chiara all'autore ma molto evidente, è che il bosco vada considerato, secondo la concezione illuminista, puramente come riserva di materie prime a beneficio delle attività umane (si veda il libro di Pogue Harrison per un approfondimento di questi temi). Non sfiora mai i pensieri dell'autore, se non come argomentazione strumentale alle sue tesi, l'idea che il bosco sia un ecosistema in cui anche altre creature hanno diritto di esistenza: anche quando cita la selvicoltura naturalista, la valuta solo come conseguenza del passaggio alla fruizione turistica umana, che negli ultimi decenni ha sostituito quella agricola nel plasmare il paesaggio montano. A partire dall’ultimo dopoguerra è infatti profondamente mutata l'occupazione del territorio: da un «paesaggio verticale» con antropizzazione diffusa sulle pendici montane e collinari, si è passati all'urbanizzazione diffusa della pianura e di alcune aree limitrofe, a cui si è accompagnato l'abbandono di vaste aree montane, dove si sono formati estesi boschi spontanei.
Purtroppo il libro parla pochissimo delle zone montane che frequento abitualmente, se non per un breve cenno ai boschi da marina dell'Olba e un capitolo sulla castanicoltura, che rivestiva un ruolo centrale nel cuneese. Per dire, non cita mai il pino silvestre, un albero molto comune nella media montagna piemontese. Esaustivo il capitolo sulle carbonaie.
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M. Aime, Chalancho. Terra provenzale, Torino 1979
M. Aime, Il lato selvatico del tempo, Milano 2008
Marco Aime, antropologo, per scrivere la sua tesi di laurea trascorse un anno nella borgata Cialancia di Pradleves, in valle Grana, dove i genitori avevano una casa e lui era ben integrato. Era il finire degli anni ‘70, quando sopravvivevano gli ultimi testimoni del mondo contadino di montagna, i cui racconti di vita erano stati da poco trascritti da Nuto Revelli. L'intellettuale cuneese compare anche in un breve incontro, che Aime cercò durante la stesura del lavoro. Lo scopo dell'esperienza era di raccogliere i racconti di masche e tentarne un'analisi, che forma il nucelo del libro, insieme alla descrizione della vita dei protagonisti, che Aime condivise con loro. A poco a poco emerge come la credenza in questi esseri fantastici fosse ben integrata con i valori del villaggio e ne fosse funzionale.
Il libro è stato ripubblicato in anni recenti senza rielaborazioni, adoperando i nomi veri dei protagonisti, nel frattempo deceduti, ma omettendo le fotografie che l'autore aveva scattato loro.
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M. Armiero, Le montagne della patria, Torino 2013
La deprimente storia del primo secolo del rapporto tra la classe dirigente italiana e le montagne. Queste, pur occupando un terzo della superficie del Paese, hanno sempre avuto un ruolo subordinato. Fin dalla guerra contro il brigantaggio negli Appennini Meridionali, è prevalsa la narrazione di terre e genti da addomesticare, per il loro bene e il supremo interesse della nazione. Ciò ha comportato una politica quasi coloniale da parte dello Stato centrale, fatta di repressione e culminata con il genocidio annunciato del Vajont, in cui i montanari pagarono le spese del progetto di modernizzazione del Paese. Con le due guerre mondiali e la retorica ruralista del fascismo assunsero il ruolo di territorio eroico e guerriero della nazione, fungendo nel contempo come serbatoio di carne da cannone.
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G. Bachelard, Psicanalisi delle acque, Milano 2006
Il libro è un'analisi dell'immaginario poetico dell'acqua. La psicanalisi freudiana in realtà non c'entra molto: è un'interpolazione del traduttore italiano, in quanto il titolo originale suona piuttosto come “Il sogno ad occhi aperti e l'acqua”. Lungi dall'essere una rassegna sistematica, è un viaggio onirico tra le opere amate dall'autore, un epistemologo di impianto razionalista. Questa duplicità rende il libro affascinante e denso di spunti.
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P. Barillà - M. Blatto, Geologia e forme del paesaggio per escursionisti, Rimini 2007
Un'introduzione da zero agli aspetti della geologia e della geomorfologia di interesse per un escursionista. Nella prima parte c'è una sintetica introduzione ai vari tipi di rocce che possiamo incontrare nelle Alpi, oltre che dei concetti di geologia generale e alpina. La parte più interessante è la seconda, dove gli autori insegnano a leggere il paesaggio, ovverosia a capire quali agenti lo hanno modellato e reso così come lo vediamo oggi.
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W. Bätzing, Le Alpi. Una regione unica al centro d'Europa, Torino 2005
Werner Bätzing è il geografo tedesco noto per aver reso popolare nei decenni scorsi la Grande Traversata delle Alpi (GTA) tra gli escursionisti della sua patria, che oggi ne sono i maggiori fruitori. Nel libro traccia una veduta a volo d'uccello della storia e del futuro possibile del popolamento umano delle Alpi. L'autore punta a fornire un'immagine delle Alpi quanto più completa possibile, mettendo in luce la parzialità dell'immaginario romantico, di origine alloctona, spesso alla base dell'interesse alpinistico e turistico. I problemi sono affrontati con una prospettiva originale, fondata su studi empirici, che smonta anche qui miti e immaginari assai diffusi, tanto da essere comunemente scambiati per la realtà (come alcune idee della sostenibilità, o la concezione delle Alpi come santuario della natura in contrapposizione alla pianura). L'opera è divisa in quattro parti: dopo una panoramica storica sull'era agricola e sulle modalità con cui questa sfruttava l’ambiente alpino, sono analizzate le profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali innescate dalla Rivoluzione Industriale e della successiva terziarizzazione anche sulle Alpi. L'autore ne analizza le ricadute, prima in maniera analitica, quindi evidenziando le interrelazioni delle sue sfaccettature, che hanno condotto le Alpi verso la marginalità e la sua trasformazione in periferia di processi con il centro altrove. Inoltre la tradizionale cultura agricola alpina e la modernità si basano di solito su presupposti ideologici antitetici, nei cui confronti l'autore non vede in corso nessun tentativo, capace di una sintesi in grado di rispondere alle sfide contemporanee. Le Alpi si orientano piuttosto a una polarizzazione tra urbanizzazione da un lato, come periferia e area integrativa o di compensazione della pianura, che non dipende dalle risorse alpine e non è pertanto interessata a preservarle, e spopolamento dall’altro. È la conseguenza del modello economico attuale, che sfrutta massivamente alcune aree favorevoli e ne tralascia del tutto altre marginali, a differenza dell'era agricola, che presentava un'antropizzazione capillare e misurata sulla capacità riproduttiva dei sistemi: infatti allora i contadini erano costretti a estrarre risorse senza segare il ramo su cui sedevano, mentre oggi le attività ubiquitarie non pagano in prima persona i costi di uno sfruttamento errato. Il problema di fondo è che fu proprio questo sfruttamento estensivo e diffuso a creare l'immagine delle Alpi che, a partire dal Settecento, suscitò l'interesse e l'ammirazione delle genti sviluppate e motiva tutt'oggi la gente a frequentarle. Interessante infine notare che le sue osservazioni sembrano escludere l'esistenza in passato di una cultura comune alpina, distinta da quella dei territori circostanti, in quanto i modelli insediativi ed economici sono sempre stati profondamente influenzati dalla cultura delle pianure limitrofe; né lo si può prospettare per il futuro, come regione europea, perché il mercato unico richiede l'omogenizzazione e la scomparsa della diversità. Il libro si chiude con le proposte su cosa si debba intendere per sviluppo sostenibile delle Alpi, che per l'autore non è anche stavolta separabile da quello dell'Europa intera (a questo proposito basta pensare all'impatto del traffico di transito, dovuto ai processi di divisione del lavoro sempre più spinti dell'economia delle pianure). Purtroppo l'attuale fase degli egoismi nazionalistici e della concorrenza tra stati, posteriore alla stesura del libro, sembra andare in direzione antitetica a quanto ritenuto necessario.
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W. Behringer, Storia culturale del clima, Torino 2013
Chi va in alta montagna ha la percezione immediata dei cambiamenti climatici occorsi da metà Ottocento, da quando i ghiacciai hanno cominciato a ritirarsi. E anche da prima, quando scopre la storia dei Walser. I cambiamenti climatici che si sono succeduti negli ultimi millenni hanno avuto profondi effetti su tutte le civiltà della storia e anche della preistoria. Questo libro li ripercorre. Si concentra soprattutto sulla Piccola Era Glaciale, sia perché è il periodo in cui è specializzato l'autore, sia perché è quello con la maggior messe di documenti disponibili. Tuttavia la prende da molto lontano, dall'Età del Bronzo. La stessa colonizzazione dell'alta montagna, così come è stata vissuta fino a qualche generazione fa, è figlia di una fase climatica ben precisa.
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M. Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell'aria. L'esperienza della modernità, Bologna 2012
«Perché le montagne esistono da sempre, ma la montagna è un’invenzione recente, che nasce in città» scrive Aldo Audisio, a lungo direttore del Museo della Montagna di Torino. Questo libro non parla mai di montagne, ma va alla radice del fenomeno culturale dell'avventura della modernità, che ne ha spazzato via la civiltà e l'ha resa un luogo dove vale la pena andare (le contraddizioni sono insite nella modernità). Come è analizzato nei primi capitoli, alla base di tutto c'è la desacralizzazione del nostro rapporto con il mondo, che ha privato anche la montagna dell'aura di sede e del divino o del demoniaco e l'ha resa invece un luogo dove vivere l'avventura verso l'ignoto, allegoria dei tempi nuovi. La cosa interessante del libro, che traspare nell'ultimo capitolo, è che l'autore scrive nel duplice ruolo di alfiere e vittima dei distruttivi processi di modernizzazione: un doppio vincolo da cui tenta di uscire disperatamente postulando forzosamente una corruzione dell'originario spirito moderno, anziché accettare di essersi trovato da incolpevole sul fronte perdente della storia, come Filemone e Bauci spazzati via da Mefistofele nel Faust di Goethe, o, nel mondo a noi vicino, le vittime degli incidenti stradali o del Gleno.
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D. Bobba, Boschi, comunità, Stato. Piemonte 1798 - 1861,
Il libro, che è una tesi di laurea, ricostruisce la storia del rapporto tra i boschi e il potere centrale piemontese nel periodo in questione, nel quale la gestione dei boschi passò da un controllo locale a uno centralizzato. Nel Settecento la produzione di legna dai boschi aveva assunto un ruolo cruciale, per foraggiare la nascente industria e l'accresciuto tenore di vita cittadino; per queste ragioni, i poteri centrali avviarono delle riforme per sottrarre il controllo sui boschi alle comunità locali, a beneficio delle industrie e delle città.
L'ho trovato interessante soprattutto perché illustra le ragioni storiche ed economiche, che portarono al divieto e alla criminalizzazione dell'uso consuetudinario medievale di raccogliere liberamente legna dai boschi. La cosa fu ed è tutt'ora fonte di conflitti e contestazioni, in quanto perdura, sebbene le ragioni storiche che l'hanno motivata sono venute meno: allora la legna era un bene di primaria importanza come combustibile per la città e e per le industrie, mentre oggi non avrebbe più senso impiegarla, dal momento che è di gran lunga il più inquinante tra quelli disponibili (svariati ordini di grandezza in più di gasolio e metano).
Per scoprire invece come e perché questo divieto evolse nella seconda metà dell'Ottocento e nel periodo fascista bisogna leggere M. Armiero Le montagne della patria
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W. Bonatti, In terre lontane, Milano 2014
L'ordinata fila di turisti aspetta il proprio turno per ammirare la seraccata del Perito Moreno dalle passerelle in acciaio e legno. I pulmini attraversano il Serengeti e i turisti fotografano i leoni dal tettuccio. Prima dell'aurora, gli escursionisti diretti al campo base dell'Annapurna si accatastano sul trespolo da cui ammirare il sorgere del sole. Queste sono le scene che vive chi fa viaggi esotici: oggi i viaggi nei cosiddetti paradisi naturali si presentano così, come pacchetti preconfezionati, in cui una minuziosa organizzazione non lascia nulla all'imponderabile. L'iniziativa individuale è scoraggiata. Questo libro presenta invece un modo del tutto alieno di viaggiare nella natura, ponendosi di fronte ad essa nella propria nudità. Io non potrei mai cimentarmi in imprese del genere, ma il mio sito si chiama “In terre vicine” anche in omaggio a questo libro.
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F. Brevini, L'invenzione della natura selvaggia, Torino 2013
Una storia di come si è evoluto il rapporto tra uomo e natura selvaggia, la montagna in particolare, dal timore all'idolatria acritica e al consumismo.
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C. Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Torino 2017
Il diario della circumnavigazione del mondo sul Beagle, che ispirò a Darwin la teoria dell'evoluzione delle specie. Come il titolo italiano ben suggerisce, è denso di osservazioni naturalistiche, soprattutto geologiche, effettuate durante le frequenti escursioni a terra, nei momenti in cui il Beagle era attraccato in porto. Al di là del fascino per un mondo ormai scomparso, è molto interessante il confronto con la diversità di un giovane profondamente intriso della cultura della sua patria, che è stato educato a considerare come uno stato necessario e perfetto della civilizzazione umana. Al suo interno, emergono però tratti della sua personalità, che lo porteranno a metterla in dubbio, almeno in parte: in particolare, è molto evidente la sua compassione verso la sofferenza, che in età matura lo porterà ad abbandonare la credenza in un dio infinitamente buono e giusto. Per chi ama l'escursionismo, sono molto coinvolgenti le sue pagine sulle avventure nelle terre inesplorate, in particolare nelle foreste selvagge della Terra del Fuoco.
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B. De Luca, L'arte del fuoco nascosto. I carbonai del Cansiglio, Sommacampagna 2018
Il libro è la tesi di laurea dell'autrice. Negli anni ‘90, condusse una serie di interviste tra i vecchi superstiti che avevano esercitato in gioventù il mestiere di carbonaio, oggi estinto, nel bosco del Cansiglio in Veneto. Le interrviste furono condotte in dialetto e in dialetto sono riportate le estese citazioni, rese più accessibili da una trascrizione con grafia italiana e un glossaario dei termini.
Ne emerge lo spaccato di questa attività: come si conduceva il lavoro, come si viveva, com'era organizzato il commercio, il rapporto con i contadini, i valori del gruppo, la loro socialità. L'autrice analizza poi dal punto di vista antropologico il loro ruolo nel mondo di quegli anni, la percezione che essi avevano di sé stessi e che gli altri avevano di loro, il loro rapporto con il fuoco e il bosco e come esso si rifletteva su di loro.
Un testo davvero completo e capace di offrire uno sguardo culturale su questo mestiere, che va molto oltre la pur interessante descrizione della tecnica.
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J. Dorst et al., Guida del naturalista nelle Alpi, Bologna 1983
Mantiene quello che il titolo promette: una guida a tutto tondo degli aspetti dlla natura alpina. Un libro datato, a volta accademico e pedante, ma non ha avuto nessun successore altrettanto ricco e completo. Tende a lasciare in disparte il settore interno dell'arco alpino.
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B. Gallino - G. Pallavicini, La vegetazione delle Alpi Liguri e Marittime, Peveragno 2000
Ho cercato per tanti anni un libro come questo. Non presenta solo un elenco di specie vegetali che potremmo incontrare in una escursione, ma spiega perché in certi posti ne troviamo alcune e non altre. Le piante non nascono in posti a caso, ma la presenza di certe specie piuttosto che altre in un ambiente racconta del clima e del terreno su cui camminiamo. Il contraltare vegetale al libro di Barillà e Blatto. È riferito a un settore partcilare dell'arco alpino, ma molti concetti sono del tutto generali.
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A. Girani - S. Olivari, Guida al Monte di Portofino, Genova 1986
Tutte le guide escursionistiche dovrebbero essere come questa. Contiene un'approfonditissima disamina degli aspetti naturalistici e antropici che rendono il promontorio una meraviglia. Certo è molto datata: ad esempio tra la fauna non cita i cinghiali, perché chiaramente fu scritta prima che i cacciatori cominiciassero ad immettere gli ibridi ad alta prolificità, che oggi sono onnipresenti. Lo stesso autore ne ha scritta una analoga sulle Cinque Terre.
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D. G. Haskell, La foresta nascosta, Torino 2014
Un naturalista disegna un cerchio di un metro di diametro nella foresta del Tennessee, presso la sua abitazione, e ci torna regolarmente per un anno a osservare la natura al suo interno. Ogni visita è una porta spalancata, per condurre il lettore in un viaggio nello spazio, nel tempo, nella meraviglie della natura, nella filosofia, tra i laboratori dei naturalisti e negli ecosistemi primari…. Con il supporto della letteratura scientifica sui vari temi, l'autore ci guida tra ciò che abbiamo scoperto e gli enigmi irrisolti del mondo naturale.
Eccone una citazione: «Almeno metà del contributo di un albero al tessuto della vita giunge dopo la sua morte, quindi la misura della vitalità di un ecosistema forestale è la quantità di legno morto. Ti trovi in una grande foresta se non riesci a camminare dritto senza dover scavalcare grossi rami e tronchi caduti. Un suolo sgombro è segno di cattiva salute»
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Bert Hölldobler - Edward O. Wilson, Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica, Milano 2020
Posso darvi atto che, durante un’escursione, vi emozionate di più se sorprendete un cervo o una martora dileguarsi, piuttosto che un’ordinata fila di formiche attraversare il sentiero. Tuttavia questo libro vi farà guardare con occhi nuovi questi umili insetti.
Essi infatti, tramite un sistema di acquisizione e elaborazione basato su pochi semplici segnali chimici, sono riusciti a sviluppare comportamenti complessi e società molto organizzate, strutturate secondo una rigida suddivisione in caste, in cui l’individuo si sacrifica in tutto o in parte a favore del gruppo. Il sacrificio è tale che il formicaio può essere visto come un organismo unico, in grado di generarsi, vivere e riprodursi e soggetto alla stessa pressione evolutiva di un individuo di una specie più solitaria (allo sviluppo di questa teoria scientifica è dedicato un libro specifico, più tecnico, Il superorganismo).
Il libro, di livello divulgativo, è scritto da due naturalisti, un americano e un tedesco, che sono riusciti a trasformare una fascinazione fanciullesca in un lavoro, perché hanno potuto dedicarsi a studiare per tutta la vista alcune tra le moltissime specie esistenti. Il libro è anche in parte un’autobiografia intellettuale. I due ricostruiscono la loro storia evolutiva e mostrano tutti gli articolati rapporti che stabiliscono con altre specie: hanno infatti un impatto ambientale non da poco, favorendo attivamente la diffusione di alcune specie e ostacolandone altre ad esse ostili. Sono inoltre in grado di modificare l’ambiente circostante e anche climatizzare i loro nidi quando le temperature esterne sono fuori del loro intervallo di comfort.
Tutte queste capacità hanno loro consentito di avere lo stesso successo evolutivo di Homo sapiens, senza però causare estinzioni di massa o impoverimento della biodiversità, né alterare il clima.
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G. Kappenberger - J. Kerkmann, Il tempo in montagna, Bologna 1997
Un'introduzione molto approfondita al mondo della meteorologia, indispensabile per andare in montagna con sicurezza e utile a capire le meraviglie dell'atmosfera.
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H. Küster, Storia dei boschi, Torino 2009
«La trasformazione, quale caratteristica del bosco come sistema vivente, l'influenza sempre più forte esercitata dall'uomo sulle foreste e la nascita del mito del bosco, che comporta un approccio particolare nei suoi confronti, sono i temi principali che costituiscono l'oggetto di questo libro». Il centro geografico di questa narrazione è la Germania, dove la coscienza nazionale è strettamente legata al valore del bosco selvaggio. È una conseguenza di una rilettura settecentesca delle impressioni che l'ambiente dove vivenao gli irriducibili Germani fece sui Romani, piuttosto che su dati oggettivi.
L'estensione e la composizione dei boschi hanno sempre avuto una variegata evoluzione storica, già prima dell'intervento umano, per effetto dei processi evolutivi delle piante e dei cambiamenti climatici occorsi nella storia della Terra, oltre che della biologia e della dinamica dello sviluppo vegetale, non sempre note. Con la nascita dell'agricoltura del neolitico e l'impiego sempre più intensivo di legna, l'uomo cominciò ad abbattere le foreste, seppure in maniera temporanea, per poi abbandonarle di nuovo alla spontaneità. Tuttavia il bosco ricostitiuito era ora composto da essenze diverse prima rare, come il faggio, che oggi è considerato caratteristico di quelle zone, mentre altre prima comuni quasi scomparvero dai dintorni. Ancora maggiore fu la pressione della città medievale, che ora non poteva più essere spostata dove il legno era disponibile, tanto che lo si dovette andare a cercare sempre più lontano, trasportandolo via acqua. Le città in continua espansione demografica ed economica, con i grandi palazzi, i riscaldamenti, le flotte navali furono infatti degli enormi consumatori di legna, di cui dovettero approvvigionarsi sempre da più lontano, a mano a mano che i boschi erano distrutti a un ritmo superiore alla loro capacità di rigenerazione. Si spostarono invece sulle tracce del legno gli stabilimneti proto-industriali, della lavorazione del vetro, dei metalli o dell'estrazione del sale, tutte attività gestite senza pensare alla riproduzione delle risorse necessarie, ma unicamente per il profitto. Solo la passione dei principi per la caccia fu un fattore di limitazione della distruzione. La pressione sulle selve fu così forte che dovette essere regolamentata, per bilanciare i vari interessi, ma ciononostante alcune guerre furono motivate anche dai conflitti per l'accesso al legname. Tuttavia diminuì non per effetto delle leggi forestali, ma perché la scoperta ottocentesca di prodotti alternativi ne ridusse la richiesta, decretando finalmente il successo dei rimboschimenti; la silvicoltura tedesca fu per questo considerata un modello. Oggi la maggior parte dei tedeschi crede che questi boschi, prevalentemente di abete rosso, siano sempre esistiti e coincidano con quelli dei loro antenati primitivi, quando invece la composizione e l'estensione sono un manufatto recente. Anche il Terzo Reich si interessò ai boschi, secondo una prospettiva di pretesa eternità e in assenza di conflitti, in consonanza con la propria ideologia totale e in contrasto con la natura storica del bosco. Anche le moderne politiche di tutela e gestione dei boschi si scontrano con il carettere transeunte degli ambienti: non esiste una risposta univoca alle esiegenze dei vari attori che beneficiano dei boschi e degli ambienti naturali in genere.
Il libro è impostato in maniera discorsiva e divulgativa piuttosto che come un trattato scientifico, ma ogni capitolo è comunque dotato una ricca bibiografia, anche scientifica, quasi tutta in tedesco, per chi volesse approfondire.
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R. Macfarlane, Luoghi selvaggi, Torino 2011
L'autore parte per una serie di viaggi alla ricerca degli ultimi luoghi selvaggi della Gran Bretagna, dirigendosi verso angoli remoti dell'arcipelago, dove oggi non c'è presenza umana stabile. Non si tratta tuttavia di luoghi intonsi, ma spesso di ambienti colonizzati in passato, dove l'uomo oggi non vive più a causa di complicate vicende storiche, e in cui la tracce della civiltà attuale possono peraltro essere ben marcate. Anche se queste immersioni gli offrono delle forti impressioni, per induzione scopre anche che il selvaggio si nasconde in tutto ciò che sfugge ai piani e al bisogno di controllo dell'uomo, offrendogli la possibilità della scoperta della diversità e dell'irriducibilità, anche a due passi da casa: una sorta di epifania del terzo paesaggio di Gilles Clément. Nel corso dei viaggi, l'autore ci presenta inoltre una nutrita rappresentanza di donne e uomini, che hanno fatto della vita a contatto con la natura (nelle sue tantissime forme) una ragione di vita e attraverso cui vi hanno dato un senso.
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F. Marucco, Il lupo - biologia e gestione sulle Alpi e in Europa, Gavi 2014
Il grande carnivoro raccontato dalla persona che più di tutti in Italia l'ha seguito nella sua ricolonizzazione dell'arco alpino. Francesca Marucco lo studia infatti da oltre vent'anni, da quando i primi branchi si stabilirono nelle Alpi Liguri. Un ampio capitolo è dedicato alle reazioni umane a questo animale dalle valenze anche simboliche.
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C. Menta, Guida alla conoscenza della biologia e dell'ecologia del suolo, Bologna 2008
Le meraviglie che restano nascoste sotto le nostre suole: la maggior parte degli esseri viventi, non sono infatti quelli che come noi stanno in superficie, ma quelli che vivono nel terreno. Anche il libro che vi farà apprezzare il bosco “sporco”, come dicono i montanari.
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D. Moreno, Dal documento al terreno, Genova 2018
Il titolo scarsamente acchiappa clic (che all’epoca della pubblicazione erano una novità tecnologica e non servivano allo scopo di farci consumare pubblicità) designa un manuale metodologico di ricerca storica e archeologica dei sistemi produttivi rurali di un professore dell’università di Genova.
In esso propone un metodo per far dialogare discipline diverse tra loro, non limitandosi a sovrapporre i rispettivi risultati, ma adoperando le informazioni di una disciplina per estrarre ulteriori informazioni dalle altre. Le principali discipline coinvolte sono: la geografia, l’archeologia, sia locale su singoli manufatti, che estensiva su ampi territori, la storia dei documenti, sia carte topografiche storiche che atti di processi, indagini, transazioni economiche etc. e infine l’ecologia storica, ovvero l’analisi della vegetazione attuale per risalire alle metodologie di sfruttamento passato del territorio.
Essendo un manuale universitario, dà per scontate un po’ di conoscenze. Consiglio di leggere prima almeno “Boschi, comunità, stato” di D. Bobba, che spiega in cosa consistono e come si sono succedute nel Regno di Sardegna delle metodologie di sfruttamento agrario delle zone arborate (il regime consuetudinario e il regime forestale), che Moreno cita spesso senza mai introdurle.
Il libro risale al 1990, ma In occasione del pensionamento del professore nel 2018 ne è stata edita una nuova versione, aggiungendovi dei contributi di chi ha collaborato e dialogato con lui. Purtroppo è reperibile solo con una procedura complessa e costosa dal sito dell’università di Genova, che ne è l’editore (io ho aspettato che ne saltasse fuori una copia di seconda mano sui siti specializzati)
L’interesse per l’escursionista ligure sta nel fatto che, per introdurre i discorsi teorici e metodologici, parte da casi concreti presi da territori oggi marginali del Levante, sia costiero che appenninico, su cui dà informazioni e chiavi di lettura del paesaggio che un semplice escursionista non sarebbe mai in grado di cogliere durante un’escursione in zona, con la semplice osservazione incompetente. È quindi consigliato a chi è interessato a decifrare ciò che vede, mentre chi si limita alla fruizione estetica può tranquillamente ignorarlo
Un cascame del libro secondo me molto importante è che mostra come lo sfruttamento agricolo e pastorale, che ha lasciato i manufatti paesaggistici e architettonici, tra cui oggi camminiamo e che ammiriamo, è il frutto di complessi processi storici, di una società in perenne mutamento e conflitto, per nulla statica, ma soprattutto inserita nel contesto di un’economia di scambio molto attiva e non di attività di mera sussistenza.
Anche se non era certo nelle intenzioni dell’autore, la lezione principale che oggi può trarre chi è interessato a tenere vivi questi ambienti è che non ha senso proporre politiche assistenzialiste di conservazione, ma bisogna cercare di inserire nuovamente questi territori nel circuito dell’economia, da cui sono usciti con la fine dell’era agricola del km 0, puntando sull’inclusione nella modernità e non vagheggiando il ritorno a una società passata che non è mai esistita. Infatti essi hanno prodotto tutti questi paesaggi e queste architetture solo nella misura in cui erano inseriti nei processi più dinamici dell’epoca e ne erano all’avanguardia; potranno tornare a essere vivi solo nella misura in cui intercetteranno e attiveranno le classi sociali più dinamiche e creative al giorno d’oggi. Il modello vincente attuale che mi viene in mente sono le Langhe, che hanno costruito un paesaggio vivo e dinamico, inserendosi nell’economia con prodotti destinati al mercato internazionale come vino, nocciole e tartufi. Nelle Alpi invece, oggi sono attivi dei nomadi digitali, che svolgono lavori da remoto e nel contempo riattivano territori lasciati all’incolto dai processi novecenteschi. Al tempo dei paesaggi descritti nel libro il centro attrattore era la capitale dello stato prenunitario, oggi bisogna allargare la prospettiva al mercato dei petroldollari, narcodollari, e così via, per vendere i prodotti agricoli ai ricchi, dal momento che questi territori accidentati non possono competere con le produzioni destinate al consumo popolare. In alternativa si può associare la mitologia rurale italiana a qualche esperienza ambita da costoro, un po’ come avevano fatto Arnaldi e i suoi eredi nella vicina Uscio, ovvero proponendo cure per il logorio della vita moderna (cit.).
Questo naturalmente comporterà una trasformazione e non un’imbalsamatura, ovvero le costruzioni e i campi saranno riutilizzati a fini diversi e avranno una vita adatta ai tempi nuovi. L’idea che il paesaggio rurale sia statico e vada preservato in una qualche forma ipostatizzata al riparo dall’intervento umano è una corbelleria di chi non ha mai letto i saggi del Sereni e dell’Agnoletti: dal principio della civiltà strutturata, la città ha sempre modellato la campagna a suo uso e consumo, il problema è solo farlo bene, in modo che anch’essa ne benefici.
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J.C. Perrin et al., Muri d'alpeggio, Scarmagno 2009
Anche se la trattazione è limitata alla Valle d'Aosta, può essere visto come il contraltare antropico del Dorst. I montanari edificarono, con pochi mezzi e grande senso pratico, costruzioni perfettamente adattate all'ambiente, che a sua volta modellarono a proprio beneficio. Percorrendo l'Alta Via 2 si incontrano molte di queste architetture. Una sezione è dedicata ad alcuni topoi dei racconti orali fantastici ambientati negli alpeggi, letti come il modo di codificare le buone pratiche di relazione con la montagna.
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R. Pogue Harrison, Foreste. L'ombra della civiltà, Milano 1992
«Le istituzioni che governano l'Occidente - la religione, il diritto, la famiglia, la città - sono nate in opposizione alle foreste, che sotto questo aspetto sono state, fin dall'inizio, le prime e ultime vittime dell'espansione della civiltà.» Il primo poema noto, l'epopea di Gilgameš, è la storia di un eroe che vuole combattere l'angoscia esistenziale dovuta alla propria finitudine abbattendo una foresta e uccidendo il suo guardiano. Così del resto ha sempre fatto l'uomo quando si è insediato in un territorio, sin da quando era cacciatore-raccoglitore. Venendo a tempi più recenti, le persone vissute negli anni Novanta ricorderanno la canzone folk americana In the pines, cantata dai Nirvana nel concerto Unplugged con un altro titolo, in cui la protagonista si rifugia appunto tra nell'oscurità di una foresta di pini, dopo aver violato le regole della civiltà uccidendo il marito. Oggi i montanari percepiscono come un assalto alla propria cultura l'avanzare della foresta e delle sue creature selvagge, sui territori precedentemente antropizzati. D'altronde i loro avi piantavano croci nei luoghi disboscati e trasformati in pascolo, perché li avevano così sottratti al demonio. Le foreste e le loro creature hanno infatti sempre rappresentato l'antitesi della civiltà e segnato in tal senso l'immaginario nelle storie che l'uomo si racconta, per dare un senso alla propria azione e cementare la società con valori condivisi. Nella tragedia greca foresta e città sono portatrici di leggi contrapposte ma entrambe legittime, che scontrandosi portano caos ed esiti nefasti. Con l'era cristiana questo contrasto non può più avere luogo, perché la legge diventa una sola e si passa pertanto all'età della commedia. Ecco così i cavalieri erranti, che si perdono nella foresta per ritrovarsi, o i finti fuorilegge che, rifugiandosi nella foresta, ricercano la legge genuina, negata dalla degenerazione della società. In questo contesto è perfettamente inserita la contrapposizione dantesca tra la selva oscura, popolata di fiere minacciose, che la sola ragione umana (la diritta via della filosofia) non può affrontare, e la selva redenta del paradiso terrestre, dove il poeta può liberamente vagare senza alcun timore. Con la perdita delle fede compare la foresta delle chiare, fresche e dolci acque sradicata dall'Orlando furioso, metafora di un momento storico di guerre insensate. Con l'avvento dell'Illuminismo e del progresso le foreste tendono a dissolversi: Manwood ancora le agognava come inviolabile rifugio degli animali del re, ma con l'Encyclopédie si riducono a riserva di legname per l'utilità umana. Cartesio già prefigurava una via di fuga geometrica dal loro caos, simbolo della tradizione, ma con la Forstwissenschaft tedesca dell'Ottocento diventano essere stesse piantagioni geometriche di alberi. Restano quelle delle terre selvagge, che alla fine del secolo il colonialismo ha occupato, con un progetto di dominio sul mondo, che in Conrad è percepito come nichilista e si rispecchia nelle tenebre della foresta e in quelle della notte che avvogle la Londra, dove la storia è narrata. Vuoto che si ritrova nel deserto esitenzialista della Nausea di Sartre e di Finale di partita di Beckett. Con il distacco subentra la nostalgia per la perdita, come nella poetica di Wordsworth, per non citare i fratelli Grimm, che nella foresta vedevano il fondamento, spazzato via dalla modernità, delle leggi e dei costumi della loro patria divisa, da recuperare con la loro colossale impresa filologica. Imperdibile per chi ama leggere i classici e camminare nelle foreste.
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R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
È stato durante il Medioevo che ha preso forma la montagna come è stata fino all'epoca dei nostri nonni. Questo libro ripercorre le trasformazioni avvenute in questo lungo periodo in Italia e ci posto le basi del paesaggio, che con pochi mutamenti ha resistito fino alla fine della civiltà contadina.
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G. Rébuffat, Stelle e tempeste, Bologna 1981
Gaston Rébuffat è stato un forte alpinista francese del secondo dopoguerra; per le sue qualità fu arruolato neanche trentenne nella prima spedizione che riuscì a salire un 8000 (l'Annapurna, nel 1950). In questo libro sono liricamente descritte alcune sue ascensioni a difficili pareti nord dell'arco alpino, compiute negli anni precedenti all'impresa himalayana (allora solo pochi avevano salito queste vie). Emerge senz'altro il suo amore per la natura che sfugge al nostro controllo e ci mette alla prova, condensato nei due poli del titolo: i precari bivacchi notturni appeso alle pareti e le improvvise tempeste che potevano cogliere gli alpinisti. Allora infatti le previsioni del tempo erano poco più che aruspici, e le protezioni dall'umido molto più rudimentali di quelle che compro con pochi euro da Decathlon. Anche se vado in montagna in ambienti più accoglienti e con motivazioni ben diverse, ricordo anch'io con piacere l'unica circostanza in cui mi è capitato di improvvisare un bivacco, al riparo Fasciun: i disagi di una sistemazione respingente sono passati in secondo piano, rispetto al piacere della sera sopra le nuvole e tra i richiami dei caprioli. Lo stesso potrei dire delle volte in cui sono stato sorpreso dai temporali estivi.
Traspare poi evidente l'altra faccia dell'alpinismo: il cameratismo dell'ambiente rigidamente maschile della cordata, dinnanzi agli ostacoli da vincere, che è riferito anche dai reduci del fronte come l'aspetto positivo della loro esperienza. Leggendo queste pagine, appare perciò chiaro perché il CAI fosse finanziato dal Ministero della Guerra e scrivesse sui propri bollettini che erano soldi ben spesi.
La filosofia dell'autore si rispecchia in questa citazione, a chiosa della salita sull'Eigerwande: «L'ascensione, la neve, la tempesta ci hanno procurato sino al fondo di noi stessi una indicibile sensazione di pienezza: un godimento esaltante nell'unione con gli elementi, un gran senso di amicizia, un sapore di cose che da quel momento diventano irrinunciabili» (trad. R. Donvito Gossi).
Mi sono poi divertito nel constatare che i resoconti finiscono all'arrivo in cima, con la discesa che al massimo scivola via in una frase. In questo caso la ragione è che gli alpinisti erano attratti dalle difficoltà dell'ascensione, mentre scendevano lungo vie per loro banali o in corda doppia. Tuttavia lo stesso atteggiamento è molto diffuso anche tra chi si cimenta in vie alpinistiche più accessibili e persino tra gli escursionisti da sentiero: quante volte i gitanti che ho accompagnato si sono stupiti del fatto che il rientro scelto poteva essere anche più lungo dell'ascesa, o che mi portavo oltre al pranzo una merenda, da consumare durante una pausa della discesa, per loro inconcepibile.
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H. Reisigl - R. Keller, Guida al bosco di montagna, Bologna 1994
Un'introduzione agile, ma ricca di notizie interessanti, alla biologia dei boschi alpini che vegetano al limite superiore della vegetazione arborea, descritta dal suolo alle chiome. La scelta editoriale esclude i boschi di media e bassa montagna, con l'eccezione delle faggete.
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E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
A meno che frequentiate la montagna esclusivamente dai 2500 m in su, è assai probabile che vi troviate spesso tra paesaggi modellati dagli agricoltori e dai pastori, anche se potrebbero sembrarvi naturali e selvaggi. Questo libro ne racconta sinteticamente la storia, a partire dai tempi dei Greci e degli Etruschi, ovverosia da quando lo sviluppo della civiltà permise di modellare in maniera permanente i paesaggi, fino al 1960. Non si limita alla sola cronaca, ma analizza le ragioni sociali ed economiche alle radici delle trasformazioni. Un aspetto molto interessante è che utilizza una gran varietà di fonti, non solo storiche ma anche artistiche, per mostrare come i paesaggi si evolsero. Naturalmente parla solo in misura minore delle montagne, in quanto il motore dello sviluppo agricolo sono state soprattutto pianura e collina, ma ad esempio contiene la storia essenziale dei terrazzamenti, che soprattutto dall'assalto alla montagna ottocentesco ne contraddistinguono il paesaggio agricolo del versante italiano.
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L. Stephen, The playground of Europe, 2nded., London 1895
L. Stephen, Il terreno di gioco dell'Europa, Torino 1999
Leslie Stephen (1832-1904) appartiene alla prima generazione dell'alpinismo inteso come sport, praticato da gentiluomini vittoriani. In un decennio alla metà del XIX secolo, prima di abbandonare le imprese più rischiose su richiesta della prima moglie, compie diverse prime ascensioni su 4000 e 3000, principalmente nell'Oberland. Non è mai primo di cordata, in quanto va a ruota di guide locali, verso cui nutre un'ammirazione sconfinata e con cui intesse rapporti di amicizia molto stretta, nonostante il divario culturale e sociale. Stephen non smette infatti i panni del rappresentante della società che dominava il mondo: in particolare l'igiene precaria del mondo alpino torna più e più volte nei suoi scritti, quasi come un topos letterario. Il medesimo atteggiamento snob è mantenuto verso i turisti che già allora si affacciavano sempre più numerosi nelle valli e che non erano in grado di capire perché lui volesse salire sulle cime e non si accontentasse di ammirare il sublime dalla terrazza del Rigi. L'ultimo capitolo del libro, scritto dopo l'abbandono dell'alpinismo, è un tentativo di aprire il suo cuore a costoro. Sono in consonanza soprattutto dove dice che l'alpinismo consente di sperimentare con la propria fisicità la maestosità delle montagne, di cui i turisti che restano alla base non hanno una percezione sensoriale, un po' come delle distanze siderali, impossibili da ricondurre all'esperienza diretta.
Mi piacerebbe evocarlo in una seduta spiritica, per sentire la sua opinione sugli impianti di risalita (attraversa per primo lo Jugfraujoch, dove oggi arriva il treno, e cerca nella montagna invernale la pace già persa da quella estiva), come anche dell'affollamento dei rifugi alla base delle vette di richiamo o i rigidi regolamenti di accesso a certe vie. Quella solitudine, che egli cerca sulle vette più elevate, oggi sembra esistere piuttosto sui terreni intermedi, inaccessibili ai turisti motorizzati e trascurati dagli alpinisti diretti in cima, oppure sulle cime secondarie.
Stephen sale con velocità impressionante e supera dislivelli mostruosi per gli standard attuali, spesso su percorsi ignoti, partendo alle due di notte per tornare a ora di cena; è poi unicamente interessato all'azione sportiva e trascura li aspetti naturalistici e l'antropologia delle popolazioni alpine. È ciononostante un acuto osservatore sia dei paesaggi, che dei propri sentimenti di fronte ad essi, che talvolta tempera con autoironia e dettagli farseschi dell'avventura o dei protagonisti. Il libro è perciò anche una miniera di esperienze che un escursionista sensibile vive sulla propria pelle, espresse però molto meglio di come saprebbe fare costui: mi è capitato di ritrovarmi sia nei suoi pensieri, che nei personaggi che deplora. Stephen faceva infatti parte dell’élite intellettuale della sua epoca: docente universitario, genero di Thackeray, padre di Virginia Woolf, che lo evoca nel personaggio del vecchio Ramsay in Gita al faro, è primo redattore di una monumentale opera di biografie aggiornata tutt'ora.
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H. Tichy, Sul trono degli dei. La conquista del Cho Oyu, Gignese 2019
Herbert Tichy (1921-1987), viennese, non si considerava certo un alpinista puro, quando decise di tentare il Cho Oyu, allora inviolato. Avvenne durante una sera in tenda, verso la fine di un viaggio esplorativo nel Nepal, in compagnia dei suoi amici e guide sherpa. Tichy, sebbene avesse alle spalle la salita di qualche seimila inviolato, si considerava piuttosto un amante della montagna e un viaggiatore: Scrive: «Le montagne, che mi hanno sempre attratto, non sono per quanto mi riguarda obiettivi di per sé o motivo di esibizione di tecnica o forza fisica, ma soltanto parte di quel mondo in cui mi sento profondamente a casa. Amo le vette delle montagne come amo le persone perché sono parte di un insieme più grande». Non era infatti certo un ascetico atleta, ma non disdegnava affatto bere e fumare. Era stato autore di peregrinazioni in motocicletta per l’Asia Centrale negli Anni ’30 del XX secolo e ne avrebbe compiute di analoghe nei decenni a venire. Purtroppo solo il diario di un viaggio in India fu tradotto in italiano nel secondo dopoguerra ed è reperibile nell’usato. Gli alpinisti esperti della spedizione, e suoi compagni sulla vetta, furono lo sherpa Pasang Dawa Lama, collaudato scalatore himalayano successivamente autore di altre imprese, che ottenne la seconda moglie come premio per il successo, e Joseph “Sepp” Jöchler, con all’attivo scalate sulle pareti nord di Cervino e Eiger, che al tempo erano state superate da pochissimi.
L’aspetto più innovativo della spedizione fu la sua leggerezza: il carico passò inosservato tra i giornalisti di stanza in India, perché la spedizione fece molto affidamento sul cibo reperito in loco. Ad un certo punto gli Sherpa dovettero scendere dal campo base a valle per integrare le provviste e gli alpinisti dovevano spostare le poche tende tra i vari campi. L’attrezzatura era di buona qualità ma normale, con grande scorno degli indiani che li intervistarono al ritorno e si aspettavano che il successo fosse dovuto a qualche nuova mirabolante tecnologia occidentale, e non era previsto l’ossigeno: le uniche due bombole, portate per curare eventuali polmoniti da alta quota, tornarono a casa intonse. Fu talmente leggera che non arruolarono nemmeno un medico, ma si fecero dare delle istruzioni e delle medicine prima della partenza. Helmut Heuberger, geografo e naturalista della spedizione, mostrò un’attitudine alla cura, che si rivelò utile quando Tichy ebbe un congelamento alle mani, che mise in dubbio la sua possibilità di salire in vetta. Leggerezza anche emotiva: fu condotta in maniera quasi scanzonata da un gruppetto di amici, come traspare dal tono del libro, affatto diverso dall’impronta militaresca del filmato della spedizione italiana sul K2. Un’altro aspetto interessante, visibile nella copertina del libro italiano, fu la fotografia: furono scelte pellicole a colori, allora poco diffuse, e per questo furono adottate divise dai colori sgargianti.
Nel racconto degli eventi l’aspetto alpinistico o delle peripezie dei protagonisti non riveste un ruolo preponderante, come capita di solito nei racconti degli alpinisti. Oltre a molte liriche descrizioni dei paesaggi e delle riflessioni suscitate, occupano molto spazio anche i rapporti umani maschili tra i vari membri della spedizione, oltre che quelli con i portatori e le popolazioni che li ospitano. Con essi i sahib si integrano volentieri, venendo meno alle precauzioni igieniche raccomandate dai medici. Come emerge pure la descrizione antropologica della vita dei villaggi attraversati. L’autore narra da alieno, non conoscendone né le usanze né la lingua né i pensieri, ma da ammiratore partecipe, come traspare dalla lunga descrizione delle bandiere di preghiera. Il sottotitolo originale del libro si può tradurre infatti “Il favore degli dei”: anche da certe pagine traspare il suo affidamento alla benevolenza di una natura superiore per affrontare l’imponderabile e i propri limiti. Scrive: «Dipendere da forze superiori, chiamiamole fortuna, caso o Dio, dà a queste imprese una strana trepidazione, un sentimento di aspettativa e umiltà. Anche se si fa tutto ciò che è in nostro potere, l’esito dell’impresa è deciso “altrove”». Oppure: «Il vento era l’unico elemento, non era il semplice movimento dell’aria, ma una forza terrificante e minacciosa, sospinta da un demone».
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A. Verrecchia, Diario del Gran Paradiso, Torino 1997
Il diario di un giovane adulto, che, per rimarginare le ferite della guerra, diventa guardiaparco. «Ho fatto tre università - era solito dire -: quella vera e propria, che non mi ha dato nulla o quasi; la collaborazione alle pagine dei quotidiani come elzevirista, che mi ha costretto a leggere libri che altrimenti non avrei mai letto; e infine l'università più utile in assoluto, vale a dire il soggiorno nel Gran Paradiso a contatto con la natura». È scritto molto bene: è una miniera di citazioni taglienti.
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