Alta Via 2 Naturalistica della Valle d'Aosta
11 tappe
Presentazione
«Visto che è così antipatico, perché non si prende anche una pesca?» Porgendomi il panino, con i suoi soliti modi garbati e sarcastici, l'albergatore mostra di avermi preso a cuore. Sono tra i pochissimi connazionali che vede camminare nella sua magnifica terra di montagna, senza sapersi spiegare il perché di tale assenza. Forse mi considera una specie rara da proteggere, come gli stambecchi del parco. Da vecchio conservatore, fedele ad un motto implicito che potremmo riassumere come “pessimismo e determinazione”, guarda un mondo che lo sconforta, ma si impegna con tutta l'anima per la sua attività, senza mai mollare. Cercherò di imitarlo, quando vedrò che prima una suola, poi l'altra, cominceranno a scollarsi dalla tomaia dello scarpone. Proverò tutti i tamponi inutili che troverò e arriverò a Courmayeur con gli scarponi rabberciati, ma trionfante.
Trionfante per modo di dire: in realtà l'arrivo è sottotono, tra i pervasivi impianti di risalita per lo sci, alcuni attivi anche d'estate per gli alpinisti ciabattoni. Di maggior pregio paesaggistico la partenza, di fronte ai terrazzamenti per il vino di montagna. Tuttavia, per quanto possa sembrare strano, questi interventi sul paesaggio, ai miei occhi ben diversi nel loro impatto, ebbero il medesimo scopo: attrarre valuta dall'estero. I terrazzamenti delle Alpi, infatti, si diffusero soprattutto a partire del Cinquecento, quando il raffreddamento climatico impedì la produzione di vino nell'Europa centrale e creò un fiorente mercato per i prodotti d'importazione. Del resto, anche il formaggio d'alpeggio, il principale prodotto agricolo di questa regione, era ed è pensato per l'esportazione verso le regioni di pianura. In diverse zone dove passo, oggi questa produzione è stata sostituita da quella di carne. Una serie di fattori ha scoraggiato la piccola produzione in luoghi remoti, che invece una volta era la norma. Innanzitutto la regione ha puntato sull'uniformità del prodotto, privilegiando i caseifici di valle a discapito della produzione in loco. Inoltre, assumere un lavoratore specializzato nella caseificazione è molto costoso, perché in Italia il carico fiscale grava in gran parte sui lavoratori dipendenti. L'assunzione, poi, non comporta solo oneri diretti, ma anche indiretti, dovuti a obblighi di vario tipo a cui bisogna adempiere in presenza di lavoratori subordinati nell'azienda.
L'uomo nella natura
«L'uomo è la misura di tutte le cose? No, l'uomo è soltanto un minuscolo insetto in un mondo infinito. Dovunque io volga lo sguardo, mi sento sovrastato da cose infinitamente più grandi di me: spazi sterminati, montagne immani, ghiacciai e cascate perenni, boschi a perdita d'occhio, esseri capaci di sopravvivere a temperature micidiali. E poi di notte, con le montagne che si stagliano come un'ombra bruna all'orizzonte e con volta stellata che pare poggiarci sopra: è allora che viene maggiormente fatto d'interrogarsi su se stessi e sulla propria miseria. Di fronte a tanta immensità, che importanza può avere l'uomo? I suoi balbettii non turberanno mai le stelle e le sue smanie lasceranno indifferente il corso del sole.»A. Verrecchia, Diario del Gran Paradiso, Torino 1997.
I pascoli d'alta quota che attraverso hanno spesso una morfologia simile, lasciata impressa dalle ere glaciali. Di solito il vallone, visto dal colle alla sua testata, termina nel pianoro pascolivo, oltre quale c'è un salto improvviso nella valle principale: una valle sospesa. Il pianoro è un'antica conca scavata dal ghiacciaio, quando si trovava di fronte uno sbarramento roccioso; nelle fasi interglaciali diventava un lago, poi colmato dai detriti portati dal torrente e dalle frane. Il salto deriva dal fatto che la lingua del ghiacciaio laterale confluiva in quella più grande, che scavò la valle principale più in profondità, con una forza erosiva maggiore. Talvolta il torrente ha poi parzialmente modificato queste forme, incidendo una gola. Anche le valli principali hanno a loro volta questa conformazione, dove si affacciano sulla Valle Centrale, dove sorgono Aosta e i centri più grandi. Le gole e i salti sono così incisi, che spesso d'inverno con la neve le valli restavano a lungo isolate, ancora nell'ultimo dopoguerra. Hanno pertanto dovuto sviluppare un'economia autarchica, con al centro la segale, l'unico cereale adatto al freddo della montagna, e i prodotti dell'alpeggio.
Sul margine del precipizio della valle sospesa c'è quasi sempre una croce. La consuetudine di piantare croci nei prati strappati al bosco è molto antica. I Romani connotavano assai negativamente il bosco e la natura selvaggia, di cui furono meticolosi distruttori: il dio dei boschi era Pan, dai piedi di caprone, simbolo degli istinti sfrenati. Era contrapposto agli dei della natura addomesticata e plasmata dal lavoro dell'uomo, come Cerere, dea delle messi, che invece aveva una connotazione positiva. L'uomo medievale rilevò in blocco questa concezione, semplicemente dando al dio Pan la veste cristiana di diavolo. Tutti ricordano i primi versi della Divina Commedia, la paurosa selva oscura in cui si smarrì Dante, simbolo del peccato e della perdizione. A quel tempo il bosco selvaggio e quello coltivato erano percepiti così diversi, da meritare nomi diversi. I boschi selvaggi e le vette improduttive erano perciò la terra del diavolo, a cui la civiltà li strappava trasformandoli in pascoli fecondi; la croce era il baluardo di questa conquistata civilizzazione. La natura selvaggia diventerà un valore e si comincerà ad amare le montagne incontaminate solo con l'Illuminismo, ma soprattutto il Romanticismo: i primi a salire sui giganti delle Alpi non furono i montanari, ma gente venuta da lontano, che apparteneva ad un altrove geografico e culturale. Oggi siamo giunti all'estremo opposto, dove ogni prodotto culturale dell'uomo, come quelli dell'agricoltura o persino dell'industria, deve essere presentato come naturale per riscuotere successo commerciale. Inutile osservare che in natura non esistono campi di grano né pillole di integratori, i consumatori accorrono felici attratti da questa etichetta. Una mia amica naturalista dice che le viene l'orticaria, quando sente la parola naturale.
D'altronde, questa convinzione di essere in un luogo popolato da presenze ostili, come in un avamposto in terra straniera, ha dato ai montanari un marcato senso del limite: si sentivano solo ospiti dell'alta montagna e hanno sviluppato un codice di rispetto nei confronti dell'ambiente in cui vivevano. Potevano beneficiare dei pascoli, ma non dovevano superare dei confini invisibili, ma ben presenti nella loro mente. Moltissime storie, raccontate nelle lunghe veglie invernali nelle stalle, evocano punizioni per chi viola queste norme non scritte, di solito personificate in esseri fantastici. Anche la Piccola Era Glaciale, con la sua nefasta avanzata dei ghiacciai, fu interpretata come una punizione, che sottrasse pascoli fecondi ad alpigiani irrispettosi.
Certo però non fu un Eden. I primi dagherrotipi dell'Ottocento ci mostrano montagne quasi spoglie, per lo sfruttamento intensivo dei boschi e la necessità di rendere produttivo per l'uomo ogni pertugio. Nei pascoli più alti, qui chiamati tsa, dove non è possibile ripristinare i composti azotati con gli scarichi delle stalle, si assiste a un impoverimento del suolo. Attorno agli alpeggi, per via dell'alta concentrazione di ammoniaca dovuta alle deiezioni animali, proliferano specie tossiche, non appetite dagli animali, come il Rumex alpinus e il Veratrum album, una liliacea molto elegante, adorata dai fotografi, ma in grado di paralizzare il sistema nervoso. Anche l'industria mineraria pose non pochi problemi di carattere ambientale. Fu avviata a fini militari dai Savoia nel Seicento e proseguì fino a metà del secolo scorso, quando le piccole miniere in luoghi disagiati non furono più competitive. Già nel Seicento, una miniera di ferro presso Champorcher portò a un depauperamento del patrimonio boschivo, a causa della produzione di carbone di legna, necessario all'estrazione del metallo dal minerale, tanto che anche le forme architettoniche dovettero cambiare per la scarsità di legname. Nel Settecento gli abitanti di una frazione dove passo dovettero appellarsi al re, per fermare almeno d'estate un altoforno che inquinava i loro prati e i loro orti.
Alcuni animali si estinsero per la pressione antropica. Lo stambecco, simbolo del Parco del Gran Paradiso, si salvò solo per il capriccio di un re. I grandi carnivori, diretti concorrenti dell'uomo, scomparvero del tutto. Uno di questi, il lupo, sta tornando, seppure qui in maniera meno organizzata che nel vicino Piemonte. Là si sta cercando di farlo convivere con la pastorizia, addestrando cani in grado di difendere le greggi, e insegnando ai pastori buone pratiche per ridurre i pericoli, mentre qui è ancora tutto in nuce. Non sarà facile gestire la convivenza in una zona con una densità antropica così alta e in cui l'uomo ha occupato quasi ogni angolo fertile. Nel corso della sua storia, l'Homo sapiens ha dimostrato di essere poco propenso a convivere con altre specie: prima ha portato all'estinzione le altre specie di Homo, occupandone le nicchie ecologiche, poi ha proseguito con altri animali. Ora sta facendo le cose in grande stile, causando la sesta estinzione di massa da quando esiste la vita sulla Terra. È la prima dovuta all'azione di una delle specie viventi. Inoltre i grandi carnivori non sono in sintonia con la nostra società: né con alcuni montanari, che li vedono come il simbolo dell'inselvatichimento della loro terra, che fino al crollo demografico dell'abbandono era antropizzata fino agli alpeggi più remoti; né con gli uomini di città, che hanno l'ambizione di controllare tutto e vorrebbero ridurre i boschi a parchi di divertimento dove l'imponderabile non dovrebbe esistere. I lupi, invece, pur non essendo pericolosi per l'uomo, sono il simbolo della natura selvaggia che esula dal controllo umano ed evocano pertanto sentimenti di paura e rifiuto.
Il Parco del Gran Paradiso
«Stravagante? Quando, per amore di libertà o per spirito di avventura, non si marcia al passo con gli altri e si esce dagli stupidi schemi della vita borghese, si corre sempre il rischio di passare per stravaganti. E va bene: io preferisco muovermi all'aria aperta dietro agli stambecchi piuttosto che ammuffire in un ufficio.»A. Verrecchia, Diario del Gran Paradiso, Torino 1997.
Il Parco del Gran Paradiso, che attraverso nella fase centrale del viaggio, ha avuto un ruolo centrale nella conservazione della natura e in particolare dell'animale simbolo della montagna, lo stambecco. Questo ungulato, infatti, è adattato a vivere solo ad alta quota, tra le pareti al di sopra dei pascoli più alti, dove la sera e al mattino scende a nutrirsi. Questo probabilmente sarà un problema al procedere del riscaldamento climatico, perché non avrà zone più alte su cui salire a rifugiarsi. Tuttavia è impossibile fare previsioni, perché la natura non è lineare. La sua specializzazione lo differenzia dal camoscio, altro animale diffuso tra queste valli, che invece può scendere anche fino alla quota della pianura, purché abbia a disposizione una zona impervia e selvaggia. Nell'Ottocento si era estinto su quasi tutte le Alpi, a causa della caccia per il suo trofeo e della sua mancanza di timore verso l'uomo, come può verificare di persona qualunque escursionista. I Re di Sardegna, appassionati cacciatori, saputo che ne sopravviveva una colonia attorno al Gran Paradiso, acquistarono i diritti esclusivi di caccia nella zona e si fecero costruire una rete di mulattiere e residenze di appoggio. Ogni anno, ad agosto, erano organizzate imponenti carneficine, ma, essendo solo uno il cacciatore, questo consentì alla specie di non estinguersi. A inizio Novecento, una volta venuto meno questo interesse, donarono la riserva allo Stato Italiano, con la condizione di farne un parco. Ancora fino al secondo dopoguerra ebbe vita dura, contro i bracconieri che insidiavano i selvatici. Tuttavia nei decenni successivi, con l'inselvatichimento dell'alta montagna la crescita demografica della selvaggina, anche al di fuori dei parchi, rese superfluo il bracconaggio nelle aree protette e le cose migliorarono. Gli stambecchi adulti non hanno predatori naturali oltre l'uomo, perché vivono in zone di difficile accesso ai grandi carnivori; solo da cuccioli sono esposti agli attacchi dell'aquila. La loro demografia è regolata essenzialmente dalla mortalità invernale, negli anni nevosi. Negli ultimi venti anni, tuttavia, il loro numero è tornato a diminuire, a causa dell'aumento della mortalità infantile, per ragioni ancora ignote.
Il parco oggi è come un'isola di natura in mezzo al mare della civiltà umana. Rispetto a quando l'alta montagna fu colonizzata in maniera stabile, cioè nel Medioevo, i ruoli tra natura e uomo si sono invertiti. Allora era la natura a dominare e l'uomo viveva in piccole isole di civiltà sperse in un mare di natura selvaggia. Oggi invece viviamo nell'Antropocene, in un mondo quasi interamente plasmato dall'uomo, che ha alterato i cicli geochimici del carbonio e dell'azoto, la composizione dell'atmosfera che respira e anche quella dei remoti ghiacci polari. I parchi sono rimasti gli unici atolli scampati all'antropizzazione, che sembra non volersi arrestare. Il loro ruolo è perciò sempre più prezioso.
Nell'economia della protezione è quanto mai prezioso il ruolo dei guardiaparco. A partire dal secondo dopoguerra, con la gestione di Renzo Videsott, non hanno solo il ruolo di custodi, ma anche di osservatori e studiosi dell'ambiente e degli animali, con cui vivono a contatto. Devono tenere un diario, da compilare la sera, in cui annotano gli eventi del giorno e le osservazioni naturalistiche che hanno condotto. È ben noto agli psicologi della percezione che l'allenamento ha un ruolo chiave nel renderci sempre più acuti e competenti, in grado di notare dettagli e fare collegamenti che ad un osservatore domenicale come me sfuggono. In particolare, dato che in ogni luogo sono sempre di passaggio, raramente riesco a dare più di un'occhiata fugace agli animali: di solito l'incontro termina quasi subito, quando mi scorgono e si allontanano. Sono poco più che figuranti, nell'economia della mia escursione. Anche se, nel corso degli anni, ho visto quasi tutti i mammiferi più grandi che popolano le montagne, a volte anche quelli notturni più elusivi, oltre che molti uccelli, non sono quasi mai riuscito a seguire scene della loro vita. Talvolta possono essere assai crudeli e farci riflettere sulla durezza della loro condizione, come nel caso delle predazioni, di cui al massimo ho visto i resti lungo i sentieri. Ricordo ancora quando riuscii a seguire con lo sguardo una mamma stambecco, che aveva perso il cucciolo nel branco, girare belando, fino a quando non lo ritrovò. Invece i guardaparco arrivano anche a capire i loro pensieri. In una tappa mi è capitato di poter assistere per alcuni minuti ai giochi di cuccioli di marmotta, seppure da lontano. Era la prima volta ed è stata una delle gioie del viaggio.
Il viaggio
«È vero, comunque, che quelli che vanno sui monti trascurano sul serio se stessi.»A. Verrecchia, Diario del Gran Paradiso, Torino 1997.
Purtroppo questo trek non è alla portata dell'escursionista tipico, perché diverse tappe sono davvero lunghe: la metà oltre le sette ore e mezza di cammino effettivo, di cui due con 2000 m di salita. Al termine della seconda, in particolare, dopo due partenze prima delle 7 e due arrivi alle 18, mi sentivo tutto anchilosato e mi muovevo come un vecchietto pieno di acciacchi. Camminando tutti i giorni però la condizione fisica migliora e ho patito molto meno la seconda coppia di tappe infinite, nel finale del trek. In compenso, queste tappe mi hanno portato in luoghi remoti e mi hanno perciò consentito di visitare ambienti poco battuti dagli escursionisti e di grande fascino. Ci sono stati dei giorni in cui non ho visto che una manciata di camminatori, talvolta nessuno.
La lunghezza di certe tappe ha condizionato anche i miei ritmi di marcia, ma ciononostante ho cercato lo stesso di impormi lunghe pause nei posti più belli, almeno una ogni due ore di cammino. Lo scopo non era solo di rifiatare, ma anche di fermarmi a riflettere sull'esperienza che stavo vivendo, per ritenerne più che potevo e non lasciarla scivolare per la fretta di arrivare entro un'ora decente: quand'è arrivato, l'escursionista ha infatti ancora dei compiti da svolgere, come fare il bucato, che deve asciugare entro la mattina seguente, e prepararsi per la tappa successiva, leggendo la descrizione e consultando la cartina. Tuttavia fermarmi mi consentiva di richiamare alla mente gli eventi del tragitto appena compiuto, per appuntarli sul notes e non disperderli nel caos indistinto della nostra fallace memoria. Inoltre mi sono accorto che, se mi fermavo più dello stretto necessario, mi venivano alla mente sempre maggiori dettagli, che in un primo momento avevo perduto. Facevo poi nuove osservazioni sul posto dove mi trovavo o nuove riflessioni sull'esperienza vissuta, tanto che spesso il notes diventava una marasma di note e aggiunte, in caratteri sempre più piccoli e incomprensibili. Ciononostante spesso, ripartendo mi sovvenivano nuove impressioni, che però erano destinate a essere nuovamente dimenticate prima della pausa successiva. Per questo, anche se quando vado in montagna cerco di fare a meno della tecnologia, sto pensando di cambiare sistema e usare il cellulare come registratore vocale, da tenere legato con un moschettone allo spallaccio dello zaino: è meno romantico e non mi lascerà un notes fisico con tutti i ricordi, nella mia scrittura minuta e incomprensibile, che presto non riuscirò più a leggere per l'incombente presbiopia; tuttavia forse è la soluzione più funzionale. In fondo mi sono già abituato a sostituire in parte le cartoline con foto scattate con il cellulare nei momenti di pausa, da mandare poi la sera.
Mi sono mancate un po' le stelle. Ho scelto il mese di luglio per trovare una fioritura lussureggiante e sono stato accontentato. In particolare, i fiori amaranto della Gentiana purpurea, una specie simile alla più nota lutea, sono stati i miei preferiti. Anche i dossi rosa di Persicaria bistorta sono stati uno dei climax dell'esperienza. Tuttavia questa stagione ha significato luce del giorno dal mattino presto fino a dopo cena e, nelle sere in quota, non ho mai avuto la voglia e la forza di perdere ore di sonno, per ammirare la Via Lattea o sperare in qualche stella cadente. Settembre è il mese amico delle stelle.
In ogni caso non dimenticherò facilmente, oltre agli spettacoli naturali, gli incontri con le persone. In primis con i pastori dei due alpeggi dove mi sono rifugiato, quando sono stato sorpreso da un temporale. Il primo era del Piemonte, da una valle molto aspra, e ogni anno porta lì le sue vacche e le sue pecore, perpetuando una secolare tradizione di transumanza di lungo raggio. Si è portato dietro la moglie e i figli piccoli, per ridurre il peso dei disagi e della solitudine. Con i figli ho anche giocato, oltre ad aver conversato con lui sulla sua vita. I secondi erano quattro marocchini di pianura, che sembravano in una condizione più precaria, in una zona molto lontana dai centri abitati; sono comunque stati accoglienti e cordiali, nonostante mi fossi introdotto in casa loro mentre erano assenti. In entrambi i casi ho rimediato un caffè imprevisto e gradito (i marocchini mi hanno pure offerto del tabacco, ma io non fumo). E poi escursionisti incontrati nei rifugi. Quasi tutti stranieri, che non sapevano pressoché nulla delle Alpi e dell'Italia, a cui ho potuto vendere una marea di informazioni esotiche, che a me sembravano ovvie. Lo zurighese, gli inglesi del Devon, i danesi, il motociclista romagnolo, gli ebrei russi, gli olandesi, gli israeliani. Invece niente tedeschi, che pullulano nella GTA del vicino Piemonte. Molti non erano escursionisti scafati, ma poco più che turisti, che però fanno un'esperienza che va oltre l'immaginazione degli italiani. Questi di solito fanno una breve passeggiata fino al rifugio, rientrando al pomeriggio, oppure un'escursione domenicale. Per tacere di quando montano il tavolino per il picnic nella piazzola a bordo strada, accanto all'auto. In un rifugio, gli italiani erano arrivati con il fuoristrada del gestore. Persino uno dei pastori marocchini dava per scontato che fossi straniero, vedendomi con lo zaino grosso.