AV5T: Biassa-Monterosso
Cinque Terre
15 febbraio
In un baleno
Questa escursione è di prevalente interesse naturalistico, perché permette di osservare diversi stadi dell'evoluzione della vegetazione, in un ambiente in perenne via di trasformazione. È invece senz'altro sconsigliata a chi cammina mirando esclusivamente all'appagamento estetico dei panorami, che sul percorso si mostrano come lampi fugaci intravisti attraverso le tapparelle
Diario di viaggio
L'Alta Via delle Cinque Terre tra il colle del Telegrafo e il santuario di Soviore si snoda sul crinale che separa il versante costiero dalla val di Vara ed è articolata in numerosi saliscendi tra le quote 500 e 800. Si sta perciò ben lontani dai borghi e dai celebri vigneti terrazzati e si cammina piuttosto tra boschi misti di transizione, tra il clima marittimo della costa e quello più continentale dell'interno: dalla lecceta al bosco mesofilo di castagni. Si tratta di un ambiente in corso di trasformazione, sia perché soggetto a incendi, sia per la progressiva scomparsa dei pini, decimati dalla cocciniglia; si possono perciò osservare varie fasi delle successioni vegetazionali. Qui i boschi, almeno fino dal Medioevo, non devono essere ma stati particolarmente lussureggianti, perché sottoposti all'intenso sfruttamento delle popolazioni rivierasche e montane. Anzi, nei periodi di minor controllo delle autorità scomparvero del tutto, sotto la pressione antropica. Ora invece si cammina quasi sempre nel folto del bosco, gli scorci sulla costa e sull'interno in genere radi e parziali. Per tali ragioni, questa escursione è molto interessante per l'aspetto naturalistico ed è invece senz'altro sconsigliata a chi cammina mirando esclusivamente all'appagamento estetico dei panorami, che sul percorso si mostrano come lampi fugaci visti attraverso le tapparelle. Inoltre ritengo che le Cinque Terre offrano il meglio di sé con percorsi che attraversano tutti gli ambienti del parco, offrendo uno sguardo sulla sua diversità, piuttosto che con itinerari monotematici.
Siamo soliti associare il paesaggio agreste delle Cinque Terre ai vigneti terrazzati, che certamente ne hanno fornito la stessa ragion d'essere fin dalla fondazione nel Medioevo, ma si tratta di un'immagine parziale: infatti anche il bosco ha sempre avuto un ruolo chiave nell'economia agricola rivierasca. Tra Otto e Novecento, al culmine di una grande espansione demografica, che spinse a mettere a coltura ogni terra possibile, i vigneti arrivarono a occupare la maggior parte del territorio. Nei secoli precedenti i vari tipi di sfruttamento erano più equilibrati. In primis il castagneto, che suppliva alla mancanza di terreni adatti alla coltivazione di cereali e forniva il legname per gli impieghi più disparati, viticoltura inclusa. Per questo, nel corso dei secoli gli statuti comunali inclusero regole che ne regolamentavano accuratamente lo sfruttamento, per impedire il depauperamento. Durante gli anni della crisi della Serenissima questo controllo venne meno, con effetti deleteri, tanto che nel periodo napoleonico le autorità adottarono varie iniziative volte al ripristino della copertura arborea. Nel corso dell'Ottocento, fra esacerbati contenziosi, questi boschi precedentemente comuni vennero privatizzati, secondo la convizione del tempo che il privato avrebbe avuto maggior interesse a preservarli. Anche il pascolo ha avuto un ruolo nell'economia: le famiglie tenevano un numero limitato di ovini per la sussistenza. Le loro necessità di pascolare confliggeva con la protezione dei boschi e delle colture, per cui le capre furono ad un certo punto estromesse dai territori comunali e anche i diritti di pascolo furono limitati. Con l'arrivo dei fertilizzanti azotati, la necessità di concime animale, che peraltro era sempre stata modesta, venne meno e la pastorizia si avviò verso la scomparsa.
Questa escursione ha un prologo. Qualche giorno prima di effettuarla in una limpida giornata invernale, l'avevo intrapresa avvolto da pile, guscio e coprizaino in un giorno di libeccio, in cui il crinale è sferzato da un vento tempestoso. È carico di umidità raccolta nel passaggio sul mare, che per effetto del gradiente termico verticale condensa in quota in raffiche fradice. A Biassa pioviggine si alternava a pioggia più intensa e il muro della nebbia era poco sopra il paese. Una vota entratovi, il castagneto aveva assunto un aspetto stregonesco, perché gli alti rami nudi, evanescenti nella nebbia, sembravano tentacoli o artigli di esseri emersi delle profondità alla ricerca di prede da ghermire. Mentre mi avvicinavo al crinale, il vento si faceva via via più intenso, fino a ululare tra alberi ondeggianti. Una lecceta buia mi evocò il sonno della morte. Dai rami mi arrivavano colate d'acqua rappresa tra le foglie, che il vento strappava con forza scaraventandole a terra, mentre nell'attraversamento di ambienti aperti, il vento mi frustava la faccia con le goccioline della nebbia. La maggior parte dei miei appunti vocali è andata sommersa dal disturbo del vento sul microfono. Lungo la sterrata del Verrugoli, la nebbia era quasi impenetrabile: raggiunto un piccolo spiazzo, dovetti costeggiare tutto il bordo per controllare che il sentiero non si staccasse da qualche parte, perché dalla strada i margini erano invisibili. Ad un certo punto mi accorsi di avere tutto il lato sinistro, esposto al vento, zuppo dai gambali al cappuccio. Arrivato alla Sella la Croce, avevo cominciato a nutrire incertezze sull'opportunità di proseguire. Poco più avanti, mi ero reso conto che stavo ormai camminando come un automa, senza badare ai dintorni, ma unicamente concentrato sul gesto di posare un piede dinnanzi all'altro, manco fossi un alpinista nella zona della morte. Dal momento che le imprese non erano il mio scopo, ma volevo solo godere un po' di pioggia, da me sempre più rara, ero perciò tornato sui miei passi e sceso a Riomaggiore, lungo un bel sentiero dapprima lastricato e quindi gradinato. Avevo attraversato del bosco, dei pascoli, della macchia, che aveva inghiottito una monorotaia in disuso e in parte anche il fondo del sentiero, costringendomi a camminare sul muro laterale, e infine dei vigneti tenuti. Il vento si era placato e mi era tornata la voglia di fotografare, scomparsa da prima della sella; ancora immerso nella nebbia, avevo cominciato a udire il confuso brontolio del mare in tempesta, poi divenuto ruggito una volta dissolta l'ovatta delle goccioline in sospensione. Mi aveva però deluso la sua visione, perché me lo immaginavo bianco di schiuma, come le fauci di una belva all'assalto del nemico. A Riomaggiore mi ero aggirato tra i vicoli, lungo cui scorrevano rivoli d'acqua, e arrampicato sui punti panoramici della marina, per fotografare la mareggiata, prima di prendere il treno del rientro.
Oggi a Biassa scendo alla fermata più vicina all'imbocco del sentiero. Ci trovo due signori intenti a discutere di Canikon per astrofotografia e vecchie reflex 35mm a pellicola. Il mio amore per l'obsoleto mi fa salire per una scivolosissima scalinata, anziché per il più comodo asfalto. Uscito dal paese e superato un tratto dove i muri a bordo sentiero sono in buona parte franati sul fondo, raggiungo uno spiazzo accanto ad alcuni grandi castagni da frutto, che sono raggiunti dalla prima luce del mattino. Qui decido di imboccare il sentiero diretto per il Telegrafo, riportato sulla carta, ma non indicato sul terreno, se non forse da tacche scolorite e illeggibili. Il sentiero non è terribile e solo in un punto mi suscita incertezze sulla traccia da seguire; anche gli alberi caduti non richiedono che una ginnastica per ottuagenari. Tuttavia l'ambiente non è dei più ameni, stretto com'è in un impluvio umido e profondo, tra i coni di deiezione di vecchie cave, oltre che immerso nella vegetazione caotica dell'abbandono. Si tratta di un sentiero storico, percorso dagli abitanti di Riomaggiore per portare le proprie merci al mercato di La Spezia, lungo cui i poco socievoli biassei erano soliti accoglierli con tranelli; ciononostante lo stato di conservazione è precario, anche se qualcuno che fa una manutenzione minima indispensabile sembra esserci.
Con un'ultima ripida rampa arrivo al crocevia del colle, dove c'è qualche auto parcheggiata e il panorama si apre sul mare; per di più ritrovo il sole, che nell'incavo infossato non era ancora arrivato. Imbocco il sentiero che corre in salita, seguendo la dorsale, in un bosco di pini e lecci, tra canti di passeriformi. Lambisco una costruzione diroccata, che sembra avere un'architettura militare. Entro in un ambiente aperto, di macchia che si sta sostituendo alla pineta sfoltita dalla cocciniglia. Ammiro dall'alto il campanile del santuario di Montenero svettare tra i pini e i lecci, che lo circondano su due lati. Oltre il golfo le Alpi Liguri emergono da uno strato di foschia: la visibilità sul mare non è malvagia, ma ben lungi dai giorni più gloriosi. Più avanti c'è anche uno scorcio sulle Alpi Apuane, che a quest'ora sono blu. Torno quindi nel bosco, passando tra robinie, pioppi bianchi (quindi vegetazione planiziale) e successivamente tra castagni cedui, che hanno fornito nutrimento ai cinghiali. Tra gli alberi compaiono di lontano i borghi più orientali: Volastra, Corniglia e più oltre anche Riomaggiore, che è proprio ai miei piedi. Più avanti, in un tratto dove la vegetazione è stata sfoltita per far passare una linea elettrica, vedrò anche Punta Mesco, che sta per essere avvolta da nubi basse marittime. Con il binocolo riesco a distinguere la costruzione militare del promontorio.
Lungo il sentiero vedo dei cippi di confine, con scritte: ciò sembra indicare che il percorso avesse una certa importanza anche nel passato. Dopo aver visto un fioritura rosa sull'erica, raggiungo il bivio Bramapane, dove arriva anche una strada, che imbocco verso sinistra, in corrispondenza di un'enorme pozzanghera (a tratti la strada sarà moderatamente fangosa, tanto che mi toccherà camminare sul margine). Si alternano tratti in ombra ad altri al sole, con un certo sbalzo termico, che mi consiglia un abbigliamento intermedio. Come bosco prevale il castagneto ceduo; in una zona molto ombrosa tronchi e rami sono fittamente rivestiti di licheni, un fatto insolito dalle mie parti, dove solo quelli da frutto sono colonizzati, ma in questo clima più piovoso riescono a proliferare anche su questo substrato più ostile per loro. Anche i cinghiali sembrano apprezzare questo bosco, a giudicare dalle lunghe arature. Oggi cinghiali non ne vedo, ma sento dei richiami di capriolo. A bordo strada vedo una specie di monolito con tre zampe di pietre e cemento, dalla funzione misteriosa, abbondantemente colonizzato dalle firme dei writer, anche se in tempi quasi storici. La strada passa sul lato della val di Vara, da cui vedo l'Appennino lontano e una frazione ai piedi della dorsale.
Al crocevia di sella la Croce mi superano dei ciclisti, che proseguono come me verso la Cigoletta e si vedono presto costretti a spingere. Al colle ci sono una croce di metallo posta pochi anni fa e dei trespoli sempre di metallo alti quanto gli alberi, appena fuori dai confini del parco. La mulattiera che sale da Riomaggiore diretta a Carpena in val di Vara è assai ripida, ma altrettanto ben sistemata, per via dei legami tra le economie agricole dei due borghi, dalle produzioni complementari. Infatti gli abitanti di Riomaggiore avevano possedimenti agricoli anche nel comune oltre il crinale, nella confinante val di Vara, le cui produzioni svolgevano un ruolo complementare alla coltivazione della vite. Mi fermo dieci minuti, per sbocconcellare un pezzo di focaccia e bere del tè. Il sentiero ora sale sul lato marino, presso la dorsale, sempre tra castagni cedui, tra cui vedo fugacemente Manarola arrampicata sul suo scoglio. Dopo un tratto in piano quasi continuo dal Telegrafo, devo ora salire un pochetto. Tra i castagni si intromettono quindi i pini marittimi e più avanti arriva un querceto, che in una zona esposta a nord-ovest è ricoperto di licheni. Poco dietro di me mi tallona una coppia con una cagnetta nera, che mi raggiunge e supera ripetutamente, mentre in verso opposto arriva un ragazzo, seguito da un cacciatore accompagnato da un cane massiccio tenuto a un guinzaglio corto. Raggiungo una sella, tra fioriture di zafferano alpino, poco prima di trovare un'indicazione su un albero per il famoso menhir spezzato del monte Capri. Gli archeologi ritengono che si sia spezzato durante il trasporto e sia stato abbandonato qui. Confrontando i dintorni con la foto della mia guida anni ‘80, noto che sono scomparse le felci aquiline di allora ed è cresciuto un bosco, segno che gli incendi sono meno frequenti. Spesso, lungo il cammino, troverò alberi di dimensioni tutte uguali, una tipica conseguenza della ricrescita dopo un incendio di qualche lustro fa, mentre la guida in quei luoghi descrive distese di felci ora scomparse. Questo fa sperare in una cresciuta coscienza ecologica. Invece boschi maturi, con alberi di varie dimensioni e legno morto, non ricordo di averne visti per tutta l'escursione.
Il signore, che mi aveva raggiunto e superato poco prima del menhir, prosegue lungo la traccia del crinale, mentre la sua cagnetta nera resta sul sentiero più in basso e torna verso la moglie, dispersa nelle retrovie. Ci sono qui alcune belle querce, anche se non trovo però l'ispirazione giusta per fotografarle. Sono miste a più rari castagni. I naturalisti ritengono che la distribuzione originaria dei castagni fosse di questo tipo, ma da un millennio ormai questo bosco è sparito, e, con l'intervento dell'uomo, il castagno è passato a dominare vaste distese collinari, per i suoi innumerevoli impieghi, non limitati alla funzione di albero del pane delle zone collinari. La temperatura rimane fresca, non solo all'ombra. Raggiunga la sella di monte Capri e svalico verso la val di Vara, ammirando scorci su lontani borghi e sull'Appennino tosco-emiliano, sempre marciando tra castagni cedui (ce n'è qualcuno più grande ma non sembra essere da frutto). Raggiungo una dorsale secondaria, dove c'è qualche pino, ma molti meno di una volta, perché sfoltiti dalla cocciniglia; scendo ora in maniera più decisa, su fondo non sempre regolare, per la presenza di pietre, tra pini e castagni. Nel sottobosco c'è una certa quantità di rovi, possibile indizio di un passaggio del fuoco.
Arrivo a sella Marvede, com'è chiamata sul cartello, o Aia del Cane, com'è invece indicata sulla cartina, passando tra alcuni grandi castagni. Arriva dal basso anche un sentiero, che da Volastra svalica verso la val di Vara.
Anche oltre la sella ci sono rovi e felci. Il mare, spezzettato dai rami e dai tronchi, non molto fitti, occupa buona parte del panorama sulla mia sinistra. Entro quindi un un fitto forteto di lecci, interminabile come una passeggiata col cane ai tempi del coronavirus. Anche i ciclisti sembrano essere passati di qui, ma spingendo: infatti su alcuni traversi su terreno ripido e morbido, perché arato dai cinghiali alla ricerca di ghiande, a monte c'è un solco di ruote, mentre a valle le fossette dei piedi.
Il bosco finisce poco prima della località Prato del Monte, a cui sale anche il sentiero proveniente da Case Pianca, al termine del frequentato sentiero dei vigneti di Volastra. C'è un piccolo spiazzo circondato da un bosco di lecci in formazione, che sta sostituendo i pini sterminati da un insetto della superfamiglia delle coccingilie. Si tratta di un parassita che, nelle pinete dell'Atlantico, vive in equilibrio con il suo ospite. Quando però è stato esportato in Costa Azzurra con il commercio del legname, nel nuovo clima è divenuto infestante, estendendosi quindi in maniera incontrollata fino alle pinete toscane, dove ha fatto sfracelli. Non sono stati trovati metodi efficaci di lotta: anche in agricoltura, le infestazioni da cocciniglie sono difficili da trattare, perché questi insetti si ricoprono di una patina di cera che li rende invulnerabili ai fitofarmaci a contatto. In passato, fin dal tempo dei Romani, le pinete erano state diffuse a scapito della naturale copertura di lecci, per gli impieghi del legname. Ora l'intervento umano sta ripristinando le condizioni originarie, seppure in maniera involontaria e cruenta. Ai margini della radura ci sono anche dei pioppi bianchi, esili e alti.
Nello spiazzo ci sono alcuni rudimentali sedili costituiti da brevi spezzoni di tronchi. Sebbene siano umidi, ne approfitto e mi fermo a mangiare qualcosa. Aggirandomi, noto che i vecchi cartelli consunti danno dei tempi più dilatati rispetto a quelli recenti. Nel frattempo due persone, in arrivo dal mio stesso sentiero, anticipano un gruppo di rumorosi toscani, diretti a San Bernardino e di lì a Volastra. Questa era una delle possibili mete che mi ero prefisso per oggi, visto che è l'unico dei santuari a cui non sono mai stato, ma la prospettiva di un'altra pausa in mezzo al loro vociare mi fa puntare invece verso Soviore. Si fermano brevemente, chiacchierando tra di loro e mangiucchiando prodotti energetici, e poi ripartono a passo arrembante. Resto ancora un po' ad apprezzare il silenzio ritrovato, il fruscio della brezza e il canto dei passeriformi.
Proseguo tra i lecci, tra cui ogni tanto si aprono delle radure occupate da rovi e felci, la prima vegetazione che colonizza gli spazi aperti. Arrivo in località Cigoletta, dove sento il rumore delle moto sulla strada delle Cinque Terre, che corre poco più in basso. Oggi è sabato e cominciano a girare. Trascuro prima il sentiero per Riccò del Golfo, quindi lascio proseguire dritto quello diretto a San Bernardino e Vernazza, e prendo invece a destra in salita sulla dorsale. Entro in una zona aperta di macchia, dove è fiorito un cespuglio spinoso, dei caratteristici fiori gialli delle ginestre, che però in questo caso non sono profumati. Mi accompagna per un lungo tratto. Provo a estrarre il binocolo per vedere se riconosco qualche cima appenninica nota, magari il Cusna, che potrebbe spuntare da dietro il crinale, ma la ricerca ha esito negativo. Vedo una lattina di marca ignota, che magari è qua da tempo immemorabile. Passo sul versante marino, dove c'è una pineta di piccole piante coeve, probabilmente formata dopo un incendio. I pini, a causa della resina del tronco, sono vittime perfette del fuoco, ma d'altronde le pigne sono stimolate a germinare dopo il suo passaggio, per cui gli individui patiscono, ma la specie ne beneficia. In effetti fu anche la pratica del debbio, gli incendi controllati per fare posto alle colture, a favorire la diffusione dei pini a discapito dei lecci. Nel bosco misto mi imbatto un un trespolo metallico dei cacciatori, caduto e lasciato alla decomposizione. Intravedo punta Mesco e sento le campane di Corniglia suonare il mezzogiorno. Passo quindi sul lato ombroso, dove il sole filtra dall'alto, generando la luce del bosco che preferisco: i rami sottili formano una trama frattale traslucida, contro lo sfondo del buio del pendio in ombra. In questa zona meno solatia, castagni e querce sono fittamente colonizzati dai licheni.
Mi superano due ciclisti, che fotografo con loro scorno e mio piacere mentre spingono; hanno il casco con la mentoniera e le ginocchiere, segno che forse andranno anche a lanciarsi in discesa a tutta birra. Tornato sul lato marittimo, il sentiero offre uno scorcio su punta Mesco e Portofino. Tralascio un sentiero verso Casella, in val di Vara, e trovo un fiore di zafferano alpino così bello e grande che non resisto alla tentazione di fotografarlo, anche se i miei gusti fotografici me lo vieterebbero. Fotografo anche un grande castagno ricoperto di licheni; dopo averlo esplorato da vari angoli e con le mie tre focali, mi stendo rasoterra e punto il grandangolare verso l'alto, ottenendo un'immagine che mi ricorda certi Prigioni di Michelangelo. Proseguo in lieve salita, come faccio da un po' e quindi in quota, intravedendo la torre del porto di Vernazza. Raggiungo i miseri resti di una casupola in arenaria, presso cui c'era un castagno, che ha perso la fisionomia monumentale che doveva avere ai tempi in cui la casetta era abitata. Dalla strada sottostante odo un certo andirivieni di automobili. Presso un gruppetto di fiori di zafferano alpino, che mi ispirano un'altra foto, mi fermo a sbocconcellare una mela. Il sentiero passa brevemente sul versante interno, tra castagni con qualche pino, per poi tornare presto sul versante del mare, da cui soffia una lieve brezza, in un bosco misto di alberi slanciati.
Raggiungo un colle chiamato Prato di Corvara, da cui svalica il sentiero che unisce Vernazza con Pignone. Su un tavolo sta facendo picnic una coppia, ben coperta, mentre io da un po' ho osato la maglietta, grazie all'aria più mite. Riprendo a salire verso il monte Malpertuso, che non raggiungerò, e passo accanto a una quercia che ha tutte le foglie verdi, che secondo il mio fallibile teleoracolo botanico è una quercia lusitana. Sul sentiero trovo due piccole pervinche fiorite e, passando in una zona più aperta, vedo il santuario di San Bernardino, posto su un avvallamento di una dorsale. Il sentiero prende poi a scendere in un bosco misto, con sottobosco di erica. Prima di confluire in una sterrata, il sentiero abbastanza eroso passa per un bosco di pini radi, in via di sostituzione con lecci. Il bosco intanto si fa più vario ma anche caotico, con maggior numero di specie, ma anche rovi e numerosi alberi caduti. Dove la strada riprende al salire, con un fondo di melma, la lascio in favore di un sentiero sulla sinistra, che scende in un bosco mediterraneo con abbondante muschio, fino a confluire sulla medesima strada, ora asfaltata, nei pressi di una casetta bianca. Qui è talmente umido che il muschio prolifera pure sull'asfalto. La strada mi porta alla Foce di Drignana, da cui si può anche scendere al santuario di Reggio, con il suo romantico filare di alberi secolari e il ristoro autogestito, dove bevvi il peggior tè della mia vita, e quindi Vernazza.
Io prendo invece a rimontare un dosso sotto un bosco di lecci, fino a spianare presso un leccio più grande, dove c'è un punto aperto da cui rivedo San Bernardino. Nella stessa direzione, mi sembra di scorgere delle isole, o magari solo delle nuvole più scure, perché la foschia non mi permette di riconoscerle con certezza. Il sentiero segue ancora un po' la dorsale, con saliscendi, e poi la lascia tagliando a mezza costa. Sento un richiamo di ghiandaia e poi un'accetta che spacca legna. Oltrepasso la dorsale su un colletto e passo sul lato ombroso, tra fitti boschi invasi da rovi e liane. L'ambiente diventa quindi più aperto, forse anche per il passaggio del fuoco, come deduco dall'abbondante presenza di felci e dai vaghi ricordi del primo transito qui, una decina scarsa d'anni fa. Raggiungo un'insellatura, da cui in dieci minuti potrei raggiungere il soprastante monte Croce, ma la presenza di ripetitori in vetta mi fa declinare l'invito. Ritrovo la ginestra spinosa fiorita e altra vegetazione di macchia e invasiva. Qui il panorama è ampio: verso l'interno vedo poco sotto di me casette sparse tra prati, più lontano i crinali ignoti dell'Appennino ligure; alle spalle i dossi boscosi percorsi, di fronte punta Mesco ormai prossima. Scendo alla strada, che seguo verso il santuario di Soviore, lasciando l'Alta Via, che risale il dosso successivo su una traccetta.
Raccolgo il sentiero della Via dei Santuari, che secondo gli archeologi ricalca una via preistorica, e proseguo tra un moderato traffico (con relativa puzza). Devo pertanto essere celere, mentre vado a scattare una foto sull'altro lato della strada. Tralascio una traccetta il cui imbocco è invaso da pattume, e proseguo finché trovo la pista che mi porta al piazzale del santuario.
Vista la stagione, santuario e ostello sono chiusi. C'è poca gente: una coppia con due cani, un signore di Levanto che si dilunga al telefono, quindi quattro escursionisti francesi, in arrivo da Monterosso. Tutti costoro non si trattengono che brevemente, per cui il piazzale è interamente per me. Mi sistemo su una panchina con vista mare, accanto al filare di lecci secolari coperti di muschio, a fare merenda. A occhio nudo vedo la sottostante punta Mesco, nera per il controluce, e lontano il promontorio di Portofino, che si staglia più nitido di stamane, anche se ci sono ancora foschia e delle nubi basse marittime più lontano. Con il binocolo riconosco la forma del Bric del Dente sopra Voltri. Quando si fa l'ora che volge al disio i camminanti, fotografo il filare di lecci secolari, che proiettano la propria ombra sull'ostello color rosa, insieme alla chiesa.
Scendo quindi per la mulattiera, in un ombroso bosco di lecci assai più fresco che il piazzale baciato dal sole, dovrei potrei stare bene con un pile oltre alle due maglie che indosso, ma conto di scaldarmi camminando. Il fondo lastricato ed umidiccio è parecchio scivoloso. All'interno di un tornante c'è una cappella in rovina cintata, a cui sono appesi dei fogli che non riesco a leggere. In un punto aperto, per il passaggio di una linea elettrica, vedo molti pini uccisi dalla cocciniglia, oltre al tetto del campanile del santuario. Sul versante oltre un impluvio c'è una grande casa rosa, circondata da terrazzamenti in via di recupero. Segue una rustica cappella in pietra, al cui interno sono state poste un'immagine della Pietà e immaginette sacre raffiguranti la Madonna. Ai bordi della mulattiera ci sono anche dei fogli plastificati appesi agli alberi o a dei paletti, su cui ci sono riportate varie citazioni sul tema della pace. Attraverso una strada, dopo un tratto lastricato di recente, dall'aspetto più poverello rispetto al selciato originario, e, dopo alcuni terreni tenuti a vigna e oliveto, proseguo nella macchia. Compare un po' di gente a spasso con dei cani e anche un gattino rosso di una casa. Intanto il sole tramonta dietro il Mesco, per cui ripongo nello zaino gli occhiali scuri. In corrispondenza di un oliveto e un casotto abbandonati, lascio la strada e ritrovo il fondo lastricato, che si inoltra tra terrazze in disuso, come lo è anche una cappelletta su cui qualcuno ha appeso una preghiera del pellegrino.
La prima casa di Monterosso è un B&B, poco sotto il quale il sentiero tra agavi e fichi d'India confluisce nella strada, che termina in corrispondenza di un grande parcheggio multipiano in funzione e di un altro lasciato a metà, con una gru abbandonata e la data del 2009 sul cartello di cantiere. Tra le prime case, di architettura dissonante rispetto a quella tradizionale, un po' come capita a Riomaggiore, c'è un albergo con un nome menzognero, che fa credere di essere nel paese vecchio. Già da Soviore avevo cercato un posto dove cenare, ma purtroppo quelli con recensioni migliori sono tutti chiusi per ferie. Ne provo una di seconda scelta. Vado prima però a fotografare il crepuscolo al grande scoglio della spiaggia, intralciando un po' con il mio cavalletto il nutrito flusso di turisti, diretti all'ultimo treno che parte prima dell'ora di cena. La foto è prevedibile per un esperto, ma per chi viene dalla pianura padana è una primizia. Distribuisco un po' di crocchette a due gatti, che non sembrano denutriti, ma apprezzano. Vado poi a sedermi al tavolo. La cosa migliore sono le patatine fritte, oltre naturalmente al calice di Cinque Terre, mentre il tonno, pur accompagnato da un contorno originale e apprezzabile, mi sembra cotto al punto da renderlo stoppa insipida: durante la settimana di cene tra le osterie di La Spezia, ho anche avuto modo di imparare come si cuoce il tonno.
Per approfondire
- G.P. Gasparini, Il bosco nel sistema agricolo delle Cinque Terre: Riomaggiore, Rivista di storia dell'agricoltura, anno LIII n.2 dic 2013
- A. Girani, Guida alle Cinque Terre, Genova 1998