Boschi e pietre dell'Avic
Valle d'Aosta
4 luglio
In un baleno
Questa escursione sarà una profonda immersione nel nucleo dell'immaginario romantico alpino, seppure rivisitato in chiave milleniale, perché attraverserò prevalentemente ambienti di una bellezza struggente e talvolta pure sublime, sia per la natura che per i manufatti, ma tralasciati dal turismo di massa della Vallée, che qui punta unicamente alla zona dei laghi più accessibili
Diario di viaggio
Punto la sveglia alle 4, ma quando la suoneria si avvia, sto patendo ancora i postumi dell’estenuante psicoterapia autogestita dell'altra sera, seguita alla pet therapy del pomeriggio, per cui rimando alle 4.30. A quell'ora ripeto nuovamente l'operazione e finalmente alle 5 me ne è rimasta una quantità tollerabile, per cui mi alzo, faccio la solita abbondante colazione con fiocchi integrali, semi e frutta essiccata. Dopo un caffè con burro, alle 5.45 sono in auto, giusto in tempo per ammirare il sorgere del sole dai capannoni dell'Ikea sul bordo della tangenziale.
Sole che sorgerà una seconda volta, dopo che sarò penetrato nel crepuscolo mattutino dell'incassata valle centrale valdostana, ma in questo caso in posizione più romantica dalle pendici delle Dame di Challand, così chiamate per essere una coppia di picchi, che però da Champdepraz appaiono come singola vetta. In effetti questa escursione sarà una profonda immersione nel nucleo dell'immaginario romantico alpino, seppure rivisitato in chiave milleniale, perché attraverserò prevalentemente ambienti di una bellezza struggente e talvolta pure sublime, sia per la natura che per i manufatti, ma tralasciati dal turismo di massa della Vallée, che qui punta unicamente alla zona dei laghi più accessibili.
Il parco fu istituito nel 1989, in seguito alla cessione dalla Teksid, allora il gruppo siderurgico della FIAT, con questa specifica finalità, di un'area a cui ne furono aggregate altre; negli ultimi anni pure l’alta valle di Champorcher è stata inglobata. Sono invece volutamente state escluse aree abitate, in quanto la gestione mira principalmente al ripristino di condizioni di naturalità, con la minor interazione possibile con le attività antropiche, piuttosto che alla coesistenza di esse con il mondo selvaggio.
Parcheggio in solitaria nello spiazzo accanto alla maison communal e riempio la borraccia. Bere il caffè a casa è stata una buona idea, perché lungo la strada, nella frazione di Fabbrica, non ho notato l' unico bar del paese per la solita deficienza maschile nella visione periferica, in quanto nascosto dietro un tornante.
Sapendo che il sentiero parte a monte delle case, attraverso il capoluogo vagando a caso per le viuzze caotiche, puntando prima al campanile con l'orologio fermo sulle 2 e quindi passando per gli orti, dove una signora ha appena raccolto un mazzo di bietole. Dalla stazza gli abitanti sembrano però nutrirsi soprattutto di polenta concia. Non riesco a trovare un buon punto di vista per rendere in foto l'aspetto del paese sospeso tra rustico e modernità di pietra cementata e legno verniciato. Su alcuni balconi è apposto uno striscione contro una discarica. I prati, a cui fa riferimento il nome del paese, in passato scritto con i trattini e separare i tre termini, secondo il Casalis sono quelli sottratti alle bizze della Dora, perché invece qui attorno è tutto impervio, a causa della presenza di rocce poco fratturabili, che producono scarso terreno e pure magro.
Sono le famose pietre verdi piemontesi, rocce molto alcaline di fondale oceanico, provenienti in origine dal mantello terrestre e sottoposte dapprima a idrolisi, una volta andate a contatto con l’acqua, quindi a metamorfosi durante i processi di sollevamento della catena alpina. In compenso forniscono abbondanza di minerali metalliferi, che dal XVII secolo furono sfruttati in maniera sistematica, con effetti non da poco sulla natura.
Tra latrati di cani lascio le case per il bosco con roverelle, castagni e pini silvestri, lungo una pista erbosa che diviene sentiero dopo una condotta forzata. Sebbene sia mattino e la temperatura fresca per la stagione, nell’afa del bosco sudo. Sbuco nuovamente sulla strada, la seguo fino allo spiazzo presso il divieto di accesso, dove è parcheggiato un van targato Lucerna. Un ponte valica la gola profonda una trentina di metri, dove il torrente Chalamy ha scavato una gorgia tra le rocce striate, con toboga e marmitte dei giganti per la gioia dei torrentisti. Oltre il ponte sono nuovamente sulla mulattiera, ora anche lastricata, sempre nello stesso tipo di bosco, arricchito da massi erratici. Ora la luce del sole colpisce in pieno la scena filtrando tra le chiome e generando in questo modo un caos di chiaroscuri, che rendono indecifrabile ogni foto ad essa scattata, per cui mi propongo di scattarle al ritorno, quando il pendio esposto a nord-est sarà in ombra.
La mulattiera ben costruita è scomparsa e sostituita da un mero solco di terriccio dove interseca la strada, prima di Gettaz-des-Allemands, che per ora trascuro in favore di Boden, due toponimi che evocano la presenza Walser (il secondo, familiare per il santuario di Ornavasso, significa pianoro). Frattanto nelle vesti del Polluce compare il primo lembo di Monte Rosa, che dominerà il paesaggio nella parte superiore dell' itinerario. Vado a visitare il secondo abitato anche perché la cartina riporta una fonte, e vi trovo un canetto schivo e impaurito. La casa è moderna e fa pensare alla presenza di pastori; accanto è presente un fienile formato da massi irregolari e travature di legno, adoperate come livelle dove non erano disponibili rocce scistose. Il luogo è molto solatio e caldo.
Dopo la bevuta riprendo a salire, ora invece in una faggeta ombrosa e fresca, con qualche pino silvestre inframmezzato, la quale mi accompagna per qualche centinaio di metri di dislivello. Questa essenza arborea è presente solo nei lembi più orientali della regione, ancora influenzati dall' umidità padana e di risalita marina, mentre è assente dalla valle interna più arida. Questo bosco si trova sul confine tra le due zone: la piovosità annua infatti cala rapidamente dai 1200 mm della bassa valle di Champorcher agli 800 dei prati sul versante solatio di La Ville.
Una palina metallica, come ve ne sono molte fino al lac Couvert, anche se a volte consunte e illeggibili, fa notare ai distratti un'aia carbonile. A causa della presenza di numerose attività metallurgiche sul fondovalle, promosse dai Savoia a fini militari soprattutto a partire dal Seicento e perdurate fino a oltre metà Novecento, fino all’avvento dei combustibili fossili i boschi valdostani furono intensamente sfruttati per produrre il carbone necessario a ridurre il minerale. Oggi tutto ciò è cessato, ma questo bosco si presenta ancora giovane, formato da piccoli alberelli. La stessa estensione della faggeta si è ridotta a favore dei pini uncinati, in grado di rigenerarsi più velocemente, mentre i faggi richiedono un sessantina d’anni per produrre i semi.
Il sottobosco si presenta al solito completamente spoglio, un eccellente esempio dalla versione scientifica della teoria di Gaia: i faggi, con la loro chioma ombrosa, modificano l'ambiente a proprio vantaggio, riducendo il numero di competitori e creando un microclima a loro propizio. Dal punto di vista estetico, la cosa che più mi colpisce è la tessitura di luce sul suolo e sui tronchi senza rami bassi, fitta e lieve come il tocco sul pianoforte di Glenn Gould, mentre suona le Suite Inglesi di Bach.
Sempre su pendio ripido, quasi all'improvviso la faggeta svanisce e lascia posto a un bosco meno fitto, con prevalenza di larici assieme a sorbi e pini uncinati, inframmezzato a piccoli fazzoletti prativi. Da uno dei cartelli imparo che larice in dialetto di dice Brenve, un toponimo che si ripete molto frequentemente nella Vallée. Dalle radure posso vedere l’Avic, il Cervino fare capolino e il Rosa quasi per intero. Raggiungo una spalla erbosa, circondata dai pini uncinati che da qui in cima saranno l'essenza dominante. Nelle Alpi Occidentali occupano la medesima nicchia ecologica del mugo nelle Alpi Orientali (nella nomenclatura attuale sono due varianti di una stessa specie, in cui l’uncinato ha portamento arboreo e il mugo prostrato), ovvero al limite superiore della vegetazione arborea, non di rado tra le rupi. In questo parco predilige pure le torbiere a suolo acido. Sebbene i dati pollinici delle torbiere mostrino che fossero un’essenza dominante già da quando terminò la fase arida delle glaciazioni, circa 7800 anni fa, in tempi storici hanno anche beneficiato dell’attività mineraria, in quanto sono eliofili e hanno un'elevata capacità di rigenerazione. A causa dei tagli a raso frequenti, ogni 30 anni circa, hanno sostituito le specie di conifere concorrenti, larici e abeti rossi - non vedrò nessuno di questi ultimi in tutta l’escursione, mentre i campioni di carbone di legna rimasti in loco mostrano che in passato aveva una certa diffusione. Inoltre la presenza di carbonaie passate si correla positivamente con l’attuale prevalenza dell’uncinato, in esemplari fitti di taglia ridotta.
Mattirolo non ne riporta alcun impiego alimentare, magari semplicemente perché in Piemonte sono quasi assenti. Un loro impiego locale era la produzione di pece nera, documentata nel XVIII secolo, che veniva ottenuta per cottura della resina in forni appositi. Per quanto riguarda gli aspetti naturalistici, anche gli uncinati manifestano delle proprietà gaiane, perché, se la mancanza di erosione consente ai suoli forestali di evolvere, essi alterano il pH alcalino dovuto alle rocce serpentinitiche, permettendo il dilavamento dei metalli pesanti contenuti in esse e creano così un habitat ospitale anche a specie non adattate alle condizioni chimiche estreme di questo substrato (i faggi sono meno bravi in questo). Qui siamo ai confini della faccia religiosa della teoria, simile alla narrazione della foresta in “Nausicaa nella valle del vento” di Miyazaki.
Godo di buon panorama e tanto di masso erratico, segnalato da uno dei cartelli. Mi fermo di fronte al basamento di pietre di un alpeggio a bere, mangiare frutta, spalmare la crema solare minerale. Non ho potuto fare a meno di comprare questa marca fra molte, perché in etichetta si vanta di essere priva di composti chimici: ovviamente intende prodotti di sintesi, ma espresso in maniera tale da cavalcare la diffusa paura della chimica e dell'artificiale, alimentata da varie ideologie e abusata dal marketing oltre il limite della truffa socialmente condivisa. Mi ricordo inoltre che devo mandare gli auguri di compleanno al mio compagno di banco del liceo, per cui mi alzo dal sasso che ho eletto come sedia e vado a cercare un posto affacciato sulla valle centrale con rete cellulare.
Frattanto ho udito un’infinità di canti di uccelli del bosco, tra cui per qualche ragione mi è rimasto impresso il frinire del picchio nero. In piano raggiungo il diruto edificio principale dell’alpe Quicord, formato di massi dalla forma irregolare e una copertura di calcescisti, una roccia diversa dagli ofioliti tipici della zona, che deve essere stato portato di lontano (è comune ad esempio nella zona di Dondena e del Miserin, ma ne esiste un affioramento pure lungo la strada per La Ville al bivio per Boden), a indicare l’importanza data a questo apparentemente insignificante alpe, sperso tra estesi boschi. La porzione sud-orientale della Vallée è formata da rocce molto dure, che non consentono la formazione di estese praterie, a differenza delle zone più interne. Questa diversità ha anche generato due distinte forme di alpicoltura: mentre nei vasti pascoli interni (grand alpages) si produce essenzialmente fontina, un formaggio grasso, ovvero cotto senza prima scremare il burro, oggi divenuto prodotto esclusivo della regione, ma in passato prodotto pure in Piemonte, in questi petit alpages si preferiva produrre burro e toma. Anche il clima è diverso, come già precedentemente osservato per i faggi, per cui non sono necessari i grandiosi canali irrigui bassomedievali noti come ru, ma solo opere minori. Inoltre, per l’esiguità del terreno pascolabile e la difficile accessibilità, questi pascoli sono stati abbandonati del tutto e pertanto l’area si è va naturalizzando, per cui questo parco è orientato principalmente verso la protezione della natura dalle attività umane e non al loro sfruttamento più sostenibile che nei secoli precedenti, con una coesistenza di fauna e flora selvatica e domestica.
In lieve salita, attraverso un rado bosco di pini uncinati, lungo quello che pare appunto un canale irriguo dall’architettura molto elementare, poco più di un solco. Con scarse doti, tento invano di ottenere buoni scatti dalle fioriture di rododendri e botton d’oro, azzardando anche prospettive grandangolari; a casa aspetterò a cancellare le foto ai secondi, unicamente per mostrarli prima alla fidanzata, perché sono il Thriller della sua Billboard botanica, o i gattini dei fiori, come dice lei. Peraltro le fioriture, nonostante la stagione di picco, sono modeste, tanto nella quantità quanto nella varietà, i metalli pesanti tossici, come nichel o cromo, rilasciati dalle rocce ofiolitiche rendono i terreni inospitali per molte specie e in generale poco fertili.
Ai piedi di un pendio di pareti fratturate e massi il bosco si allarga nelle radure dell’alpe Panaz; fiorite di molteplici fiori gialli, punteggiate di massi erratici dotati di pini, la parete del Rosa e la piramide del Cervino insolitamente innevate per la stagione a troneggiare, richiederebbero unicamente un’Heidi a piedi nudi per rendere perfetto l’idillio alpestre. Mi fermo su un sasso al sole a consumare la prima parte del pranzo, avanzi di lenticchie con pomodori accompagnati da pane di segale a cassetta.
Di qui la traccia del sentiero si fa spesso poco visibile, ma in compenso aumentano le frecce gialle con cui in Valle d’Aosta sono segnati i sentieri: in questo parco le segnalazioni sono all’osso, negli unici tratti in cui il sentiero non è evidente, per scomparire dove è univoco, anche se a malapena rintracciabile. Proseguo nell’ampio piano, fino a lasciare sulla destra un altro sentiero, nei pressi di un pino di dimensioni ragguardevoli, ma non riportato come esemplare monumentale sulla mappa interattiva della Regione. Quest’ultimo prosegue diritto fino a un laghetto, che vedrò dall’alto tra poco, mentre un ulteriore marcato con il numero 3, a cui non ho fatto caso, si è staccato sulla sinistra più o meno al centro dei prati. Io devo invece seguire il 3B, sovrapposto al sentiero intervallivo di media percorrenza 102, di cui ricalco la prima tappa da Champdepraz fino al Barbustel. Salgo tra radi uncinati, per poi traversare un pendio tra larici e ontani, fino a raggiungere una dorsale, da cui si stacca un sentiero marcato come 3E, penso di recente perché sulla mia cartina è riportato come non segnalato.
Qui attacco per la massima pendenza una dorsale molto ripida, sempre nel bosco rado di conifere, dove la traccia diviene ancora più incerta. Cammino a passo lento per non crollare all’improvviso: qui più che Bach servirebbero Beethoven se non i Led Zeppelin a sostenere il mio incedere. Ultimamente nel cervello mi gira frequentemente Black market dei Weather report, il cui giro di basso si presta egregiamente allo scopo. Il sentiero spiana solo dove è costretto dall’appiattimento della dorsale, tra un distesa di mirtilli, che nutriranno, più che i rari escursionisti che salgono di questa via, le volpi (ho visto i loro escrementi sul sentiero ripetutamente). A breve la dorsale si restringe drasticamente e mi trovo a calcare la stretta cresta precipite tra la conca boscosa del lago e un vallone roccioso assai più inospitale, pertanto opportunamente designato Enfer. In cima mi imbatto in una fioritura di rododendro, che nel frattempo era scomparsa per la stagione ancora acerba, sostituita dai boccioli, oltre che dalle prime fioriture dopo la neve, come la genziana di Koch e tra qualche passo gli anemoni narcissini e le pulsatille primaverili.
Mi inoltro tra placche rocciose, seguendo una traccia nuovamente più visibile e le frecce, che mi fanno contornare delle balze rocciose levigate, per scavalcarle. La posizione del lac Couvert, sulla soglia glaciale in cima a queste, è evidente da un po’ e finalmente lo raggiungo. Il laghetto è quasi interrato e invaso da vegetazione palustre, per cui non c’è modo di riprendere il riflesso del Rosa e del Cervino, ma la posizione sospesa sul precipizio è davvero in sintonia con tutto quello che lo precede. Forse per questo fu eletto a luogo dove lasciare delle incisioni a croci o scale e delle firme. Ne vedo alcune anche recentissime a margine del sentiero, senza particolare voglia di mettermi a cercare quella con la faccia di una donna dai capelli lunghi.
Retrospettivamente avrei fatto meglio a pranzare qui, prima del traverso con cui culmina questa escursione, ma, non essendo esausto per qualche ragione inafferrabile, per inerzia proseguo fino al punto più elevato del giro. Ora il sentiero si fa decisamente più costruito, persino con pietraie livellate, per cui deduco che i pastori salissero dalla valle di Champorcher e che non esistesse alcun sentiero da dove sono arrivato io. Con salita regolare a tornanti raggiungo la dorsale della cima Panaz ,dove svalico nella valle di Champorcher. Il luogo è chiamato col Panaz e marcato dai tronchi di piramide in pietre delle Alte Vie valdostane, pur non essendo affatto un colle, ma un punto a casaccio di una dorsale, in quanto un colle propriamente detto si trova più in basso in una zona rocciosa.
Il panorama si apre sull’alta valle di Champorcher: sotto di me ho una pietraia alla cui base c’è l’azzurro lago Muffè, con il suo ristoro dedicato a chi vuole fare picnic non troppo lontano dall’auto, oltre cui c’è l’altopiano ondulato di dossi morenici e laghetti delimitato a valle dalla caratteristico Bec Raty, che però da qui è gibboso e irriconoscibile. Dietro la conca erbosa del fondovalle, le piste da sci del Laris tagliate nel lariceto, la Rosa dei Banchi è in gran parte coperta da neve, come doveva essere una volta (il termine Rosa ha infatti lo stesso significato che in monte Rosa, ovvero un termine medievale per ghiaccio). Più a destra svetta l’appuntito mont Glacier, la cima più elevata del parco, mentre dalla parte opposta nuvole basse coprono l’imbocco della valle fino ai primi contrafforti, oltre gli arrotondati dossi montonati intervallati a prati e larici sparsi che racchiudono il lac Couvert.
Mi siedo a pranzare su un sasso non troppo scomodo, di fronte al panorama testé descritto.
Oltre un uncinato caduto in mezzo alla via, parte uno spettacolare sentiero di pietra, che in quota aggira la cima Piana, con panorama che si allarga sulle nude cime della val Chalamy. Una traccia di ghiaietta, ancora più ripida di quella sulla dorsale, adduce alla piatta cima, come suggerito dal toponimo. La tralascio, dal momento che il panorama è il medesimo che ho visto sinora aggiunto a quello che vedrò tra poco, quindi avrebbe senso salirci unicamente per oltrepassare i 2000 m di dislivello, ovvero per questioni statistiche.
Nei pressi di un pianoro con trasparenti pozze di un palmo e vista su Rosa e Cervino, dove vi erano delle cave di pietra ollare, imbocco il sentiero meno diretto verso il Barbustel, per ragioni concettuali, ovvero per descrivere un palloncino o cappio perfetto, senza dover andare e tornare dalla stessa via dal lago Vallette al rifugio, una scultura d’aria smossa dal mio passaggio senza sbavature o pelucchi penzolanti. In questo tratto comincio a incrociare escursionisti, che fino ai dintorni del rifugio saranno numerosi, per poi eclissarsi nuovamente dopo. Scendo tra larici sparsi e molte pietre, ammirando e fotografando le nuvole che risalgono e inghiottono i monti.
Raggiungo il marcatissimo sentiero che sale dalla strada per Dondena al colle del lago Bianco, in corrispondenza di un misterioso cartello che parla del pianeta Urano. Al colle ne troverò uno corrispondente su Nettuno; da questi deduco che partano dal Sole all’attacco del sentiero e arrivino all’ultimo pianeta del Sistema Solare, distanziati in proporzione a quanto lo sono nello spazio. Quando trascorsi le vacanze in valle, ai tempi dell’introduzione dei giubbotti catarifrangenti per le automobili, la pregevole guida edita da una cooperativa locale segnalava anche alcuni luoghi adatti ad ammirare le stelle e chi organizzava serate a tema; immagino che sia rimasta attiva una qualche associazione di astrofili.
L’ultimo strappo sotto il sole zenitale è il momento più caldo di oggi, pertanto al colle mi fermo a bere. Trovo una famiglia con accento dell’Italia centrale, composta da due insegnanti e tre figli adolescenti, presumibilmente diretti dalla strada al rifugio. La mamma è appassionata di fotografia e va a riprendere il piccolo nevaio poco sopra l’insellatura.
Aggirando un paio di cordoni morenici, che occludono la vista dal colle verso le cime della val Chalamy, scendo tra dossi montonati con vista laghi tra varia gente in verso opposto, tra cui una coppia di trentenni accompagnati da due asinelli con il basto, riuscendo a fotografare quello che si attarda, dopo un cambio di obiettivo da pit-stop di Formula 1. Peccato che sia troppo impaurito per farsi grattare.
Raggiungo quindi una casa con fontana e per prato sono al rifugio. Sui tavoli esterni stanno facendo pic-nic delle famiglie con figli piccoli. Lascio lo zaino accanto a un tavolo e vado dentro. Purtroppo una coppia di anziani escursionisti mi anticipa e prende le ultime fette di torta che mi gradirei, lasciandomi solo delle crostate, che non apprezzo. Ripiego così su un semplice caffè, che il gestore versa da un thermos in un bicchiere di plastica, per poi discorrere con i due dell’alluvione a Cervinia. Loro devono essere dei buoni camminatori, perché li sentirò poi accennare a un nevaio trovato oggi, che li ha bloccati; come scoprirò in una gita successiva, è subito prima del Grand Lac. Inoltre chiedono informazioni per scendere a La Ville da un sentiero diverso rispetto all’andata, indice di curiosità e creatività escursionistica. Su facebook scoprirò che sono triestini in vacanza in Valle d’Aosta. Mi dimentico di chiedere se esiste un timbro del rifugio da imprimere sul notes.
Attraverso il prato in direzione est, diretto al punto panoramico, prima di scendere per il sentiero 5. Si trova su un dosso montonato ed è dotato di tavola di orientamento, molto curiosa perché invisibile se colpita dal sole: per leggerla bisogna farle ombra. Incontro due signori prima ai tavoli, che devono essere alla prima visita in regione, perché ne hanno bisogno anche per identificare il Cervino.
Tra prati con l’erba bassa, pochi fiori e radi larici scendo quindi al lago Vallette, circondato da ampie zone palustri. Ci giro attorno e seguo una traccia per fotografare il riflesso dell’Avic, che meriterebbe una puntata sia all’aurora che con la luna; immagino che della prima luce esistano infinite copie, grazie alla vicinanza con il rifugio. Tra l’altro proprio al Barbeston feci i primi tentativi di foto lunari, quando ci venni con il CAI nell’ottobre 2006. La luce notturna mi affascinava tantissimo, per cui quando ebbi una fotocamera ad obiettivi intercambiabili comprai l’attrezzatura necessaria e mi cimentai più seriamente. Quella volta avevo unicamente una bridge che saliva al massimo a 400 ISO e come tempo più lungo aveva 8s, senza contare che neppure disponevo di un cavalletto, ma appoggiavo la fotocamera su corrimano e sassi. Ricordo che mi pareva strano che le stelle comparissero nelle foto, credevo fossero rumore delle lunghe esposizioni. Dovrebbero ancora esistere in qualche DVD, se non si è smagnetizzato nel frattempo.
Proseguo su una mulattiera molto ben costruita tra larici e pini uncinati, che taglia in quota sotto pareti fratturate di rocce rossastre, con vaste distese di massi alla base. Questo sarà il luogo dove le mie abilità fotografiche falliranno più miserevolmente, perché da due tentativi a rocce e uncinati non ne verrà che caos informe. Che è poi quello che ho di fronte, cataste su cataste di rocce sfuggite agli sbadati diavoli di Salomone, che avrebbero fornito materiale per altri cento templi.
Il pendio sulla sinistra intanto si fa sempre più precipite, fino a quando la mulattiera doppia una spalla rocciosa, dove è installata una seconda tavola d’orientamento. Qui raggiungo i due signori del rifugio, che stanno appunto imprecando soavemente contro il sole che non consente loro di leggerla. Ora la mulattiera cala più decisa una ripa di rocce e piccoli alberi, puntando verso il verde lago di Leser. Si trova al fondo di una conca, chiusa su tre lati dalle medesime pareti ruvide e massi, mentre a lato valle è delimitata da un dosso con un invitante pratino, dove però un cartello ricorda che nel parco è vietato campeggiare e accendere fuochi.
Poco più a valle vi è un bivio, dove i signori prendono a sinistra per La Ville. Io vado invece dall’altra parte, continuando a tagliare sotto pareti e oltrepassando un pianoro erboso allungato alquanto idilliaco, per di più nella luce pomeridiana, quindi un secondo più cupo, dove addirittura trovo una tacca dopo il superamento di un rio. Massi erratici si susseguono, alcuni con forme erosive dette plucking, ovvero prezzi di roccia di forma triangolare strappati dalla forza abrasiva del ghiacciaio. Ora la mulattiera prosegue con architettura sempre più mirabolante. Nel libro dell’abate Gorret sulle cacce reali non compare tra le mulattiere del re, per cui deduco che servisse qualche attività estrattiva, come ad esempio quella di pietra ollare al col de la Croix, perché per cura e impegno costruttivo surclassa di gran lunga anche le principali mulattiere di fondovalle: gli alpinisti diretti all’Avic nell’Ottocento descrivono il sentiero per le frazioni alte come poco strutturato. Dapprima costeggio un rio, che scorre molto ameno tra radi uncinati e rododendri fioriti, dopo però essere sbucato da un valloncello detritico abbastanza orrido. Quindi la mulattiera prosegue lungamente in piano, sempre tra i pini uncinati. Lungo i sentieri gli effetti del taglio per produrre carbone sono più marcati, poiché la semplificazione del trasporto portava a prediligere queste aree. L’Avic da questa prospettiva assume finalmente la forma a guglia che lo rende famoso, per di più perfetta, in quanto appiattita nei dettagli e priva di spigolature per l’ombra blu del controluce con la foschia dovuta alla calura pomeridiana. Giustappunto verso la fine del lungo traverso mi fermo a bere, perché anche nel bosco la si avverte chiaramente. Ho riempito la borraccia al rifugio, ma spero già di trovare una fonte almeno a Gettaz.
La mulattiera scende quindi a tornanti per un pendio affacciato sulla valle centrale e con esposizione a mezzanotte, grazie a cui posso finalmente riporre in saccoccia il cappellino. Sono sempre in un denso bosco di pini uncinati, che solo tra i pertugi dei rami lasciano intravedere la chiesa di La Ville. Tra le quote 1650 e 1450 non pochi alberi sono a terra, segati di fresco: immagino siano gli effetti della violentissima tempesta di föhn prenatalizia. Attorno a quota 1300 m raggiungo la prima testimonianza di residenzialità stabile, nella forma di un container da cantiere con finestre, cintato da reti metalliche.
Il sentiero attraversa una pista sterrata: dalla cartina deduco che potrei seguirla per arrivare alla prossima meta, ma preferisco attenermi al sentiero. Continuo a scendere in un bosco ora di latifoglie, per il sentiero diretto al torrente. Trovo il bivio per Füsse indicato da alcuni numeri di sentiero e frecce stinte su dei sassi, senza toponimi. Da qui a Gettaz camminerò vicino al margine della morena laterale della valle, che poco sotto di me è profondamente erosa dal torrente, anche con formazioni calanchive osservabili dalla strada per La Ville. Ora il sentiero taglia un ripido pendio, serpeggiando nel bosco tra gli avvallamenti, non particolarmente evidente: non riesco tanto a guardarmi intorno per stare concentrato sulla vaga traccia. L’unico segnavia è un bollo giallo su una pietra in mezzo a una radura. Oltre un rio, raggiungo la strada nei pressi di Füsse, dove i segnavia scompaiono del tutto. Dalla carta ricordo di dover imboccare una pista, che peraltro è l’unica via di uscita dalle poche case. Non c’è nessuno a cui chiedere. Tra l’erba alta, costeggio un prato cintato da un filo, che delimita il pascolo di una mandria di mucche. Descrivo un paio di tornanti in un prato e proseguo nel bosco. Dalla cartina la pista dovrebbe terminare e lasciare spazio a un sentiero, ma quando vedo un ponte su un rio incassato capisco che deve portare fino a Gettaz. Infatti un poco oltre cominciano i prati con grandi castagni, i frassini per il fogliatico e alla fine compaiono anche gli edifici. L’unico abitante pare essere un pastore, che adopera come stalla i vecchi edifici ancora in piedi. L’odore di stallatico e la rozza pietra delle costruzioni creano un’atmosfera alquanto rustica, a cui ovviamente non può mancare una vecchia Panda, da fotografare con le ombre della sera e l’ultimo lembo di Monte Rosa sullo sfondo. Il nome completo della frazione è Gettaz-des-Allemands, a ricordo di una passata colonizzazione walser, che però è stata assimilata anche nel dialetto. Su una panchina davanti alla chiesetta mangio l’ultima provvista, una banana, e alla fonte bevo un paio di bicchieri.
Percorrendo in discesa la strada di accesso, incrocio il sentiero del mattino, contento che la palina indichi solo 45’ a Champdepraz, e non un’ora come dedotto dalla cartina. Mi ero ripromesso qualche foto ai massi e al bosco, ma sono troppo perso nei miei pensieri. Riesco solo a notare due farfalle che si accoppiano su una pietra. Al parcheggio della gorgia c’è ancora il van. Dalla porta aperta mi saetta incontro un grosso cane snello e dal pelo corto grigio lucido; con fare aggressivo mi sfiora e fa per tornare indietro. Sbuca allora il padrone, che lo va a riprendere parlandogli un qualche dialetto non identificabile, più spaventato di me che mi abbia morso o colpito. Mi chiede scusa con qualche parola in italiano e poi mi fa fare amicizia con lui, visto che non mi dimostro ostile o infuriato.
Dopo l’ultimo troncone di sentiero, dove noto un giardino roccioso naturale sfuggitomi in salita, sbuco in paese, dove varia gente è seduta sull’uscio dopo aver cenato (sono le 20.30). Scendo a casaccio per viuzze diverse dall’andata fino all’auto, riempiendo la borraccia di acqua da portare in città. Evitando nuovamente la carrabile, manco nuovamente la trattoria, dove potrei fermarmi a cena. Per strada il traffico è scarso, quindi non causa ingorghi il restringimento di Quincinetto, che fa nominare il nome di dio invano a quanti scendono la domenica pomeriggio.
Per approfondire
- N. Anselmetto - F. Meloni - D. Morresi - M. Bocca - M. Garbarino, Effetti dell’attività mineraria sul paesaggio forestale del vallone del torrente Chalamy nel Parco Naturale Mont Avic, Rev. Valdôtaine Hist. Nat., 74/75, 2020/2021
- M. D'Amico, Suoli e ambienti del Parco Naturale del Mont Avic (AO) - 2: le foreste, Rev. Valdôtaine Hist. Nat., 60, 2006
- H. Reisigl - R. Keller, Guida al bosco di montagna, Bologna 1995
- M. D'Amico, Suoli e ambienti del Parco Naturale del Mont Avic (AO) - 2: le foreste, Rev. Valdôtaine Hist. Nat., 60, 2006