Monte Beigua 1287 m

Appennino Ligure

7-8 aprile


In un baleno

Questa traversata da Varazze a Voltri solca il gruppo del Beigua da ovest ad est, toccando come unica cima la sommità del massiccio e attraversando una moltitudine di ambienti diversi. La zona del crinale è raggiungibile in automobile ed è pertanto molto frequentata dai liguri, che vengono a mangiare nei rifugi e a fare una passeggiata, spesso con il cane. I sentieri che risalgono dal mare sono invece decisamente più solitari.

Cappella degli Alpini
Cappella degli Alpini

Diario di viaggio

Il gruppo del Beigua, che sormonta la riviera tra Savona e Genova, è il primo gruppo montuoso dell'Appennino, anche se dal punto di vista geologico fa ancora parte delle Alpi. In cima non presenta delle vette ben definite, quanto piuttosto uno stretto altopiano allungato; verso le Langhe e il Monferrato divalla dolcemente con morbidi dossi, mentre sul lato marino precipita con dirupi e valli scoscese verso la costa, da cui dista appena cinque chilometri in linea d'aria. Questo versante ha una geomorfologia prettamente alpina, che lo rende molto appagante da salire: partendo dalle stazioni balneari, in breve è possibile raggiungere ambienti profondamente diversi dalla vicina riviera, mantenendo il contatto visivo con il mare. In passato l'abbondanza di acqua ne ha permesso una diffusa colonizzazione da parte di agricoltori e pastori, che hanno lasciato in retaggio una fitta rete di sentieri, mulattiere e spartani ricoveri. La fantasia è l'unico limite alla varietà di percorsi ideabili.
Questa traversata da Varazze a Voltri lo solca da ovest ad est, toccando come unica cima la sommità del massiccio e attraversando una moltitudine di ambienti diversi. La zona del crinale è raggiungibile in automobile ed è pertanto molto frequentata dai liguri, che vengono a mangiare nei rifugi e a fare una passeggiata, spesso con il cane. I sentieri che risalgono dal mare sono invece decisamente più solitari.

Il sentiero parte dalla strada che costeggia il torrente Teiro, non lontano dal ponte dell'autostrada dei Fiori, com'è romanticamente chiamata questa successione di viadotti in cemento che incombono sulla Riviera. Qualche gradino porta a uno spiazzo davanti a una casa, su cui è stato piantato un ulivo. Una scalinata di cemento ci fa allontanare rapidamente dal centro urbano e ci porta su una stretta cementata, con vista sul porto turistico, che scorre tra due muri alti, costeggiando una bella casa rurale. Qui siamo a cinque minuti a piedi dai servizi di un grande centro turistico e già in campagna, una peculiarità ligure che a volte si ritrova persino a Genova. La stradina prosegue poi in un bosco di lecci, tra casette sparpagliate. Questo primo tratto, fino alla cappella del Beato Jacopo, ricalca una vecchia mulattiera di crinale. In molti tratti è entrata nella viabilità automobilistica, ma qualche sezione lastricata si è preservata. A Monte di una cappella, dove resisto alla tentazione di scattare la solita foto del sagrato invaso dal parcheggio selvaggio, il sentiero lascia le ultime case e coltivazioni, per proseguire nella macchia mediterranea. Facciamo già una pausa per bere, perché la giornata è calda.
Una volta queste colline erano coperte da un'estesa pineta, poi decimata da un vasto incendio una ventina di anni fa. Oggi sono rimasti dei pini radi, in mezzo alla macchia. Chissà se la vegetazione arborea si ripristinerà mai o se resterà sempre così spoglio. A volte la vegetazione spontanea si è formata in condizioni diverse da quelle attuali, per cui non è in grado di rigenerarsi se distrutta. Inoltre l'incendio non devasta solo gli alberi, ma anche il terreno, che diventa molto più suscettibile di dilavamento e può non essere più in grado di sostenere la copertura precedente. In breve siamo alla cappella dedicata al Beato Jacopo, vescovo della Genova medievale, dai colori vivaci e ben curata. Sopra di noi, il volteggio dei gabbiani lontano dal mare annuncia la discarica che prossimamente costeggeremo.
Dall'alto arrivano quattro persone, di cui solo il capo ha l'aria di essere un escursionista volenteroso, mentre gli altri sembrano marciare rimpiangendo il sedile dell'automobile. Sono diretti alla Madonna della Guardia, ma hanno sbagliato crinale. Indichiamo loro il sentiero segnato da un punto e una linea, che si dirige in quota verso il crinale corretto, distaccandosi qui dal nostro; loro preferiscono invece tornare indietro per la strada asfaltata, tra grida ed alti lai per la risalita che li attende. Li anticipiamo e in pochi minuti raggiungiamo una strada, dove sono parcheggiate delle auto. Non erano partiti che cinque minuti fa, pertanto. A bordo strada sono fermi dei ciclisti con caschi e paracolpi da downhill. Da questo colletto la vista spazia su alcune cime dal Beigua al Rama.
Imbocchiamo una pista sterrata dal fondo rovinato che presto spiana e descrive un ampio semicerchio in quota, in un ambiente di macchia e rada pineta. La discarica, sotto di noi, manda il suo rancido odore di biogas. Due stormi di gabbiani e corvi volteggiano, in attesa del prossimo camion; un corvo solitario, che trasporta qualcosa di giallo in bocca, passa radente sopra le nostre teste. Dal sovrastante Bric della Forca scende una coppia di vecchi con due bellissimi cagnoni. Passo un po' di tempo adocchiando la discarica, nella speranza di farle una foto con lo sfondo del mare, ma devo rinunciare al proposito. Al passo del Muraglione si apre la vista sul vicino mare, dove sta transitando una gigantesca portacontainer diretta al porto di Voltri. Lasciamo la conca della discarica e, per una ripida sterrata sconnessa, andiamo a innestarci sulla strada che sale da Varazze a Sassello, in corrispondenza del bivio per l'Eremo del Deserto. La seguiamo quindi fino alla cappella delle Faie. Incrociamo due ciclisti su ebike, un papà di mezza età con il figlio adolescente. Anche loro ci chiedono indicazioni per la Madonna della Guardia, la meta che volevano raggiungere prima di perdersi. Forse oggi lì c'è un raduno di diversamente orientati. Descriviamo loro la strada che abbiamo percorso noi, che secondo la carta è la più breve. Alla cappella facciamo una prima pausa pranzo. Ci raggiunge una vecchia, venuta ad aspettare l'autobus, che ci chiede dove siamo diretti.

Visto che abbiamo ancora molte ore di tempo, decidiamo che lasceremo il sentiero del più rosso, per imboccare la strada megalitica e andare a intercettare il triangolo vuoto che sale da Alpicella. Dovremo districarci in percorsi senza segnalazioni, per cui all'occorrenza sfrutteremo OruxMaps, l'app GPS per i cellulari. Seguiamo ancora per un tratto l'asfalto e prendiamo quindi una traccia sulla sinistra, che risale ripida un bosco misto di querce, castagni e pini. Arriviamo a una casa rosa ben ristrutturata, con tanto di piscina. Giriamo intorno alla recinzione e ci dirigiamo verso una seconda casa rosa, questa invece abbandonata. Il sentiero gira intorno al suo ampio prato con uno splendido tratto lastricato e gradinato, bordato di possenti faggi. Qui sono in un habitat inusuale per loro, a soli 600 m e per di più sul versante mediterraneo, ma sono riusciti lo stesso a prosperare. Magari i faggi sarebbero in grado di vegetare bene anche a quote più basse di quelle a cui li vediamo di solito, ma in natura perdono la competizione con altre specie più termofile. Se però in qualche modo riescono a nascere, qui ad esempio piantati e curati dall'uomo, se la cavano. Nel Monferrato, lungo il Tanaro, è sopravvissuto un esemplare secolare a quota di pianura, relitto di periodi più freddi in cui lì erano comuni.
Continuando a salire, arriviamo al bivio con il sentiero che segue la strada megalitica, contrassegnato da una N rossa. Lo seguiamo e in pochi passi siamo al manufatto: un'ampia mulattiera lastricata bordata da un muro a secco, in un bosco di faggi monumentali, anche qui fuori del loro areale e quindi di probabile origine antropica. Un cartello del parco informa che molti dettagli fanno pensare a un'origine rituale all'interno della cultura celtica. Il vicino Monte Greppino, un curioso panettone di serpentiniti nude, che vedremo a breve, ha le carte in regola per renderlo un luogo sacro alle popolazioni che la costruirono. Resto solo un po' perplesso dove sostiene che una prova è l'allineamento con il percorso del sole al solstizio. Gli allineamenti astronomici sono pressoché infiniti, come le stelle in cielo, e qualunque manufatto sarà allineato con qualcuno di essi. Ad esempio ne hanno trovati tantissimi anche nei menhir di Stonehenge, che sono stati disposti come li vediamo oggi in periodo vittoriano, senza sapere con precisione dove fossero in origine. Sentiamo frusciare e scalpicciare nel bosco: la mia compagna di viaggio riesce ad adocchiare il bianco sedere di un capriolo scappare al nostro arrivo. Il sentiero prosegue in discesa; qualche albero caduto non ostruisce il passaggio. Alcuni gruppetti di persone risalgono in senso opposto al nostro. Superiamo il bivio per già citato Monte Greppino e continuiamo a seguire il sentiero N fino a Ceresa.
Ora dobbiamo superare il torrente di fronte a noi e andare a recuperare una sterrata che ci porterà sul triangolo vuoto. Dopo un centinaio di metri su asfalto, una pista bordata di alberi sulla destra ci induce a pensare che quello fosse un sentiero. Lo seguiamo, superiamo il torrente e passiamo sotto a una casa, fino a un cipresso, accanto a un recinto con degli asini; il tracciato non è più utilizzato, ma ancora praticabile e non inglobato nelle proprietà. Qui il GPS ci dice che dobbiamo andare a Monte della case per trovare la nostra sterrata. Affrontiamo perciò un gruppetto di quattro cagnolini rumorosissimi, che si rivelano dei conigli. Proseguiamo lungo la sterrata e a un incrocio troviamo dei ragazzi che praticano il bouldering, su uno dei grossi massi che punteggiano la zona. Superate varie case sparse, a un tornante confluiamo sul sentiero cercato.

Sentiero che in questa zona è una pista che conduce a una presa dell'acquedotto e prosegue in ripida salita. Un segnavia su un morto in piedi ci fa deviare a destra per una ripida traccia sconnessa, non sempre evidente, che rimonta il pendio per la massima pendenza. Chiaramente questa bretella non è un sentiero storico: i montanari non avrebbero mai potuto percorrerlo carichi di fascine o con le vacche al seguito durante la transumanza. Peniamo un po' per questa robaccia, fino a quando delle pietre infisse sul terreno ci segnalano che stiamo raggiungendo un sentiero vero. È una sciagura la sostituzione dei tracciati originari con queste tracce da cinghiale alla carica, perché è una perdita di patrimonio storico, di cultura materiale della civiltà passata. Il crollo di un dipinto di Pompei genera opportuni editoriali scandalizzati sui giornali e indignazione sui social: qui si consuma un oblio analogo nell'indifferenza generale.
I primi minuti sul ritrovato sentiero rinnovano la pena, perché il fondo è molto rovinato dall'erosione, per poi finalmente migliorare. Sempre nel bosco misto prendiamo gradatamente quota. A circa 750 m ci fermiamo per finire il panino. Una moto da trial in discesa ci appesta con il suo puzzo. Questo sentiero arriva dal parco: almeno lì non dovrebbe essere vietato? Il sentiero descrive poi un tornante a destra, supera una zona di sorgenti dove i cinghiali si divertiranno un sacco a sguazzare nel fango, per raggiungere infine una zona di bosco più rado, alle pendici del Monte Prafaia. Lo sguardo può allora spaziare sulla costa savonese fino a Capo Noli. In moderata salita, raggiungiamo una casupola isolata, dove ci fermiamo due minuti ad ascoltare la musica suonata dal vento che fa ondeggiare i pini. Attraversando della radure ormai abbandonate dalla pastorizia, raggiungiamo una sella da cui appaiono le antenne della vetta del Beigua, ancora lontano. Le montagne dal basso sembrano sempre vicine, poi percorrendole a piedi si scopre quanto sono articolate.
Proseguiamo in quota attraverso il Piano della Luna, lasciando sulla destra il Monte dei Cavalli, nome che evoca le campagne napoleoniche. Costeggiamo quindi una delle caratteristiche pietraie di questo massiccio. I geologi dibattono sulla loro origine; l'ipotesi più accreditata è che siano l'effetto di cicli di gelo e disgelo sulle dure rocce di queste montagne, in periodi di clima più freddo. Proseguendo sulla mulattiera dissestata che taglia le pendici del Monte dei Cavalli, noto diverse pietre dal caratteristico colore verde-azzurro, che dà il nome colloquiale a questo tipo di roccia, formatasi a partire da lava proveniente dal mantello, eruttata da vulcani di fondale oceanico, a volte poi andata incontro a processi di metamorfosi. È la stessa dell'arco alpino occidentale: questa prima porzione di Appennino, condivide infatti la natura e la storia geologica delle Alpi Occidentali. Il resto dell'Appennino è invece formato da rocce sedimentarie, nate dai depositi arrivati in mare dalle Alpi e poi corrugati e sollevati dalla spinta della placca africana.
Proseguendo con modesta pendenza arriviamo nei pressi di un grande faggio. Qui ci imbattiamo in un percorso segnalato da un Ω rossa, che si rivelerà essere un sentiero che porta ai resti napoleonici di questa zona, teatro di furiosi combattimenti tra francesi e austriaci nei giorni intorno alla Pasqua del 1800. Lo seguiamo sperando che ci riporti al sentiero del più rosso, che ci risparmierebbe della strada. Scopriamo tuttavia che per raggiungerlo dovremmo perdere quota, per cui alla fine decidiamo di seguirlo fino in vista della croce. Non la raggiungiamo, perché sono ormai le 18, e proseguiamo lungo la strada asfaltata fino alle antenne, dove intercettiamo l'Alta Via, che ci condurrà a Pratorotondo. Il cielo si va velando e la luce è ormai dorata e tenue. L'aria si è fatta frizzante, ma resisto in maglietta, contando che non manchi molto. Tagliando i tornanti della strada, tra le ultime chiazze di neve, in una mezz'oretta siamo in vista dello Sciguelo e quindi al rifugio.
Oltre a noi pernottano una quarantenne con un bimbo di poco più di un anno, insieme al nonno. Quando noi avremo quasi finito di mangiare, arriveranno le avanguardie di un gruppone che cena qui e torna sulla costa a notte fonda. Il rifugio chiaramente sopravvive grazie a motorizzati come questi e non a noi escursionisti: ha pochi posti letto e solo un bagno nel piano delle stanze; non è certo la prima volta che noto una cosa del genere.

Visto che la colazione è ad orari da dormiglione (e a noi va ben così), ho la mezza tentazione di andare verso la Cappella degli Alpini a fotografare l'aurora che si prospetta. Dalla finestra della stanza vedo il promontorio di Portofino emergere da una foschia e una nuvolaglia densa, che potrebbe produrre un interessante cielo a tinte arancio e blu. Tuttavia le doppie coperte trattengono come in un caldo abbraccio e avvinghiano a sé il pigro fotografo, memore del freddo preso la sera prima, mentre cercava un punto raggiunto dalla rete cellulare. Poco male: scoprirò che la porta del rifugio è chiusa a chiave e avrei potuto solo sgattaiolare fuori dall'uscita di sicurezza, ma senza la possibilità di rientrare per un'ora almeno. Mentre facciamo colazione al caldo della stufa, arriva una squadra del Soccorso Alpino e sui fuoristrada si dirige verso Prato Ferretto. I gestori aspettano anche un gruppo del CAI di Imperia.
Imbocchiamo l'Alta Via verso est, ben coperti dall'aria frizzante del mattino. Adesso siamo quasi soli, mentre nei pomeriggi festivi questa porzione di sentiero è affollata di liguri, che salgono a Pratorotondo in auto e vengono qui a passeggiare e a portare a spasso il cane. Aggiriamo da lontano lo Sciguelo, che ricordo come il miglior balcone sul mare del parco e costeggiamo il grande prato che dà il nome al rifugio. Alla cappella degli Alpini tento di ripetere una foto scattata quest'inverno, in un pomeriggio in cui l'isola del Tino e le Apuane innevate si stagliavano nitide sull'orizzonte. Quest'ora di controluce fosca dipinge però uno sgorbio, nonostante il riflesso arancio del sole verso Portofino. Il Soccorso Alpino ha parcheggiato i fuoristrada dove un nevaio residuo ostruisce la strada e sta proseguendo a piedi, poco più avanti di noi. Sulle nostre tracce incombe invece il CAI di Imperia.
Arrivati alla sella tra il Resonau e il Rama, ci fermiamo lungamente a fotografare il primo, che in questo momento è baciato da una bella luce radente. Arriva un signore in maglietta insieme ad un cane, che sembrano essere partiti da Sciarborasca di buon mattino. Imbocchiamo il sentiero in discesa nella faggeta, accanto a un piccolo ruscello, dove una volta vedemmo un merlo acquaiolo. Il fondo è abbastanza rovinato dall'erosione. Troviamo alcune fioriture, tra cui un farfaraccio bianco, che ricordo di aver visto in altre occasioni qui intorno; anticipano le distese di narcisi trombone che ci aspettano a breve. Arriviamo alla Casa Carbunée, una costruzione della Forestale, oggi diroccata, edificata lungo la bellissima mulattiera lastricata che sale da Lerca aggirando il Rama, segnata da una A rossa. Il nome denuncia chiaramente l'originaria destinazione di questi faggi, gli alberi che si prestano meglio alla produzione di carbone. Proseguiamo in quota fino alla fonte Spinsu, dove rinnoviamo il contenuto delle borracce. Oggi troveremo parecchie sorgenti: la dorsale, sotto cui stiamo camminando, è molto piovosa, perché qui si scontrano l'umida aria marina e la fredda aria continentale, generando frequente instabilità (per tacere delle terribili tempeste invernali).
Qui lasciamo il sentiero che scende a Lerca lungo la Valle Scura, una stretta e profonda incisione tra l'Argentea e il Rama, dove mi colpisce molto la presenza di terrazzamenti in una zona impervia e pietrosa: l'abbondante acqua in passato permise all'agricoltura di radicarsi anche tra queste rocce, che contengono molti minerali tossici per le piante e sono abbastanza ostili a molte specie. Il sentiero della Forestale prosegue in quota, puntando verso l'Argentea. Attraversa un'alternanza di alberi dall'aspetto cespuglioso ancora in veste invernale e le già citate pietraie. Adoro questa zona, perché le pietraie le conferiscono un aspetto austero di alta montagna, anche se siamo a due passi dalla speculazione edilizia balneare di Lerca. Tra gli alberi è al culmine una sfolgorante fioritura di narcisi trombone, che sono spuntati tutti insieme. Al Padre Rino, un ricovero costruito da un pastore di pecore, poi passato alla Forestale e infine trasformato in ricovero escursionistico dal CAI di Arenzano e dedicato a un religioso caduto in montagna, non ci fermiamo, perché il gruppone del CAI di Imperia ormai incombe su di noi. Contiamo che si fermino loro, come infatti faranno. Continuiamo lungo le pendici dell'Argentea. Troviamo qui la fioritura più sontuosa di narcisi e godiamo anche di un bel panorama verso Capo Noli, perché l'aria si è fatta più tersa e le velature sono scomparse, con poche innocue nuvolette rimaste a fluttuare sul versante continentale.

Alla Collettassa poniamo gli zaini a terra e ci sediamo a goderci il sole e la vista fin sulle Cinque Terre, mentre la trentina di escursionisti di Imperia scorrono alle nostre spalle, diretti all'Argentea. La ripida dorsale tra la Rocca Turchina e questo colletto, costituita di erba, radi pini e spuntoni rocciosi, percorsa dal sentiero “stella bianca”, è probabilmente la mia zona preferita del lato marino del parco. Dibattiamo un po' se restare sul sentiero A, ma poi preferiamo proseguire più in quota, in una zona più panoramica. Imbocchiamo perciò la traccia diretta all'Argentea e dopo qualche zig-zag la lasciamo in favore del sentiero diretto al riparo Fasciun. Non è segnalato, ma la tracciatura è molto evidente e c'è pure qualche ometto, dove attraversa le pietraie. In breve siamo al riparo, da cui proseguiamo in quota sul bel sentiero.
Sotto di noi vediamo il magnifico manufatto del sentiero A. Notiamo che è subito al di sopra della pineta continua, che probabilmente è un rimboschimento opera della Forestale, come la mulattiera stessa. A partire dagli Anni Trenta del Novecento questi rimboschimenti furono fatti un po' in tutta Italia, sul modello di quelli tedeschi di qualche decennio prima. Dopo l'abbandono dell'agricoltura e della pastorizia su terreni marginali, fenomeno che dall'Europa Centrale si diffuse anche in Italia. Lo sviluppo industriale diede un'occupazione alternativa e un reddito più stabile alle popolazioni rurali e nel contempo ridusse la pressione sulle foreste, perché sostituì al legno il carbone e i metalli. In Germania, che fu l'antesignana di questo processo e ne divenne il modello, i nuovi boschi ebbero un notevole impatto anche sulla coscienza nazionale, cosa che invece mancò in Italia, per la connotazione complessivamente negativa data alla natura selvaggia dalla cultura classica. Ancora oggi la maggior parte dei montanari e anche degli escursionisti preferisce il bosco coltivato e sfruttato rispetto a quello lasciato alla sua evoluzione naturale (per quanto di naturale ci possa essere nell'Antropocene). Va detto che non sempre questi rimboschimenti furono fatti con specie adatte all'ambiente: fu usato indiscriminatamente il pino, anche al di fuori del suo areale, con il risultato che oggi questi boschi sono infestati dalla processionaria. Qui sembrano essersi integrati bene, tanto da espandersi anche al fuori della piantumazione originale. Al limite superiore, ce ne sono però diversi morti, forse a causa del clima ostile del crinale.
In questa zona, guardando verso il crinale si ha davvero l'impressione di essere oltre i 2000 m da qualche parte sulle Alpi Occidentali, anche se basta voltare la testa per vedere i pini e il mare. Ci fermiamo a pranzare dove il sentiero doppia una dorsale che sulla mia carta è chiamata Caretu, nel punto che ricordo come il più panoramico dall'Argentea alla Gava. L'aria è tersa, il cielo blu, la vista spazia dalla Caprazoppa a un puntino blu scuro che dovrebbe essere l'isola del Tino e comprende le cime innevate del blu Appennino del Levante. Parecchie navi sono ferme al largo del porto di Savona. Mangio un panino con la formaggetta di pecora del parco, comprato al rifugio. La pastorizia in questa zona ha subito un duro colpo l'estate scorsa, quando è morto il pastore di Stella, che portava le capre sui pascoli del crinale. Ora restano le vacche, che però sono meno efficienti nel fermare il proliferare dei cespugli. Se non ci saranno eredi, è possibile che l'area pascoliva si riduca per l'evoluzione della vegetazione, con effetti a cascata sui selvatici. Non è una novità: sin dal Neolitico l'uomo, con la sua azione dapprima involontaria e poi mirata, con i suoi cicli di espansione e abbandono ha alterato la vegetazione di boschi e pascoli, così come delle comunità di selvatici.

Il sentiero perde gradualmente quota e lungo il suo corso ci imbattiamo in escrementi di canide pieni di pelo lungo e scuro, forse cinghiale. Ce n'è anche uno con pelo verosimilmente di lepre. Purtroppo sono vecchi ed è difficile capire se siano di lupi (qui ben documentati) o di cani vaganti, anche se sicuramente i primi sono molto più efficaci nel cacciare grosse prede. Ne avevamo visti anche al colle tra il Rama e il Resonau, una tipica posizione delle sue fatte, agli incroci dei sentieri. Gli escrementi freschi di lupo hanno un odore caratteristico, dovuto a delle ghiandole anali atrofizzate nei cani. Superiamo la deliziosa sorgente del Leone, dove ci fermiamo a berne un bicchiere, e vari ruscelli con cascatelle, che più in basso confluiscono nel rio Lerone. Attraversiamo delle zone bruciate dal vasto incendio del luglio scorso, che ha colpito duro le praterie intorno al Reixa, già provate dall'eccezionale siccità. Al bivio successivo, scegliamo di proseguire verso il ricovero della Gava e non verso il passo, dove pure siamo diretti, perché il sentiero storico che stiamo percorrendo va al secondo, mentre al primo si dirige solo una scorciatoia per escursionisti. Il sentiero offre una bella vista sull'incavo della val Lerone, dove non mi sono mai infilato. Arriviamo così allo sbarramento artificiale nel pressi del ricovero. Un po' tardivamente, ci spalmiamo di crema solare, perché ci siamo accorti che ci stiamo arrossando: questa mi regalerà la prima brunitura di stagione (la mia compagna di viaggio è invece incombustibile). Con una breve risalita su stradina siamo al passo della Gava, dove si apre il panorama verso la graziosa frazione di Sambuco, a cui scende un accidentato sentiero nel fosso del rio Gava.
Ci attendono alcune persone intente a prendere il sole. Scegliamo di scendere su Voltri e non su Arenzano, che pure sarebbe più comodo per il rientro in treno a Varazze, in quanto il sentiero finisce giusto alla stazione: la prima opzione è infatti di gran lunga più bella (la sola vista della chiesa di Crevari contro il mare vale la giornata). Confluiamo pertanto nel sentiero proveniente dal passo del Faiallo, che a monte è interessante per via dei solchi lasciati dalle lese, le slitte di legno che trasportavano il legname dell'Olba per i cantieri navali, oltre che per la fioritura della viola di Bertoloni, un endemismo del parco. Imbocchiamo la mulattiera lastricata verso il passo delle Tardie, che raggiungiamo in breve. Dal mare arrivano alcuni gruppetti di persone con qualche cane. Scendiamo verso Voltri, passiamo per una specie di canale e arriviamo in vista di Genova, che nella luce di questo pomeriggio appare con tutti i suoi colori. Il panorama da qui è senz'altro uno dei migliori sulla città: un genovese incontrato a Pasquetta al bivacco del Monte Penello si raccomandava di dormire una notte al Gilwell, per poterlo ammirare all'alba. Purtroppo vediamo l'erica a valle del Dazio molto scura, come se l'incendio fosse arrivato fin qui. Al casotto del Dazio ci fermiamo per la merenda.
Riprendendo il cammino, ci accorgiamo che l'erica non è bruciata, ma è stata seccata dalla siccità dello scorso anno e ora i rami sopravvissuti stanno provando a fiorire. La discesa, che taglia le ripide pendici orientali del Monte Pennone, ora è estremamente panoramica su Genova, ma anche sul Bric del Dente, i due campanili di Acquasanta, punta Martin e forse anche il Tobbio, se lo sapessi riconoscere, nella selva di dossi oltre i prati verdi di fronte a noi. La mulattiera alterna tratti dal fondo rovinato ad altri ancora ben lastricati. Un surreale relitto di auto bianca, che disegna un triangolo mistico con quelle sotto il Bric del Dente e il fuoristrada della casella a monte della Baiarda, mi porta a chiedermi se siano stati i genovesi ad insegnare ai corsi il loro peculiare modo di liberarsi dei rottami, durante i secoli del dominio. Alla sorgente dei cacciatori faccio il pieno di acqua buona da portare in città. Entriamo in un bosco in evidente fase di transizione, perché la vegetazione arborea non ha ancora soffocato del tutto gli arbusti della macchia, che colonizzano per primi un terreno disboscato da incendi o altre cause, per poi soccombere all'ombra degli alberi. Qualche volta ricordo di averci visto delle timide capre, che oggi sono da un'altra parte. Due ciclisti arrivano alle nostre spalle a tutta velocità e quasi fanno filotto, senza nemmeno chiederci scusa.
Sbuchiamo sull'asfalto, da cui sta risalendo un ragazzo con una bici spinta da un motore puzzolente e rumoroso come un due tempi: domani racconterà di aver fatto sport nella natura. Scendiamo costeggiando un recinto di maiali, dei prati e un agriturismo. Arrivati alle case di Crevari, lasciamo poi la strada per una crosa che porta il nome di Via Superiore dell'Olba: chiaramente era la via che portava verso l'entroterra e in particolare la Badia di Tiglieto, prima che verso fine Ottocento fosse costruita la statale del Turchino. Quando si andava a piedi o a dorso di mulo, si prediligevano i percorsi di crinale, che hanno pendenze più dolci e sono al riparo dalle alluvioni; le carrozzabili, invece seguono i percorsi con meno dislivello. Sempre per crose andiamo ad affacciarci alla preannunciata chiesa, che da monte appare come a picco sul mare, una vista che chiude gloriosamente la gita. Alternando la strada a delle scalinate, scendiamo infine all'Aurelia, dove ci aspetta l'ultima corsa disperata per prendere il treno, tra il passeggio del tardo pomeriggio festivo. Forse avremmo potuto essere più rapidi in discesa, ma perché rischiare di tirarla via? Meglio arrivare più tardi, ma godere di ogni singolo passo finché si è tra i monti. A Varazze ci attende ancora una buona ma avventurosa focacceria, dove la fornaia, con un raffreddore omerico, ci serve la farinata con le stesse mani con cui impugna il fazzoletto, dentro cui ha appena sgravato le narici.

Per approfondire

H. Küster, Storia dei boschi, Torino 2009
C. Menta, Guida alla conoscenza della biologia e dell'ecologia del suolo, Bologna 2008
A. Parodi, vette e sentieri del béigua geopark, Cogoleto 2013
E. Poggi, Rocce della Liguria, Gavi 2011
Ente Parco del Beigua, Gravi danni nel Parco del Beigua a causa degli incendi del ponente genovese

Galleria fotografica

Varazze
Varazze
Via Bianca
Via Bianca
Beato Jacopo
Beato Jacopo
Coletta
Coletta
Coletta
Coletta
Strada megalitica
Strada megalitica
Piano della Luna
Piano della Luna
Piano della Luna
Piano della Luna
Giare dell
Giare dell'Olio
Monte Beigua
Monte Beigua
Cappella degli Alpini
Cappella degli Alpini
Bric Resonau
Bric Resonau
Sentiero A e Monte Rama
Sentiero A e Monte Rama
Bric Camulà
Bric Camulà
Sentiero A
Sentiero A
Collettassa
Collettassa
Sentiero A
Sentiero A

Caretu
Caretu
Caretu
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Costa dei Gatti
Costa dei Gatti
Punta Martin
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Genova
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Via Superiore dell
Via Superiore dell'Olba
Crevari
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