Laghetti di Bellagarda
Valle Orco
28 agosto
In un baleno
Appoggio lo zaino a terra e vado sulla sponda opposta alla ricerca di un punto per le foto pomeridiane che ho in mente. Al primo tentativo sono fermato da una palude, quindi provo dalla parte opposta e da una curva del sentiero individuo una tenue traccia, forse di selvatici che vengono a bere e a nutrirsi di mirtilli; fa il periplo del lago e si affaccia su alcuni punti strategici per le foto.
Diario di viaggio
Una bella escursione per boschi di conifere e risicati alpeggi, fino a dei fotogenici laghi, affacciati sulle Levanne e sul gruppo del Gran Paradiso. Con una ripida salita si può proseguire fino a un colle, da cui si abbraccia con un solo sguardo tutta la testata della valle Orco. Il periodo dei colori autunnali è probabilmente la stagione più indicata per questa escursione, ma anche in tarda estate è assai piacevole. Assolutamente necessaria una giornata limpida per poter godere dei panorami.
Preso il caffè al consueto bar di Ceresole, mi dirigo verso la cassa vicino all'uscita per pagare, ma non la trovo. La padrona, che già mi stava inseguendo pensando che volessi uscire senza pagare, con un sorrisone mi spiega che è stata spostata in posizione invernale. Agosto non è ancora terminato, ma la folla ferragostana si è già dileguata. Zaino in spalla, scendo verso le sponde del lago, dove delle persone stanno prendendo il sole in costume, come se fossero al mare. Questa colonizzazione da parte di modelli urbani mi lascia sempre sconcertato, ad alta quota, che ingenuamente ritengo debba essere un asilo. In fondo però anche sulle spiagge non è meno insensata: anche quelle sono ambiente naturale e sono danneggiate dall'invasione bipede, che ne distrugge la valenza ambientale per trasformarle in dépendance sterilizzate per cittadini in fuga dalla routine. Tuttavia pare che di ciò ci si ricordi solo quando le tartarughe si ostinano e deporre le uova sull'arenile, come fanno da milioni di anni prima dell'invenzione degli ombrelloni. Alcuni canoisti stanno intanto cercando un punto per calarsi nel lago, mentre io per la foto lunare alle Levanne, programmata per stasera.
Attraverso la diga, prendo a sinistra e imbocco il percorso segnalato per i laghi di Bellagarda. Questo primo tratto non è un vero sentiero costruito dagli alpigiani, quanto piuttosto una traccia di collegamento con il borgo principale ideata per gli escursionisti. Il sentiero storico parte da Ghiarai, vicino allo sbocco della lunga galleria tra Ceresole e Noasca. Ad ogni modo, il bosco misto di larici e abeti bianchi e rossi è davvero fatato, grazie anche alla luce che filtra da monte attraverso i rami e ai roccioni sparsi tra i tronchi. Le mie orecchie sono allietate dai canti delle cince, ma anche disturbate dal rombo delle moto dirette al Nivolet. Al crescere della quota l'ambiente diventa più silenzioso. Ci sono abbastanza funghi da riempire lo zaino, soprattutto laricini, ma anche qualche mazza di tamburo.
Il tracciato alterna tratti in quota a salite e va infine a confluire sul sentiero ben marcato proveniente da Ghiarai. Da qui il bosco diventa di soli larici e meno fitto. Accompagnato dallo scroscio del torrente, entro in una zona più luminosa che anticipa il primo alpeggio, Pian Pesse. Una singola baita è rimasta più o meno in piedi, mentre delle altre c'è poco più del basamento perimetrale. La fattura è abbastanza grezza. Il prato è stato quasi completamente colonizzato dai rododendri e dai larici, che qualche slavina ha contribuito a tenere radi. Doveva comunque essere abbastanza misero, adatto più che altro per le capre o ben poche vacche. L'unica cosa buona sembra essere il panorama sul Gran Paradiso, oltre che sulle piramidi rocciose alla testata del vallone del Roc e alle cime che circondano tra il Serrù e il Nivolet. Vicino alle baite c'è un sorbo degli uccellatori. Chissà se un suo antenato era stato volutamente piantato dai pastori, per integrare con la cacciagione la monotona dieta dell'alpeggio.
Il sentiero risale abbastanza ripidamente, con strette serpentine, il luminoso bosco a monte dell'alpeggio, densamente popolato dalle cicale. Con un traverso raggiunge l'alpe Ciarbonera, a cui si possono applicare quasi le stesse osservazioni di quella più a valle. Ancora una breve salita e, poco oltre il bivio per l'alpe Lillet, raggiungo il primo dei laghetti di Bellagarda. È senz'altro il più fotogenico, grazie ai riflessi delle Levanne da un lato e delle catene che chiudono i valloni del Roc e di Ciamousseretto, oltre che del Gran Paradiso dall'altro. Dentro il lago prospera quell'alga i cui talli filiformi, quando lambiscono le superficie, la fanno sembrare ghiacciata, se vista in controluce. Sopra le acque volteggiano le libellule. Le sponde sono tutte occupate da una brughiera a rododendri e mirtilli, con qualche larice e qualche ginepro. I succosi frutti viola sono maturi, ma poco zuccherini. Appoggio lo zaino a terra e vado sulla sponda opposta alla ricerca di un punto per le foto pomeridiane che ho in mente. Al primo tentativo sono fermato da una palude, quindi provo dalla parte opposta e da una curva del sentiero individuo una tenue traccia, forse di selvatici che vengono a bere e a nutrirsi di mirtilli; fa il periplo del lago e si affaccia su alcuni punti strategici per le foto. È intanto arrivata l'ora di pranzare, perché oggi non sono propriamente partito all'alba. Il pasto è accompagnato dai richiami dei rospi.
Riprendo il cammino, diretto alla bocchetta Fioria. Risalgo un dosso di rocce montonate e brughiera arida, che delimita una conca in cui giace il secondo lago. È affacciato su una fratturata parete dello gneiss tipico della falda Sesia Lanzo. Questo è l'unico particolare degno di menzione sul versante a monte dei laghi: per il resto non è molto attraente, scuro e uniforme qual è. Scendo dal dosso e guado l'emissario del terzo lago, presso le cui rive c'è un po' di prato, su cui si sono accomodati due adolescenti. Saranno quasi gli unici escursionisti visti oggi, a parte una coppia di pensionati incrociati all'alpe Pian Pesse, mentre stavano scendendo già a mezzogiorno. Il sentiero attraversa alcuni pianori e si dirige alla base di un erto canalino erboso, stretto tra una parete e una colata detritica, prodotta della parete rossastra della Punta di Pelousa. Rimonta quindi il canalino con pendenza sempre più accentuata, nonostante lo zig-zag. Il fondo rimane molto buono e solo in due o tre punti ci sono passaggi scivolosi, a causa del terriccio. Durante la salita sono assalito da una sorta di irrequietudine, forse motivata dal fatto che questo mi sembra il tipico pendio selvaggio alla cui cima ci sono gli stambecchi che ti scaricano in testa le pietre.
Ad ogni modo, quando arrivo in cima ci trovo solo pietre ed erba. Da valle soffia una brezza fresca, che mi consiglia di mettermi al riparo non appena ammirato il panorama. Il sentiero segnalato prosegue sull'altro versante, contrariamente a quanto dicono la carta e la guida. Ai miei piedi c'è un pianoro glaciale invaso da colate detritiche e privo di costruzioni, da cui sento fischiare una marmotta e soffiare un camoscio o stambecco, che però non riesco a scorgere. Lontano intravedo nella foschia un triangolino di pianura. Alla mia sinistra la cima della Pelousa sembra affrontabile, da chi non si fa impressionare da qualche passaggio di roccia elementare o terreni scoscesi. Il panorama migliore è però alle mie spalle e già l'avevo scorto salendo. Alla base del pendio c'è la piana ondulata punteggiata dai laghetti, il vecchio circo glaciale. Di qui è ben evidente che al ritiro del ghiacciaio dovevano essere molti di più (oggi sono cinque, di cui quattro visibili da qui), ma il processo di interramento in alcuni casi si è già completato. A valle un pendio di rocce montonante segnala dove scendeva la lingua di ablazione. Il versante orientale delle Levanne è già in ombra, come anche la più lontana Grande Aiguille Rousse e le cime circostanti. Brilla di blu il lago di Ceresole. Le macchine sulla strada a valle della diga sembrano delle pulci, di cui si ode solo un ronzio quasi impercettibile, che si confonde con il sussurro del vento, mentre il rombo delle moto arriva fin qui ben distinto. Sul lato opposto della valle vedo le costruzioni di Ca' Bianca, edificate su un poggio pianeggiante, che sembra la spalla glaciale della lingua che ha scavato la valle.
Resto a lungo ad godere di queste visioni, assaporandole un boccone alla volta, prima di stringere i lacci, allungare le bacchette e scendere con passo cauto, per non scivolare e portare le ginocchia ai cinquant'anni. Credo di aver impiegato in discesa più o meno lo stesso tempo richiesto dalla salita. Al terzo lago i due adolescenti si stanno preparando a scendere. Mi faccio rapire dalle increspature verdi dell'acqua e dai riflessi dei larici sulla superficie. Vado a sistemarmi su uno dei prati sulla riva, dove noto che c'è una bella luce sulle montagne di fronte. Estraggo perciò il cavalletto e faccio un'esposizione di qualche secondo per rendere eterei i riflessi tremuli. Inizialmente l'obiettivo sembra non voler funzionare e mi preoccupo un poco, temendolo rotto, ma poi mi ricordo della regola aurea dell'elettronica: lo smonto e lo rimonto e tutto torna a posto. Mi fa però un brutto scherzo il filtro grigio per la lunga esposizione, che lascia sul sensore un bagliore parassita di cui mi accorgerò solo a casa.
Faccio merenda e arrivo quasi al fondo della borraccia, ma resisto e non prendo acqua dal torrente, memore dell'epatite A che una volta colpì una conoscente, che era stata più incauta o più assetata. Torno quindi al primo lago, dove faccio il giro dei punti fotogenici individuati al mattino. Sono di fronte a un bivio: posso fermarmi un po' di più per fotografare con la luce del dorata, ma poi dovrò scendere per la via più breve percorsa all'andata, oppure posso partire subito e passare per la via nuova e più lunga dell'alpe Lillet. Dopo qualche rimuginio, prevale l'indole escursionistica.
Scendo perciò al bivio e prendo a destra. In una manciata di passi sono alla piccola alpe, su un pianoro di origine glaciale ben visibile dall'alto. Sull'altro versante della valle esiste un lago con lo stesso nome, che deriva dal termine franco provenzale liet e significa proprio lago; un pleonasma, dunque. Anche nel non lontano vallone valdostano del Fer de Mouilla esistono dei toponimi analoghi. Il sole è ormai basso e la luce è quella delle ore d'oro. Di ometto in ometto, di tacca in tacca, seguo una vaga traccia attraverso il piano e trovo al fondo un sentiero nuovamente ben marcato. Da questo punto in poi la guida dice che si attraversano alcuni impluvi. Traduzione: cammino in una sequenza di canaloni di slavina e frana, sufficientemente impressionanti, dove la vegetazione arborea è stata completamente rasa al suolo dalla furia degli inverni. Nei rocciosi impluvi di frana il sentiero scompare, ma gli ometti indicano chiaramente il passaggio più comodo. Visto che è ormai sera, ho tolto gli occhiali da sole e il cappello con visiera, ma me ne pento, perché il riflesso del sole sul lago di Ceresole è accecante; non ricordo niente del genere nemmeno nelle gite invernali al mare. Dopo un ampio semicerchio il sentiero prende a scendere molto deciso, con tornanti stretti e senza tregua, da ubriacare un corridore. Raggiungo un bosco più fitto, dove poco a poco il Gran Paradiso scompare dietro le pareti di roccia del Sergent e simili, battezzate dagli alpinisti del Nuovo Mattino con nomi ispirati al famoso El Capitan di Yosemite. Vedo l'alpe Crusionay costruita su un dosso tra due profondi impluvi; il sentiero per raggiungerla non è segnalato, ma l'attacco è molto evidente ad un tornante. La dorsale su cui è costruita l'alpe va a terminare in un aguzzo spigolo roccioso, alle cui spalle il torrente scende con delle cascate, che possono essere ammirate seguendo un paio di brevi tracce che si staccano dal sentiero. Il bosco diventa più bello dove gli abeti si frammezzano ai larici.
Faccio una pausa nella frescura del torrente, su una panchina accanto al ponte di legno che lo valica. Finisco l'acqua. Guardo la carta: il tratto ripido sembra finito. Infatti il sentiero prosegue con una discesa più regolare. Provo senza successo a catturare con una foto il controluce della sera nel bosco misto: dovrei venirci apposta e riflettere con calma. Tra rocce montonate, larici e abeti arrivo sul fondovalle all'unica casa di Ghiarai, proprio mentre il sole sta per scomparire dietro i monti. Imbocco la sterrata diretta a Frassa, nel bosco ormai privo di interesse senza la luce. Oltrepasso le Fonti Minerali e punto alla diga per l'ampia pista erbosa che sale a tornanti. Il sole tinge d'arancio le cime alle mie spalle. Passo accanto ai resti della fornace medievale, che produceva ghisa dal minerale di ferro estratto dalla miniera della Bellagarda, a monte dei laghi. Aperta ancora in età classica, la galleria esiste tuttora ed è anche segnata sulla carta. Arrivo alla diga mentre il sole tinge d'oro le velature. Zaino ancora in spalla, giusto per le 20 entro nel raffinato ristorante adocchiato al mattino. Mi servono della lingua al verde e una concia di capra con nocciole, accompagnate dal nebbiolo di Carema, mica male. Finisco il caffè con torta al cioccolato giusto in tempo per l'aurora lunare delle 21.30. Vado a fotografare le Levanne rischiarate dalla luce argentea, mentre la valle è ancora al buio, e la missione è compiuta. Dal lungolago per scalinate risalgo al capoluogo, dove ho parcheggiato l'automobile. Il rientro nella notte di luna, sempre proficuo in fatto di animaletti, mi regala la visione di una donnola, che mi attraversa la strada allo sbocco della lunga galleria prima dei tornanti di Noasca.