Visionari, soldati, minatori e fuorilegge a 3000 m
Val Troncea
16 luglio
In un baleno
Tocco con mano una forma di colonizzazione positivista dell'alta montagna, lontana dagli stereotipi arcadici, ma sempre in consonanza con la grande fatica dei montanari
Diario di viaggio
La dorsale tra il ramo di Massello della val Germanasca e la val Troncea ha da mostrare, oltre che visioni alpestri, anche storie toccanti. Salendo da Seytes per boschi di conifere e prati fioriti, per scendere quindi a Troncea per una magnifica opera ingegneristica di 150 anni fa, tocco con mano una forma di colonizzazione positivista dell'alta montagna, lontana dagli stereotipi arcadici, ma sempre in consonanza con la grande fatica dei montanari.
Lascio l'auto nel parcheggio affollato di camper, prima del ponte nella strettoia che dà accesso alla val Troncea, l'ultima propaggine della val Chisone, una zona oggi priva di abitazioni stabili e destinata a parco naturale, pur a breve distanza dal maggior comprensorio sciistico del Piemonte, la Via Lattea. Si estende per una manciata di chilometri, sempre molto profonda. È percorsa da una strada di fondovalle interdetta al traffico privato, ma su cui nel periodo estivo si può usufruire di una navetta, per raggiungere una borgata con rifugio, oppure l'alpeggio ai piedi della bastionata terminale. D'inverno invece la strada diventa una pista di fondo.
Riempio le borracce alla fonte e mi rendo conto di aver lasciato l'automobile aperta. Torno perciò indietro a chiuderla, anche se da rubare ci sono giusto un paio di sandali e del vetril. Perso un quarto d'ora di fresco, mi avvio all'ombra lungo la pista pedonale sul versante sinistro, mentre sul destro corre la sterrata: sul fondovalle c'è spazio appena per loro, oltre il torrente. Alle 7.30 il sole però l’ha quasi raggiunto, illuminando ormai la maggior parte del versante occidentale. Attraverso un bel lariceto, fino a giungere nei pressi del rifugio Mulino di Laval, dove vedo un signore intento a pulire i tavoli esterni. Ho la mezza tentazione di prendere un caffè, anche se approfitto dei giorni di cammino per cercare di limitarli, rispetto a quando ho le caffettiere a portata di mano, e tiro dritto. Per contro avrei unito l'utile al dilettevole, poiché sento impellente una necessità innominabile.
Sotto un cielo che si apre e chiude a ritmo incalzante, anticipazione del forte vento che troverò in quota, oltrepasso il torrente e il bivio per Laval. Voglio visitare questo borgo, perché nel cimitero c'è il memoriale per i morti della miniera, ma rimando al rientro, per approfittare dell'ombra mattutina fin quando possibile. Anche da Laval potrei arrivare al sentiero degli Alpini, dal colle del Pis, ma la salita si svolge su una sterrata di servizio agli impianti da sci e ho preferito pertanto un sentiero. Sarebbe un itinerario storico, perché vi transitarono i Valdesi durante il Glorioso Rimpatrio dall’esilio ginevrino, dopo aver pernottato a Joussaud.
La valle si è allargata un poco, e così pure il torrente, che corre sul fondo di un ampio letto di detrito alluvionale. Frattanto l’impellenza fisiologica si è fatta ineludibile. Lupi e volpi mi stanno particolarmente simpatici, ma sono troppo benpensante per imitare la loro abitudine di espletarli in mezzo alla via, per cui imito i gatti e cerco un dosso recondito a monte, peraltro già impiegato allo scopo. Il mio intestino è alquanto bizzoso: ho pertanto un rispettabile curriculum di bisognoni in luoghi agresti e talvolta anche aerei, anche se un mio amico mi batte. Taluni mi invidiano per ciò.
Lascio quindi la strada, che fin qui è aperta alle automobili, e prendo a salire sul versante ombroso, in un bosco di larici. Provo a registrare qualche canto di uccelli, in attesa che la rete dati prenda di nuovo e possa farli analizzare dall'app magica, ma a casa scoprirò di aver intercettato un pettirosso e una rondine, che girano pure attorno a casa mia. Come in ogni foresta di conifere abbondano le formiche rufe, con i loro nidi di aghi. Il sentiero sale gradualmente, per cui gli escursionisti hanno scavato numerosi tagli, che talvolta sono più marcati del tracciato originale.
Tra fischi di marmotte, sbuco sui prati di Seytes, ricavati dove la pendenza della montagna cala. Sono colonizzati dall'appariscente tasso barbasso, a indicare che non sono più fittamente pascolati. Ha vari impieghi: uno, grazie alle foglie morbide, è di carta igienica del pastore, come me lo indicarono nei Sibillini, ma le foglie rimaste erano anche fumate a scopo ricreativo. Quest'ultimo impiego pare avere anche effetti benefici per la tosse. Invece Mattirolo non ne cita impieghi alimentari. La borgata è interamente in rovina. I dati catastali disponibili mostrano che dopo il 1860 l'insediamento non conobbe espansione alcuna e già nel censimento del 1921 gli abitanti risultavano interamente emigrati, quindi durante la Resistenza la borgata fu distrutta come operazione anti insurrezionale. Una casa è tuttavia avvolta da un'impalcatura metallica appena installata, come risulta dal cartello dei lavori. Il committente è l'associazione Missione Montagna, ovvero uno spin-off della celebre Operazione Mato Grosso, che vuole costruire qui un rifugio. Sarebbe il terzo della valle, l'unico raggiungibile solo a piedi. L'OMG si basa sul lavoro interamente volontario di giovani. Trasportano a mano, senza mezzi meccanici e non godono di alcun rimborso spese, nemmeno per il vitto. Si caratterizzano per un ottimismo e una fiducia nel futuro davvero invidiabili, grazie a cui si lanciano in progetti visionari con scarsi mezzi e molta manodopera, come i montanari del passato. Peccato oggi sia tutto fermo e non possa vederli all'opera. Per ora hanno smontato l'unica vecchia casa rimasta in piedi e donata dai proprietari, per ricostruirla. Anche se difficilmente sarò un cliente di questa struttura, vista la posizione a due passi dalla strada, non posso che sperare nel loro successo.
Mi fermo a bere: sono già al sole caldo, quando invece speravo di restare in ombra fino a metà mattina. Se non altro c'è ancora bosco.
Parto aggirando per prati le case dirute, chiuse dalla recinzione dei lavori. A monte vedo una marmotta scappare nel prato, con il loro solito ballonzolare del grasso, che le rende buffe e adorabili. Con pendenza sempre sostenuta, nel prato e poi nel rado lariceto seguo con attenzione i paletti segnavia, senza un sentiero continuo tra moltissime tracce di bestiame in ogni direzione. Il fondo è alquanto articolato, presentando numerose vallette e dossi. Nel sottobosco ci sono moltissimi ginepri, come più in quota incontrerò numerosi semprevivi: sia l’arbusto che la pianta grassa sono indicativi di un ambiente arido, caratteristico delle Alpi interne, protette dalle masse d’aria umida provenienti dal mare e dalla pianura padana. Dagli alberi arrivano versi gracchianti di ghiandaie.
Oltre una fonte per il bestiame, protetta da fili, sento i campanacci dei bovini e mi vedo arrivare incontro una mandria di vitelli, che corrono e si inseguono giocosamente, salvo mettersi in allerta alla mia comparsa. Non hanno bisogno di cani da guardiania, perché quando appare un intruso si posizionano in assetto di difesa, con i più deboli al centro. Sono vitelli da carne piemontesi, che sono lasciati da soli al pascolo «come camosci», per citare un pastore che incontrai da ragazzo, con visite sporadiche dei pastori.
Per me sarebbe davvero arduo diventare vegetariano coerente, perché dovrei rinunciare ai giri fotografici notturni, così come alle lunghe escursioni estive con rientro serale, come questa, in cui ogni sera il parabrezza della mia auto uccide molti più insetti di quanti vitelli potrei sterminare in una vita di onnivorismo moderatamente salutista. Se lo facessi, mi dispiacerebbe non contribuire a questa forma di allevamento, che mantiene viva la cultura della transumanza alpina. Purtroppo non sono mai riuscito a capire come discriminare in macelleria i vitelli allevati in montagna da quelli tenuti in una gabbia delle stalle di pianura.
Fendo la mandria, cercando di non inquietare i vitelli più del necessario, e raggiungo il limite del bosco, dove ci sono gli ultimi sporadici larici pionieri e delle fioriture gialle e il panorama si apre sui ghiacciai francesi, sullo Chaberton con la sua inconfondibile cima livellata e su moltissime cime ignote. Mi viene da pensare come gli impulsi elettromagnetici, generati dai salti quantistici degli elettroni tra un orbitale e l'altro, elaborati dal nostro cervello, creano illusioni di oggetti solidi, che poi lui stesso giudica affascinanti: se la canta e se la suona da solo.
Al limite del bosco mi fermo in un avvallamento per rifocillarmi con datteri medjoul e spalmarmi di crema solare. Ne ho acquistata una politicamente corretta, che si vanta di essere puramente minerale e innocua per le barriere coralline, ma spalmata mi rende viola. Sento i rombi delle moto, che salgono al Sestriere, proprio di fronte a me.
Raggiungo il culmine dell'avvallamento, da cui vedo il Clot della Soma, dove arriva la sterrata di Laval, risalgo bordeggiando una colata ghiaiosa con tracce di zoccoli e guadagno così una dorsale, da cui ho nuovamente vista sull'alta val Troncea. Superato il cancelletto del bestiame, per prati fioriti, senza una vera traccia ma seguendo i radi segnavia, mi porto ai piedi del panettone erboso del Morefreddo, di erba rasoterra e fioriture analoghe. Lo rimonto per ripidissime tracce ben segnalate fino al pianoro finale, dove ci sono i resti di un ricovero militare, ridotto alle quasi sole pareti laterali.
Fa caldo nonostante spiri un forte vento. Il panorama sulla val Germanasca è minimo, sia per l'orografia contorta che per le nubi in risalita. Mi chiedo se riuscirò a pranzare sul Bric del Beth o se vento e nebbia mi cacceranno. Intanto mangio pesche e albicocche e bevo. Spicca invece la zeta del sentiero degli Alpini sul ghiaione del Ruetas. Fu costruito nel 1896 dal 7° Alpini, come ricorda una targa lapidea. Ho intenzione di percorrere il tratto fino al colle dell'Arcano, il più spettacolare, scavato nella roccia. Il sentiero si estende però in direzione opposta fino al colle dell'Albergian, meno scenografico, ma altrettanto pregevole dal punto di vista architettonico. Lo percorsi integralmente una decina di anni addietro, salendo da Balziglia.
In quest'altra versione si attraversano due luoghi legati a personaggi illustri. Scendendo, il primo sono i ricoveri di Moremout, dove don Forchino, prete cacciatore di Tagliaretto, rischiò di diventare vegetariano. Egli era solito abbandonare i suoi parrocchiani alle tentazioni durante il mese della caccia, per inseguire i camosci. Ai ricoveri vide un'aquila attaccare un cucciolo, che si salvò grazie alla protezione delle corna degli adulti. Di fronte allo spettacolo di solidarietà offerto dalle sue prede, don Forchino si sentì colpevole per voler fare loro la stessa cosa. Va detto che allora le aquile, come tutti i predatori che facevano concorrenza all'uomo, erano connotati molto negativamente e chiamati significativamente “animali di rapina”. Più sotto c'è invece l'alpeggio del Lauson, dove Pio XI da seminarista fu arrestato per vagabondaggio, dopo una notte trascorsa sul fieno. Dell'episodio mi colpisce il fatto che i carabinieri andavano a giro a piedi per sentieri, una cosa oggi impensabile. Più a valle ancora, ai piedi della cascata del Pis, lungo il sentiero, personaggi meno illustri hanno inciso una pietra. In basso è ben riconoscibile un camoscio, ma sulla sinistra a metà altezza c'è un'incisione più confusa, dove alcuni vedono un alce. Se l'identificazione fosse corretta, questa incisione potrebbe essere datata al Paleolitico, perché successivamente gli alci si estinsero dalle Alpi per il riscaldamento climatico posteriore alla glaciazione. Tuttavia, sebbene anche in val Camonica esista una singola raffigurazione paleolitica di un alce e i soggetti naturalistici siano tipici di quell'epoca, questo è considerato di epoca storica perché la tecnica esecutiva è la medesima per tutte le figure, anche quelle sicuramente ascrivibili a tale periodo come il geometrico, raffigurate sulla medesima roccia.
Trovo la traccia per scendere al sentiero, ma mi aspetta una sgradita sorpresa: un'ordinanza del 2021 afferma che una passerella è pericolante e vieta il transito. E se mi faccio male, il mio nome sarà associato all’ignominia per omnia secula seculorum e il costo di recupero della salma sarà addebitato agli eredi. Su Internet ci sono abbondanti citazioni di questa situazione, ma non le avevo lette. Poiché c'è ancora un divieto del 2014, dopo il quale fu ripristinato, decido di andare a vedere com'è la situazione ed eventualmente salire al Ruetas, per poi provare a scendere dalla cresta, che la “Guida ai Monti d'Italia” giudica facilmente percorribile ed erbosa. Risalgo la zeta sul ghiaione e attacco il tratto più spettacolare, scavato su un pendio quasi verticale e fiorito. Purtroppo sono avvolto da una fitta nebbia, che nasconde il panorama.
La passerella è fissata solo sul lato monte e dall'altro penzola verso l'invisibile abisso. Ci sono però da percorrere su di essa solo tre passi, in cui posso stare appeso a una corda di canapa, poi posso camminare su una cengia rocciosa, sempre assicurato alla corda. Penso che potrei cavarmela senza morire, a meno che le aquile che l'anno scorso vidi volteggiare qua sopra dedicano di attaccarmi proprio ora, e così faccio, ma non credo che consiglierei di ripetere l’esperienza. Lei non sarà entusiasta di questo racconto. In effetti, se avessi saputo in anticipo cosa mi aspettava, sarei salito sul Ruetas, una scelta molto più intelligente, ma la passerella era quasi in vista del colle dell'Arcano e non avevo voglia di fare tutta quella strada a ritroso.
Il sentiero raggiunge la dorsale, dove ritrovo il sole sul versante occidentale. Scendo anche ripidamente su ghiaione, attraversando un affioramento di rocce rossastre. Raggiungo il sentiero per il colle dell'Arcano, un toponimo curioso di origini ignote, e molto ripidamente lo raggiungo.
Ho due possibilità: scendere dal sentiero sul versante di Massello e risalire al colle del Beth, oppure percorrere la cresta tra le due valli, che culmina del Bric di Mezzogiorno (sull'ultima IGM e sulle carte moderne) o Bric del Beth (sulle carte più vecchie). Il nuovo nome parrebbe derivare da quello di una prospezione mineraria fatta sul suo versante meridionale, così chiamate poiché le primigenie erano sul versante ombroso del Ghininvert. Constatato che nel primo caso mi ficcherei in mezzo alle nebbia, decido di salire, tanto più che vedo l'imbocco di una traccia. Sono un po' provato, ma prevale l'ansia di levarmi questo tratto misterioso, in cui non so cosa aspettarmi.
Oltre che la traccia, mi imbatto in scolorite tacche CAI e questo mi rassicura. Quasi subito sono sul punto di ritirarmi, quando mi trovo di fronte un salto roccioso, ma ripesco le nozioni di Escursionismo For Dummies e ritorno all'ultimo segno visto, un ometto. Qui faccio caso a un passaggio stretto (avevo invece seguito la via più ampia), che mi riporta sulla traccia. Tacche e traccia andranno e verranno, ma non ci sarà da impiegare le mani. Sono parecchio affaticato. Quasi al culmine, dopo una certa latitanza compare nuovamente una tacca, che mi conduce ad aggirare sulla destra un'anticima rocciosa e infine ancora un'altra che mi fa trovare un passaggio comodo tra rocce rotte e ghiaietta, quando già temevo di dover ravanare sui massi. Sono in cima.
Lascio lo zaino su uno spiazzetto e risalgo le ultime placchette, fino all'ometto di vetta. Sono sempre sul confine tra massa di vapori e cielo limpido. Non vedrò tuttavia lo spettro del Brocken, perché i raggi solari arrivano paralleli alla prima. I laghi del Beth risultano nascosti. Mi accomodo in un cantuccio, riparato dalle folate fastidiose ma tiepide, seppure non panoramico, in quanto il ventaccio soffia della val Troncea. Su questo versante volteggiano tre rapaci, forse aquile, perché agli estremi delle ali hanno i ditini, ma sono proprio di taglio e non riesco a vedere i dettagli della livrea. L'anno scorso, alla sottostante cascata del Pis, vidi bene con il binocolo due genitori con due piccoli dell'anno. Mentre consumo il piatto unico di cous cous con ceci e melanzane alla menta, dal colle del Beth arrivano due signori, che non si tolgono neppure lo zaino, ma transitano con una brevissima sosta in vetta. Poco più tardi arrivano tre donne guidate da un ragazzo giovane, sempre dalla medesima direzione. Entrambi i gruppetti discutono sull’identificazione delle cime visibili. Il secondo si fa un servizio fotografico completo, con tanto di dibattito su quale sia lo sfondo più idoneo, ma neanche loro posano gli zaini e proseguono verso il colle dell'Arcano, da cui scenderanno nuovamente su Balziglia.
Dopo una congrua sosta, anche io mi rimetto in marcia. In discesa non ci sono tacche, ma il sentiero è più tracciato e lo perdo solo dove il timore di salti rocciosi mi fa fare giri oziosi. Il versante è molto più ripido di quello di salita. Tra le varie fioriture, vedo anche delle stelle alpine. Raggiunta una spalla, mi affaccio finalmente sui laghi. Il loro nome è il termine dialettale del latte scremato, per il colore che hanno nei frequenti giorni grigi, ma oggi sono azzurri.
Non mi fermo al colle, dove c'è un bivacco accessibile con chiavi, ma punto diretto alla miniera Santa Barbara, non indicata da nessun cartello, ma riportata chiaramente sulla carta Fraternali lungo il sentiero militare che prosegue in quota verso i laghi. Punto verso una zona di dossi erbosi e rocciosi, trovando anche della neve residua. Quando dovrei attaccare un nevaio, pesto prima con il bastoncino, perché vicino c'è una roccia calda e ho spiacevoli esperienze pregresse. Questo infatti sprofonda, consigliandomi un accesso alternativo.
L'ingresso della miniera è, manco a dirlo, sprangato da una cancellata (ottimisticamente avevo portato un casco, per buttare l'occhio fin dove potevo senza farmi male, e un obiettivo adatto a fotografare luoghi claustrofobici). Dalle foto paiono essere aperti quelli di gallerie meno individuabili. Inoltre l’accesso del cunicolo è ostruito da un cumulo di neve, che dovrei aggirare strisciandovi accanto su una catasta di pietre. Questo capita dopo un inverno avaro di neve: non oso immaginare quanti problemi desse la neve, durante i decenni a cavallo tra Otto e Novecento.
Le miniere fanno parte dell’immaginario mitologico dei popoli alpini non meno di masche, cacce selvagge, processioni di anime purganti e quant’altro. Pressoché ovunque ci sono leggende di fantomatici filoni che sarebbero accessibili in occasioni speciali, non di rado il giorno di san Giovanni (il nadir della festa del sole che risorge cristianizzata nel Natale e quindi ricorrenza animista importante), e darebbero a chi li scopre immediata via di fuga dagli stenti. Oggi, terminata l’era della ristrettezza generalizzata, il mercato ha provveduto a fornire abbondanti occasioni per alimentare questa speranza, disponibili a bizzeffe nella rivendita sotto casa, senza più necessità di ricerche faticose e aleatorie.
La realtà del Beth era invece decisamente più misera e cruda. Innanzitutto il minerale era molto povero, in quanto era pirite (solfuro di ferro) con piccole quantità di calcopirite (solfuro di ferro e rame); il tenore di rame era intorno al 3%. Poiché da principio era sfruttato esclusivamente per quest’ultimo metallo, la resa era davvero modesta e solo uno sfruttamento spietato dei minatori le rendeva economicamente convenienti.
Dopo alcuni tentativi abortiti tra Sette e Ottocento, la prima coltivazione produttiva fu effettuata a partire dal 1863, per l’intraprendenza di Pietro Giani, tagliapietre di Cumiana, un paese ai piedi delle montagne pinerolesi. Fece notevoli investimenti, in particolare per effettuare più lavorazioni possibili in valle: il prezzo del trasporto era infatti il costo principale, data la posizione remota. Tuttavia entro pochi anni il prezzo del rame crollò, per l’entrata in funzione di grandi miniere oltremare, cosicché l’impresa fu ceduta a prezzo inferiore agli investimenti fatti e fu chiusa.
Un erede di un socio francese di Giani riattivò le miniere a partire dal 1880, le quali quindi passarono da varie mani e conobbero il periodo di massima attività a partire dall’ultimo decennio del secolo.
La miniera è tristemente famosa per la tragedia occorsa ai suoi lavoratori: nell’aprile 1904, durante un periodo di intense precipitazioni, che nelle medie e basse valli provocarono alluvioni e furono invece nevose in quota, per il pericolo della neve bagnata primaverile e l’approssimarsi della Pasqua, decisero di scendere a valle. La decisione richiese tempo, sia perché i minatori del luogo, più esperti di valanghe, tentarono di dissuadere i compagni, sia perché molti temevano di essere licenziati abbandonando i cantieri. Secondo le testimonianze, un tuono innescò una slavina nel vallone tra il Bric del Beth e il Ghininvert, che li travolse e ne uccise un’ottantina, tutti minatori ad eccezione del capocantiere, un ragazzo di 28 anni in procinto di sposarsi. L’ultimo cadavere fu trovato solo in estate, allo scioglimento delle nevi. Si salvarono in maggior numero coloro che erano ancora nella stazione di partenza della Decauville (si erano divisi in gruppetti per ridurre il rischio che il loro peso innescasse una slavina), che fu travolta ma in parte resistette. Furono costoro che riuscirono a scendere incolumi e a raccontare l’accaduto, mettendo in moto i soccorsi. La stessa sorte toccò ai baraccamenti, dove alcuni furono estratti dalla neve ancora in vita cinquanta ore dopo la valanga. Anche gli impianti di trasporto furono gravemente danneggiati.
In quei decenni non di rado nevicò abbondantemente con conseguenze gravi: La Lanterna pinerolese, settimanale della cittadina allo sbocco della valle, aveva una rubrica abituale intitolata Drammi della neve. Altri minatori erano già morti sotto slavine o assiderati, la stazione superiore della funicolare era stata semidistrutta da due slavine in rapida successione nel 1901, per fortuna senza vittime. Persino un direttore della compagnia aveva pagato il fio della posizione disagiata, fratturandosi un piede per una scivolata su una roccia bagnata, al ritorno da un’ispezione. Eventi simili erano frequenti, in aggiunta agli incidenti tipici del lavoro nei cunicoli con gli esplosivi.
I minatori inoltre, specie nelle vecchie gallerie in discesa, erano costantemente a rischio di venir intossicati dal polhan, il gas che si accumulava sul fondo. Anche le condizioni nei baraccamenti erano aspre per il freddo, soprattutto invernale, e gli unici svaghi erano un biliardo e il vino a fiumi. Probabilmente gli unici cibi erano la pasta e la polenta, da cuocere sulla stufa del baraccamento. A parte questo, ricavato dal resoconto di un curato in visita, peraltro non molto simpatetico con la causa dei lavoratori, non sappiamo molto altro sulla vita dei minatori in quelle condizioni estreme.
La tragedia accelerò un processo di chiusura, completato nel 1911, che si sarebbe verificato comunque, dacché la concorrenza dello zolfo americano era divenuta insostenibile. Questo nonostante la società si fosse sempre impegnata in nuovi investimenti e miglioramenti, fino alla fine, conformemente all’ottimismo positivista del tempo, secondo cui l’uomo avrebbe piegato la natura ostile ai propri bisogni. Alcuni scaltri imprenditori riuscirono ancora a trarre profitto smontando e rivendendo gli impianti ai costi maggiorati che la Grande Guerra impose. Nemmeno l’autarchia rese conveniente riaprire.
In tutto questo turbinio di attività i montanari della val Troncea rimasero sempre marginalizzati, anzi spesso impegnati in una infruttuosa opposizione alle varie opere, che percepivano come dannose per le attività agro-pastorali da cui dipendevano: i miasmi dello zolfo erano fonte di malattie per persone e armenti, i carichi sospesi della teleferica e i suoi 2000 V minacce all’incolumità dei pastori.
Tornando da un'altra via, passo al di sopra di un cumulo di scarti e transito da alcuni buoni punti di vista sui laghi. Il migliore include dei nontiscordardime e il Ghinivert, il soprastante Tremila accessibile con un sentiero (la mia quota massima è stata 2986 m). Trovo quindi un comodo accesso a un laghetto, su una roccia arrotondata e pianeggiante, dove approfitto per mettere i piedi a mollo, in segno devozionale. L'acqua è molto fredda e soffia sempre un vento teso. Poco sopra di me, su un ripido prato che cala nel laghetto, sono seduti due signori dall'aspetto nordico.
Dopo la pausa, torno al colle, sballonzolato da un vento sferzante. Vi arrivano dalla val Troncea due signori, che mi chiedono se ci si può affacciare per vedere il panorama della val Germanasca, da qui precluso dai dossi che racchiudono i laghi. Alla mia risposta inconclusiva fanno rapidamente dietrofront.
Scendo ad ampie svolte per un magro prato. L'imbocco della galleria Bernard è visibile dall'alto. L'ingresso è crollato e vi fuoriesce un torrente, che colora di giallo il letto per i composti solforati che contiene; purtroppo ho un olfatto molto scarso e non sento odori. Non oso immaginare quali fossero le condizioni ambientali di lavoro all'interno, con queste premesse. Porta il nome di un socio degli eredi del socio francese di Giani, coloro che riattivarono gli scavi e li modernizzarono: questo scavo fu infatti effettuato in maniera più razionale che nelle gallerie precedenti, sfruttando lo sviluppo tecnologico, tra cui la dinamite di Nobel e la perforatrice meccanica di Sommellier, che consentì maggiori scavi e meglio organizzati, secondo lo schema a gallerie parallele e pozzi in uso tutt’oggi. Invece prima si cercava di scavare il meno possibile stando alle costole del filone, con il risultato che le gallerie erano tortuose e caotiche. Aspetto che una nuvola oscuri il sole e attenui le ombre per scattare una foto.
Mi dirigo quindi verso il piano inclinato in pietra, dove dal 1899 il minerale scendeva per gravità sui vagoncini di una ferrovia, che usciva direttamente dalla galleria. Ripercorro il basamento di questa stradina ferrata, ancora quasi perfettamente rettilineo, allietato dalla fioritura dei cespugli di rododendro. Punta verso due muri sbrecciati, dove i vagoncini erano ruotati di circa 90° (per questo la stazione era detta “L'angolo”), quindi agganciati a una teleferica, distaccandosi dal carrello con le ruote. Questo sistema automatico fu realizzato dopo la valanga, in quanto prima era necessario un trasbordo. La corsa terminava sul fondovalle, a quota 1700 m, dove la fonderia della Tuccia provvedeva alla lavorazione del minerale. Gli impianti sfruttavano i recenti sviluppi tecnologici della corrente alternata, nati da anche meno di un decennio. La valanga danneggiò anche questi sistemi di trasporto, che furono definitivamente smantellati quando la miniera fu dismessa.
Prima di arrivare all'Angolo, un camoscio mi attraversa la strada qualche decina di metri. Proseguo oltre in quota fino a un impluvio, dove scorre il modesto rio fuoriuscito dalla miniera. Su un sasso mi fermo a ora di merenda, per consumare la seconda parte del pranzo.
Proseguo in quota e transito dall'imbocco di una galleria esplorativa, accessibile con una calata in un angusto pertugio. Fu scavata dopo la valanga, su progetto dell’ultimo direttore dei lavori, con lo scopo di essere più vicini all’Angolo e più protetti dalle valanghe. A valle è ben visibile la catasta di pietre scavate, mentre il resto dei prati si presenta ben spietrato. Mi ricongiungo quindi al sentiero proveniente dalla galleria, con vista su Troncea e le vacche al pascolo. Un cartello all'Angolo indicava due ore di cammino per raggiungere Troncea: mi parevano eccessive, visto il dislivello, ma ora scopro il perché. La strada dei minatori è infatti una pista molto graduale, pensata per trasportare i pesanti carretti di minerale trainati da muli, prima che fosse edificata la teleferica. Risale al primo tentativo di sfruttamento, nel 1863. Scende con ampi tornanti (non senza tagli degli escursionisti frettolosi), prima per prati fioriti, quindi nel rado lariceto pascolato. È un’opera ingegneristica notevole, al livello delle mulattiere militari, che ha resistito molto bene ai danni del tempo, e forse il tratto più ameno dell'escursione di oggi. Sul versante opposto la montagna è illuminata da lame di luce radente del sole, in procinto di abbassarsi e sparire a ovest.
Raggiunto il bivio per Seytes, scendo a Troncea a fare rifornimento d'acqua e di caffè, approfittando del rifugio. Nell'altro edificio residenziale, di proprietà del pastore, stanno sparecchiando una tavola. Vista l'ora tarda, la folla della domenica si è già dissolta e non restano che due signori che pernotteranno qui. Quanto li invidio! Quest'anno ho rinunciato al trek itinerante, per sfruttare un'opportunità di futuro più attraente, ma i crepuscoli sui monti, la luce lunare, le stelle e la prima luce del mattino mi mancano. Dopo il caffè molto buono, la gattina del rifugio viene ad annusare il mio zaino puzzolente di sudore, come il mio gatto quando rientro dalle escursioni, e si fa coccolare un tantino.
Mi allontano mentre le vacche, questa volta da latte, rientrano in stalla, accompagnate da pastori che paiono avere lineamenti indiani. Il proprietario dice che le bestie sono di una razza austriaca.
Da Troncea posso scendere sul fondovalle lungo la sterrata di accesso oppure seguire il sentiero a mezzacosta per Seytes. La prima condurrebbe alla Fonderia della Tuccia, costruita già dal Giani e riadattata alle lavorazioni successive dai successori. Inizialmente infatti lo scopo era ottenere il rame per i fili elettrici, separando il minerale dalla ganga per flottazione, grazie alla diversa densità, quindi arrostendo lo zolfo, disperso nell’ambiente come biossido, molto tossico: il comune di Pragelato aveva imposto che le emissioni non danneggiassero le persone e il bestiame. Quando lo zolfo divenne uno dei prodotti da recuperare, il processo fu adattato per ricavare anche questo elemento: furono dismessi i forni e installati dei mulini e dei sistemi di flottazione per frantumare il minerale e separarlo dalle impurità.
Provo a seguire la seconda via seppure sarà più lunga. Sono premiato, perché attraverso prati con fioriture di genziana maggiore e digitale gialla, lariceto e ameni impluvi. Sul versante opposto dei larici sono illuminate solo le punte, mentre il sottobosco è in ombra, un mosaico di luce che mi trasmette un senso di onirico. Una marmotta si fa ammirare da vicino scrutandomi dall'imbocco della tana, un cucciolo resta con la testa fuori dalla tana a controllarmi.
La discesa da Seytes, sul sentiero del mattino nell'ombra della montagna, mi coglie immerso nei miei pensieri. Dove sbocco sulla strada prima della sbarra è parcheggiato un maggiolone. Anche se sono specializzato nelle Panda, gli scatto una foto.
Dalla strada di fondovalle imbocco la pista per Laval, per andare al cimitero dove furono sepolti i minatori. La borgata è ancora in piedi, ma nessuna casa è abitata. La prima costruzione è un pilone, edificato dove vi era una chiesa distrutta da una slavina (il paese fu bersagliato ripetutamente dalle valanghe). Provo ad attraversarlo, ma è impossibile per la vegetazione invasiva e devo perciò tornare sulla sterrata. Il cimitero è sul retro della chiesa, la cui canonica è adibita a struttura ricettiva. Il monumento è una colonna di pietra con in bassorilievo degli strumenti di lavoro in miniera e una scritta commemorativa, affiancata da un recente pannello descrittivo, in sostituzione dell’originale ligneo. I nomi sono tutti italiani, in quanto, per la vicinanza al confine e la diffidenza verso i proprietari francesi, con la cui patria l’Italia aveva rapporti tesi, i comandi militari imposero personale interamente italiano. I minatori furono sepolti quasi tutti in una fossa comune, che restò aperta per mesi, fino al ritrovamento dell’ultima salma. Nel cimitero ci sono poi poche lapidi, un paio recenti. Le foto dell'epoca della costruzione mostrano come a monte non vi fosse un albero, ma solo prati. Sopra l’ingresso vi è una scritta in francese che recita: «Il piacere di morire senza pena non vale la pena di vivere senza piacere». Magari è stat pensata come consolazione per la loro morte precoce e violenta, ma suona un po’ beffarda per sventurati che conducevano una vita aspra lontani dagli affetti.
Mentre rientro al parcheggio dei camper lungo il torrente, sento arrivare da valle un frastuono di campanacci e incrocio una manciata di pastori con qualche vacca da latte. Immagino che siano le miss del concorso di bellezza per vacche che si teneva oggi a Pragelato. Anche se preferirei che le persone apprezzassero le montagne per quello che hanno da offrire, ritengo un male minore che i pastori possano beneficiare della sua trasformazione in parco di divertimenti per cittadini, se non c'è altro modo di far salire gente che porta reddito.
Quando il telefono prende di nuovo, mi accerto che il locale del birrificio Beba abbia posti disponibili. Mi accodo ai camper e scendo fino al paese d’origine di Giuanin Lamiera, dove mi sfondo di gofri al grano saraceno, la versione indigena del mediterraneo panino con companatico, tra giovani che si attardano. Ne riempio uno con una roba tex-mex di fagioli piccanti e pancetta e l’altro con gorgonzola e zucchine. Come birra, non essendoci una Beth, scelgo quella intitolata all'altra gloria mineraria della valle, tuttora in attività, ovvero la Talco.
Per approfondire
- G. V. Avondo - D. Castellino - D. Rosselli, Pragelato. Il Beth e le sue miniere a un secolo dalla grande valanga, Pinerolo 2003
- A. E. Fossati, L'arte rupestre nelle Alpi Occidentali. Alcune osservazioni, Bulletin du Musée D’anthropologie Préhistorique de Monaco * Supplément N° 4 2013
- O. Mattirolo, I vegetali alimentari spontanei del Piemonte: Phytoalimurgia Pedemontana, Torino 1919
- L. Timbaldi, Uomini e montagne pinerolesi, Pinerolo 1957
- A. E. Fossati, L'arte rupestre nelle Alpi Occidentali. Alcune osservazioni, Bulletin du Musée D’anthropologie Préhistorique de Monaco * Supplément N° 4 2013