Madonna della Betulla 1168 m
Val Varaita
2 gennaio
In un baleno
Il santuario della Madonna della Betulla è una grande chiesa posta quasi sullo spartiacque tra la val Varaita e il vallone di Gilba, sull'adrech (versante solatio) a monte dell'abitato di Melle. I santuari mariani connessi ad alberi di importanza per la zona sono comuni. Penso sia una forma di cristianizzazione dei culti animisti della natura, come del resto nel caso dei ben più numerosi culti della Madonna apportatrice di acqua, come la diffusa Madonna della Neve
Diario di viaggio
Il santuario della Madonna della Betulla è una grande chiesa posta quasi sullo spartiacque tra la val Varaita e il vallone di Gilba, sull'adrech (versante solatio) a monte dell'abitato di Melle. Le sue origini sono incerte, in quanto non sono pervenuti documenti storici sulla sua costruzione e sul motivo della scelta di questo luogo; storie trasmesse per via orale fanno riferimento a un'apparizione. I santuari mariani connessi ad alberi di importanza per la zona sono comuni: ad esempio già qui vicino a Cuneo c'è una Madonna dell'Olmo (gli olmi erano molto diffusi nella pianura padana prima dell'avvento dell'agricoltura industriale e svolgevano varie funzioni nell'economia agricola) e santuari analoghi sono sparpagliati per tutta Italia. Penso sia una forma di cristianizzazione dei culti animisti della natura, come del resto nel caso dei ben più numerosi culti della Madonna apportatrice di acqua, quale la diffusa Madonna della Neve. La più antica data riportata nella costruzione è di fine Settecento, ma fino a qualche decennio fa sulla facciata sud era incastonato un pezzo di affresco ritenuto quattrocentesco, che raffigurava il volto di Cristo. Nel 1988 fu poi trafugato, come del resto molti altri arredi nel corso delle ripetute visite dei ladri, che alimentano il fiorente commercio dei reperti archeologici.
Oltre che dalla chiesa, l'escursione è caratterizzata dai numerosi piloni votivi presenti in zona, generalmente ben conservati. Furono affrescati prevalentemente tra Ottocento e primo Novecento, il periodo di massima densità antropica sulle Alpi italiane, da pittori itineranti, eredi un po' dimessi dei grandi pittori, che durante il Marchesato di Saluzzo produssero autentiche opere d'arte, come Canavesio o Clemer. Si dovevano accontentare di paghe misere o anche del solo vitto, come compenso. Mentre le chiese furono opera collettiva del clero e delle comunità, questi ultimi furono edificati per iniziativa delle singole famiglie, che commissionavano direttamente le opere ai pittori di montagna. Di solito non hanno perciò lasciato documenti scritti negli archivi ecclesiastici e non è quindi possibile risalire alle ragioni che ispirarono ciascuno di essi. Spesso queste erano un ringraziamento per un lieto evento o una scampata calamità, piuttosto che una richiesta di aiuto alle divinità in periodi difficili. Altre volte marcano un confine, un bivio o un luogo notevole. Tra le ragioni, non si può poi tralasciare il prestigio sociale legato al superfluo e agli status-symbol, ben documentato in tutte le società con un minimo di stratificazione sociale, fin dal Neolitico. I piloni si evolvono come forma cristianizzata da precedenti culti animisti, secondo il programma di inclusione delle pratiche pagane e dei loro luoghi sacri raccomandato dalla chiesa dei primi secoli, per facilitare l'avanzata del cristianesimo. I Celti, che colonizzarono queste montagne prima della dominazione romana, avevano l'usanza di erigere pile di pietre alle divinità, spesso in luoghi significativi, come punti panoramici, bivi o passaggi impegnativi, come forma di invocazione della loro protezione dalle forze della natura, in un legittimo e sempre attuale desiderio di controllo sull'imponderabile, in un ambiente ostile e imprevedibile. Le popolazioni contadine, infatti, temevano la natura selvaggia e le davano una connotazione complessivamente negativa: basti pensare al ruolo dei relativi dèi romani, come il dio silvano Pan, simbolo degli istinti incontrollabili. I cristiani ereditarono queste concezioni e le adattarono alle nuove credenze, passando ad attribuire queste forze all'influsso diabolico.
Se possibile, conviene evitare di percorrere questa escursione durante i giorni festivi della stagione delle gite fuoriporta o della caccia, a meno che non si sia cultori dell'antropologia dell'automobilista, in quanto parte del percorso è in coabitazione con il traffico motorizzato. In quei periodi le strade di accesso al santuario sono affollate da un nutrito viavai di mezzi, di gente che viene fin quassù per abbronzarsi accanto allo scappamento della sua auto o per sparare dal finestrino del fuoristrada, o anche fare una “passeggiata” su un sedile.
Lascio l'auto nel parcheggio dei camper a Melle, che oggi è deserto, data la giornata invernale. La zona è ancora in ombra, l'erba è brinata e le pozzanghere sono ghiacciate. Parto ben coperto con guanti e cappello e passo accanto a un pilone dove è raffigurata l'adorazione dei pastori, per poi attraversare il ponte degli Orti sul Varaita, verso una stalla. Prendo a destra per la strada, sul bordo della montagna, costeggiando dei prati già al sole, dove la brina riluce. Un gatto nero e un cane bianco stanno gironzolando; il gatto si allontana al mio arrivo, mentre il cane mi scruta un po' e poi pensa ai fatti suoi. Oltre i pioppi sul bordo del torrente intravedo Melle, uno dei tanti borghi fondati durante i grandi dissodamenti del Basso Medioevo, quando, debellata la minaccia saracena, nacque la colonizzazione stabile della montagna, così come si perpetuò fino all'abbandono novecentesco. Il primo documento con un riferimento certo al paese è della fine del XII secolo e ci parla di un manso (l'unità produttiva agricola di quel tempo), la cui attività principale doveva essere la caccia, in quanto il canone annuo al signore era corrisposto appunto in selvaggina. Non è dato sapere se fosse fortificato, come era comune in quel periodo e come la localizzazione su un dosso potrebbe far pensare: tali strutture erano presenti in valle, ma i documenti non ci hanno trasmesso la localizzazione precisa. In seguito il borgo si espanse, assumendo la tipica fisionomia del ricetto, nacquero attività artigiane come fucine e mulini, che sfruttavano i numerosi corsi d'acqua, e fu istituito un mercato. Furono inoltre bonificate e messe a coltura le terre circostanti, come la zona delle Quagne, dove ho parcheggiato l'auto, e del Furivaut, dove mi trovo adesso.
Quasi subito lascio la strada, che prosegue lungo il fondovalle, e imbocco invece il sentiero per Sant'Eusebio, che vi corre quasi parallelo, ma guadagnando gradatamente quota. Passo sopra un piccolo ponte ad arco in pietra, per costeggiare quindi lungamente un muro di sostegno. Fa parte di un sistema di terrazzamenti agricoli, oggi ripresi da un bosco di querce. Oltre un impluvio, raggiungo una dorsale, subito a valle del gruppo di case di Cianal, dove è stato eretto un pilone votivo. Fu affrescato da Agnesotti, l'ultimo dei pittori erranti, cinque anni prima della sua morte, nel 1955, e ha come raffigurazione centrale la sacra famiglia. San Giuseppe è molto vecchio e tiene in mano un bastone con un giglio in cima, un'iconografia derivata dal racconto del suo incontro con Maria, contenuto nel Protovangelo di Giacomo, uno dei vangeli dell'infanzia di Gesù, e rielaborato in epoca medievale. Sui lati interni della nicchia ci sono due cavalieri tebei a fare da scorta. In quello di sinistra mi colpisce l'ombra del cavallo con la zampa sollevata, che pare quella di un ippogrifo. Il culto dei legionari tebei, soldati romani di una legione egizia convertiti al cristianesimo e martirizzati dall'imperatore Massimiano per essersi rifiutati di sacrificare agli dèi, è molto diffuso nelle Alpi Occidentali. Dal loro comandante, Maurizio, ha preso il nome il paese dove avvenne il martirio, Agaunum, oggi Bourg St. Maurice, sul lato svizzero del Gran San Bernardo. Ad altri sono dedicati vari santuari, in luoghi dove sarebbero stati uccisi dopo essere scampati al primo massacro, secondo una miriade di racconti nati nei secoli successivi alla prima cronaca, un'agiografia scritta un secolo e mezzo dopo gli eventi. Nella zona del Monviso il più popolare è Chiaffredo, anche patrono di Saluzzo, che rientra tra questi ultimi; d'altronde il nome germanico suggerisce l'inconsistenza dell'identificazione.
Da qui godo di una bella vista su Melle, baciata dal primo sole, e sull'innevato monte Birrone, frequentata meta dell'escursionismo invernale con sci o racchette da neve, nelle valli occitane chiamate ciastre. Vedo anche la chiesa dedicata appunto a san Maurizio, sull'ubac, il versante ombroso, ma posta su un poggio più solatio lungo una dorsale diretta al Birrone. Sul lato della chiesa c'è una bella raffigurazione dei tebei a cavallo, con addosso indumenti seicenteschi. Raggiunto il sole, la temperatura è divenuta più gradevole, ma resto coperto, perché negli incavi ombrosi è ancora bassa. Noto che dai noccioli penzolano i loro caratteristici fiori gialli maschili, cosa che dovrebbe capitare verso la fine dell'inverno. Le temperature autunnali protrattesi per tutto dicembre li hanno probabilmente scombussolati. I vegetali hanno varie strategie per regolare il momento della fioritura, quali fondate sulla durata delle ore di luce o di buio, quali sulla temperatura. Le seconde si troveranno di fronte nuove sfide, per effetto dei cambiamenti climatici, che stanno alterando le temperature medie, ma anche i picchi e le escursioni termiche di ogni stagione.
Oltrepasso le case con giardino cintato di Cianal e entro nuovamente nel bosco, raggiungendo un rio, che durante le scorse piogge autunnali ha trascinato degli alberi, fino a ostruire la mulattiera. Aggirare l'ostacolo da monte non presenta difficoltà. Raggiungo una pista erbosa e la seguo in discesa, fino a riallacciarmi alla mulattiera nei pressi di alcune case diroccate e invase dalla vegetazione, costruite in pietra a secco ai piedi di alcuni roccioni aggettanti. Mi inoltro in un fresco bosco di abeti, costeggio un lungo muro a secco, crollato in un punto insieme a un albero rinsecchito, fino a raggiungere una casa isolata molto ben tenuta con tanto di forno esterno, posta su una dorsale dall'ampia vista sull'alta valle. Bordeggiando il prato della casa ai piedi del muro di contenimento, noto dei ciliegi tra le conifere, un'accoppiata davvero insolita e certo non spontanea. Oltrepasso un colata di terra in un impluvio, anch'essa regalo delle piogge autunnali (lo scorso giugno né questa terra né gli alberi precedenti ostruivano il sentiero). Seguendo le tacche e restando sulla pista più battuta raggiungo dal basso Sant'Eusebio, con il campanile della chiesa, dedicata al primo vescovo del Piemonte, in cima all'abitato a svettare sulle case.
Mi fermo a bere alla fontana-lavatoio, apprezzando la sua frescura dopo la risalita della temperatura in questa zona protetta, incurante della targhetta che la dichiara non potabile. Non chiedo che facciano come in Corsica, dove sul municipio era affisse le analisi periodiche dell'acqua delle fontane, ma mi sfugge perché non scrivano semplicemente che non è controllata. La frazione, oggi deserta, presenta alcune case nell'essenziale architettura tradizionale, in pietra con i ballatoi in legno. Mentre mi inoltro in un cortile per ammirarne qualcuna, noto un gatto tigrato grigio nei pressi di un sottotetto aperto, dove doveva esserci un fienile. Sembra nutrito e con un bel pelo, nonostante non ci siano persone in giro. La chiesa è documentata per la prima volta nel 1318, insieme alla parrocchiale di Melle. Sul lato meridionale è affrescato un molto sbiadito quanto gigantesco san Cristoforo. Era il patrono dei viandanti e la sua presenza qui indica che vi passava un'importante direttrice. Oggi, nell'era delle carrozzabili, siamo abituati a percorrere i fondovalle, più rettilinei e adatti alle esigenze delle automobili, mentre quando si andava a piedi si prediligevano percorsi più al sicuro dalle alluvioni e dove i guadi erano più semplici. Il santo è raffigurato con Gesù Bambino in spalla, come racconta la sua agiografia contenuta nella medievale Legenda aurea di Jacopo da Varazze, una storia ispirata unicamente al suo nome (i dati storici sul personaggio sono magrissimi), che ne ha contrassegnato l'iconografia occidentale e i numerosi patronati. Il suo culto, diffuso prima che qui tra le chiese cristiane orientali, dove è raffigurato come cinocefalo, è una mirabolante miscela di elementi pagani e cristiani di varia origine, che spaziano dall'Egitto alla Grecia classica.
Proseguo in salita lungo la carrozzabile asfaltata, invertendo la direzione di marcia, lungo il tratto più panoramico del giro. Infatti per qualche istante compare il Monviso ed è ben visibile la valle di Bellino, con il Pelvo d'Elva e il Mongioia a fare da armigeri. Il nome di quest'ultimo è legato ai piloni votivi: i romani chiamavano infatti mons Iovis le pile di pietre dei Celti. La sacralità del luogo è rimasta con il passaggio alla religione cristiana: infatti ogni anno si celebrava in cima una messa, in occasione della prima domenica di agosto. Negli ultimi anni, la funzione è stata spostata al ben più accessibile pian di Rui, segnando uno slittamento verso l'attuale religione del consumismo, che celebra i suoi riti a portata di automobile. Passo per la borgata Perotti, dove ci sono delle casette ben ristrutturate e della gente che lavora in un cortile, oltre a un pilone votivo lungo la strada. La borgata è circondata da piccoli appezzamenti prativi con qualche castagno da frutto. La vegetazione arborea sta infatti cambiando: alle querce si affiancano, oltre ai castagni, le betulle, che amano i versanti aprichi della media montagna. Sono anche accompagnato dal canto di numerosi passeriformi.
Raggiungo il termine dell'asfalto, dove sono parcheggiate due auto in uno spiazzo, e con un paio di tornanti raggiungo un prato su una sella, detto Prato della Betulla, dove sono sparpagliati qualche frassino e betulla. Su uno spuntone poco a monte del prato compare la bianca chiesetta di san Michele, che raggiungo con una breve deviazione (il cartello che la indica a mezz'ora è chiaramente sballato). Attraversato il prato, una traccia risale a serpentina un boschetto e conduce alla cappella, che è molto panoramica sia verso monte (Bellino e Gilba), che valle. Infatti era visibile dalla strada di fondovalle, nel lungo rettilineo tra Venasca e Brossasco, poco a monte della condotta forzata, di cui da qui si vede il bacino di alimentazione. Per aiutare l'identificazione dei luoghi circostanti, sono stati installati dei tubi che puntano ai vari elementi, con incollati i rispettivi nomi su un tipo di targhetta plastificata con caratteri in rilievo che si usava quand'ero bambino. Alla Madonna della Betulla troverò un'installazione analoga. Vicino alla chiesa c'è un'indicazione per una località ai margini di Brossasco, su un sentiero all'imbocco poco marcato. Sulla nascita della chiesa circola la leggenda, comune a molti altri edifici sacri, dell'iniziale volontà di costruirla in altro luogo (al piano sottostante), contrastata dall'intervento ostinato e contrario del santo, che di notte spostava i materiali accatastati nella zona da lui prescelta, vanificando il lavoro di trasporto dei fedeli. Ritorna qui il motivo della sacralità di certi luoghi come dato esterno che travalica le religioni, e non come risultato ex post di una scelta arbitraria dei montanari.
Torno al prato e mi riaggancio alla strada attraversandolo, tanto non siamo in stagione di pascolo. A un bivio scelgo la mulattiera, che taglia un paio di tornanti (la differenza con la strada è minima) e più in alto è lastricata e bordata da un muro e secco e lastre di pietra infisse verticalmente, qui dette teluire. Mi riallaccio alla strada ai piedi di meira Pantoisa, un gruppo di case che merita una visita, per la ragguardevole architettura quasi da fortilizio. Con il termine meira, che deriva da latino migrare, nella zona italiofona del Monviso erano indicate le abitazioni estive, dove erano praticati l'agricoltura e l'allevamento stagionali (nelle zone francofone della Castellata sono invece chiamate grange). Come in questo caso, spesso queste non erano solo rustici ripari di fortuna, ma abitazioni del tutto analoghe a quelle di fondovalle, data l'importanza dei lavori agricoli estivi. All'ingresso è ancora ben riconoscibile la stalla, mentre al capo opposto il forno. Oggi la zona è quasi interamente circondata dai boschi, ma prima dell'abbandono dobbiamo immaginarla completamente spoglia, con i terreni tenuti a prato oppure coltivati, principalmente a segale e patate, le coltivazioni più adatte al freddo clima montano. Va detto che i montanari di bassa valle erano più sfavoriti rispetto ai colleghi dell'alta montagna, in quanto erano privi dei grandi pascoli per l'allevamento, che erano la ricchezza maggiore, mentre l'agricoltura è sempre stata magra. Infatti è scomparsa quasi del tutto molto in fretta, tranne che per qualche prodotto di nicchia, a differenza dell'allevamento, che invece sopravvive tutt'oggi, seppure su scala più ridotta e con forme diverse da una volta.
La salita prosegue gradualmente, anche attraverso dei boschi di conifere, piantati dai proprietari dopo l'abbandono, su suggerimento della Forestale. Con il santuario già in vista trovo una strada che scende, non riportata sulla carta Fraternali, ma presente sulla carta tecnica regionale. Passa dalle abbandonate meire Trombiotto, tende a perdersi per poi confluire in una pista più evidente e sbuca infine sulla strada diretta a san Bernardo delle Sottole, poco a valle della cappella di sant'Anna. Potrebbe essere una via più rapida per scendere, senonché, poco prima di finire sull'asfalto, transita per un terreno i cui proprietari hanno messo un divieto per i pedoni, sostenendo che sulle piste agricole non possono transitare «i turisti», nonostante all'imbocco della pista ci siano delle vecchie segnalazioni e un articolo degli anni Ottanta indicasse questa come via per il santuario. Bisogna perciò litigare con loro e affrontare i loro cani.
Subito oltre il bivio c'è un pilone votivo del 1914, affrescato da Agnesotti. Vi è raffigurato sant'Antonio Abate, anacoreta egizio del IV secolo protettore del bestiame, nella cui festività era benedetto ed era perciò un santo molto importante in tutte le culture contadine e pastorali. Il maialino che lo affianca qui come altrove non è mai citato nella sua agiografia, scritta da un discepolo, ma è una commistione con il dio celtico Lug, dotato dell'attributo del cinghiale; si generò per vie complesse quando le reliquie del santo arrivarono in Francia, durante il Basso Medioevo, e nacque un ordine di monaci a lui intitolato. Lug era anche signore dell'oltretomba e questo gli fece attribuire il potere sul fuoco infernale, reale e metaforico, come nel caso della capacità di guarire i bruciori dell'herpes zoster, che prese da ciò il nome di fuoco di Sant'Antonio.
Al santuario ci sono due gruppetti di persone, probabilmente coloro che hanno parcheggiato le automobili alla fine dell'asfalto. Mi siedo sul muretto a valle e pranzo. Dopo che gli altri escursionisti se ne sono andati, scatto qualche foto alla chiesa e all'edificio di servizio, detto “casa degli osti”. Gli edifici sono abbastanza grandi, considerato che sono lontani dai centri principali; tradizione vuole che il materiale da costruzione sia stato portato qui con catene umane, passandolo di mano in mano (questo mi fa anche riflettere su quanta gente abitasse una volta questi luoghi oggi spopolati). Come detto, non ci sono documenti storici sulla sua origine, ma solo una storia tramandata per via orale, invero abbastanza desolante, perché non offre speranza di riscatto a uno sfortunatissimo orfano, ma solo la raccomandazione di drogarsi con la religione (per dirla con Nuto Revelli), al fine di dimenticare le sue pene. Curiosamente la chiesa non è citata dal Casalis, che pure alla voce di Frassino nomina la ben più modesta (almeno oggi) san Bernardo delle Sottole, dove transiterò tra poco.
Proseguo verso ovest lungo un viale di betulle, delle quali la prima è stata sradicata ed è franata a terra. Quasi subito lascio la pista e imbocco il sentiero che corre poco a valle tagliando il ripido pendio, sostenuto da un muro a secco. Passo accanto a una casa con un'aia, di cui non resta che lo scheletro, e arrivo quindi al pilone della Meira del Nivo, su cui è raffigurata un'insolita santa Vittoria, il cui culto è diffuso soprattutto nell'Italia Centrale e in Sardegna, mentre da queste parti non è particolarmente popolare. Il pilone è significativamente edificato non accanto alle case, ma alla preziosa sorgente, raccolta in una vasca costruita con le già citate teluire. Poco oltre ci sono gli edifici. Purtroppo non riesco a scattare foto, a causa della luce frontale spezzettata dalla fitta vegetazione, nonostante ci siano delle costruzioni di pregio, per quanto molto malridotte. Tra queste ce n'è una restaurata in anni recenti con cemento, ma già diroccata, al cui piano terra si erano ricavati una cantinetta con inserti rossi. Anche più in basso c'è una casa restaurata in anni recenti e abbandonata. Intorno agli edifici ci sono alcuni grandi frassini, i pascoli aerei che fornivano il proprio fogliame al bestiame negli anni magri d'erba. Poco oltre il sentiero confluisce nella strada. Attraverso un bosco di frassini e betulle, con sottobosco di rovi, fino a giungere al crocevia di piste dove sorge la cappella di san Bernardo delle Sottole.
La chiesa davvero minima è dedicata appropriatamente (vista la collocazione su colle) al celebre vescovo di Aosta, fondatore degli ospizi per viandanti sui passi a lui oggi intitolati, un santo dei viandanti alpini per eccellenza, tanto da essere stato proclamato patrono di montanari e alpinisti nel 1923. Ce ne sono altre gemelle sui valichi tra il vallone di Gilba e la valle Po. Serviva come riparo anche per il bestiame, grazie al porticato. L'interno è molto semplice, con un altare sormontato da un'immagine sacra a e un paio di panche lignee sui lati. Un cartello scritto a mano dagli Alpini invita alla cura del luogo.
Potrei scendere direttamente a Melle imboccando la strada per sant'Anna o il sentiero che ne taglia i tornanti, ma scelgo invece di proseguire lungo la pista per Frassino. Il nome fa riferimento alla già evocata pianta così importante nell'economia pastorale, ma un'ipotesi più speculativa mette il nome in relazione con Fraxinetum, la base dei Saraceni, perché anche questa ne sarebbe stato un insediamento, come luoghi dai nomi analoghi in altre valli limitrofe. Il pendio a monte della strada è sostenuto da un muro a secco e presenta delle lunette, che magari servivano a sostenere degli alberi produttivi, come i castagni. Raggiungo i resti di un gruppo di meire dove c'è un pilone votivo firmato da Giuseppe Gauteri, analogamente al pilone delle meire del Nivo. È colui che ne vanta il maggior numero in valle. Qui la scena principale non è una variante della sacra famiglia, come in quelli visti finora, ma una crocifissione, con la Madonna trafitta nel cuore da una lunghissima spada. In assenza di documenti, si possono sono fare illazioni sulla scelta di una scena così dolorosa per un punto di riferimento della borgata. Nei pressi si stacca a valle della strada una mulattiera, non segnalata né indicata, che conduce direttamente alla cappella di san Claudio, senza passare dalla strada asfaltata. Questa cappella porticata è molto ben tenuta, con affreschi rifatti di recente, dove è raffigurato il santo vestito da vescovo; il suo portico è chiuso da una cancellata per tenere fuori il bestiame. Nel fazzoletto erboso antistante c'è anche un'intelaiatura metallica, per sostenere un tendone oggi smontato. A valle del tornante della strada si stacca, non molto visibile, la mulattiera per Campo Soprano. Quest'ultima breve porzione non dev'essere particolarmente frequentata, visto lo stato di pulizia e di conservazione.
La borgata presenta molte case ristrutturate, secondo vari criteri, da quelle intonacate di qualche decennio fa a quelle odierne che hanno preservato l'aspetto esterno in pietre. Mi colpisce in particolare un grande fienile, assai elevato in altezza, abbastanza deteriorato. Anche questo è aperto, come quello visto a Sant'Eusebio. Credo che questa caratteristica costruttiva fosse richiesta anche dalla necessità di arieggiare per disperdere il calore dovuto alla fermentazione ed evitare autocombustione. Da notare che qui l'elevazione non è ottenuta con colonne cilindriche o a tronco di cono intonacate di bianco, ma con muri a secco, diversamente che nell'alta valle. Nel piccolo parcheggio del paese c'è qualche auto. Sugli abitanti di queste borgate verso il colle per Gilba, il Casalis scrive che «si noverano parecchi imbecilli», mentre del resto dei frassinetani che «non pochi di loro sono dediti soverchiamente al litigio» (il Dizionario è cosparso di queste perle, che sembrano ricavate dalle maldicenze dei paesi limitrofi). Proseguo brevemente lungo la strada e imbocco quindi il sentiero per Sagna, attraverso un bosco con qualche grande frassino e altri alberi più piccoli. Poco più avanti raggiunge nuovamente la strada, dove un pilone è stato restaurato di recente e dedicato a Padre Pio, che occupa da solo la nicchia centrale, una volta riservata a Gesù e Madonna.
Giungo a monte di Sagna, un paio di case su un poggio erboso, dove un cartello mi indirizza dentro il bel prato, con l'erba quasi a raso, senza alcun segno di vegetazione di ricolonizzazione. Verso monte si staglia netto il monte Ricordone, già intravisto precedentemente, sulla cui cima è visibile una formazione regolare di conifere: dovrebbe essere il Piantamento, un bosco creato dopo la disastrosa valanga del 1885, che causò 70 morti tra gli abitanti delle frazioni sottostanti, oltre a decimare il bestiame ricoverato nelle stalle. Il sole calante ha quasi raggiunto il Birrone, il cui pendio si mostra come una bruma blu scuro, mentre il prato è illuminato da una luce frontale quasi a raso, che fa brillare d'oro l'erba, tra i tronchi neri per il controluce. Scendo alle case, che sembrano abbandonate, a differenza del prato. Non ci sono tacche né cartelli, ma a valle parte evidente un sentiero diretto a est, verso Preit. Lo seguo attraversando radure con castagni. Il sentiero non sembra frequentato, ma è certamente pulito. Raggiungo un impluvio di un rio senza nome, oggi asciutto, che ha trascinato a valle un'enorme colata di alberi. Anche qui devono aver sfrondato, perché riesco a trovare un passaggio nell'intrico senza bisogno di esercizi yoga, ma solo memorizzando un paio di punti di riferimento per imboccare il varco più agevole. Risalgo e sono a Preit, un paio di belle casette molto decorate, senza persone ma con un gatto.
Il sole sta per tramontare dietro il Birrone: è il momento di fare merenda. Mi siedo su un sasso e estraggo la fetta di panettone che ho in serbo. Quando riparto il sole è già calato. Seguo l'indicazione per Giusiani e Melle. Il sentiero risale e mi porta a un bivio. In assenza di indicazioni o tacche, dalla cartina deduco che devo prendere la pista che rimane in quota, mentre la mulattiera che sale ritorna a Campo Soprano. Attraverso un vecchio castagneto da frutto, passando accanto a una casupola, ed entro quindi in una zona spianata popolata di alberelli grandi tutti uguali, dove addossate alla montagna ci sono costruzioni moderne in pietre e cemento, sommerse dalla vegetazione, che anticipano il tunnel di una miniera. Purtroppo non sono riuscito a scoprire cosa venisse estratto, né quando fu abbandonata. Raggiungo un impluvio risparmiato dalle catastrofi dello scorso autunno e, salendo per un sentiero dal fondo molto dissestato, raggiungo Giusiani. Alle prime case metto in fuga un gatto a chiazze bianche e nere. All'approssimarsi del paese sono nuovamente comparse tacche biancorosse. Attraverso le case, tra cui ce n'è una decorata con motivi floreali. Intanto ho raggiunto nuovamente il sole, assistendo così al detramonto del Birrone, che sarà seguito a breve da un bistramonto. Vado alla strada di accesso alla borgata, dove ci sono delle segnalazioni per Preit e Sagna; questo percorso è indicato come via maestra, forse perché era la via principale della valle prima della carrozzabile, che come a sant'Eusebio passava a mezzacosta.
Dalla cartina capisco però che devo scendere, se voglio raggiungere Berti. Seguendo delle tacche biancorosse, dalla chiesetta esco dalla frazione diretto a valle. Le tacche scompaiono subito. Mi rendo conto di non dovermi infilare in una forra, che è uno scarico delle acque, ma il sentiero che seguo fino alla borgata successiva, ai cui margini ritrovo una tacca su un tronco, non è tanto meglio, anche se in origine doveva essere lastricato. Sulla strada di accesso è parcheggiato un fuoristrada e odo delle voci provenire da un soppalco in legno, da cui poi si affaccia un uomo baffuto che mi saluta. Il forno della borgata sta scoppiettando. Da qui a sant'Anna il CAI ha segnato la sterrata e non la vecchia mulattiera, che corre un poco più a valle, come testimonia anche un pilone votivo (un altro era presso le case). Resto sulla strada e per un rado bosco raggiungo una prima borgata di poche case, quindi una successiva dove ci sono una balla di fieno messa a seccare sotto un telone, un mulo che pascola in un prato, delle macchine agricole e dei giochi per bambini. Poco più avanti raggiungo la cappella di sant'Anna, vivacemente dipinta di arancio e dotata di porticato, mentre l'interno è più semplice, con un altare decorato e pareti bianche, per quel poco che riesco a intravedere dalle finestre. Alla cappella arriva anche la sterrata da san Bernardo delle Sottole.
Seguo l'asfalto in discesa, ammirando le velature dorate a ovest e sul Birrone, incontro due cani bianchi a spasso, il più grande dei quali ringhia anche verso mi me, senza mai avvicinarsi troppo tuttavia, e raggiungo borgata Chiot, dove degli operai stanno sfoltendo la vegetazione invasiva di un giardino, evidentemente in stato di abbandono. Una tacca mi indirizza tra le case e quindi, nel prato a valle trovo il sentiero che scende ripidamente tagliando un tornante. Attraverso due volte la strada e costeggio il muro di una casa, dove c'è un po' di invasione di rovi. Seguo una pista per lasciarla dove delle tacche mi indirizzano su un bel sentiero, rovinato solo per i primi passi, che scende gradualmente e lungamente tagliando il pendio. Diversi tronchi sono caduti sul sentiero e sono stati segati, nel corso degli anni. Un ultimo tratto di discesa più ripida mi conduce alle spalle della cascina oltre il ponte degli Orti, dove stanno spalando il letame dalla stalla con un mezzo meccanico, dirigendolo in una canaletta e accumulandolo in un grande mucchio all'esterno. Nella luce blu del crepuscolo inoltrato ripasso il ponte e sono al piazzale dei camper, dove le pozzanghere sono rimaste gelate.
Per approfondire
- G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
- A. Cattabiani, Santi d'Italia, Milano 2018
- L. Dematteis, Case contadine nelle Valli Occitane in Italia, Ivrea 1983
- P. Jorio-A. Robetto, I luoghi delle certezze, Lanzo 2003
- G. Chiesa - E. Giusiano - G. Mellano, I piloni di Melle, Saluzzo 2011
- G. Paseri, L'alto Medioevo in Val Varaita : un periodo storico poco studiato e poco conosciuto : i primi documenti riguardanti la Valle Varaita origine del borgo di Melle (secoli 11.-12.) terza parte, Valados Usitanos, 72 (2002)
- G. Paseri, L' Alto Medioevo in Val Varaita : un periodo storico poco studiato e poco conosciuto (quinta parte) : sviluppo della villa di Melle e dissodamenti del fondovalle (sec. 12.-13.), Valados Usitanos, 76 (2003)
- R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
- A. Cattabiani, Santi d'Italia, Milano 2018