Blins

Val Varaita

9 settembre


In un baleno

Un lungo anello per visitare le architetture tradizionali di Bellino e i loro dintorni

Celle
Celle

Diario di viaggio

Ho ideato un anello centrato sulle borgate di Bellino per ammirarle a piedi, per quanto ne sono capace nonostante il mio disinteresse per le abitazioni, compresa la mia, e i loro dettagli decorativi. Non l’avevo mai fatto con l’eccezione di Chiesa, dove una volta dormii. La ragione del proposito è che conservano un’architettura tradizionale in pietra e legno: il turismo sciistico si è arrestato nel solco principale della val Varaita, senza risalire questo ramo oggi secondario, forse perché il lato più innevato è troppo scosceso per gli impianti, né è ambita al traffico motorizzato come il ramo del colle dell’Agnello, in quanto qui le strade non si sono sovrapposte agli antichi percorsi pedonali transalpini. Siamo la società del senza (senza glutine, senza conservanti, senza olio di palma, senza OGM, senza prodotti chimici) e da membro non posso fare a meno di applicare questa filosofia alla scelta dei luoghi da visitare.
L’ho ideato sulla carta e sul terreno l’ho modificato in corso d’opera con improvvisazioni che non posso certo definire jazzistiche, se non ex-post, in quanto prive di ogni tipo di struttura matematica definita, che non fosse un battito d’ala dei pensieri contingenti, in grado di generare imprevedibili quanto incolpevoli conseguenze.
Alla fine di una giornata di cammino la traccia avrà la forma fuori luogo di una specie di Trinacria con tre nastri sfiocchettanti, ma non posso mostrarla per l’inattesa dipartita del cellulare su cui era conservata e pertanto ora scorre nel Lete elettromagnetico, con tutti i dati atletici.

Arrivo a Chiesa di Bellino verso le 8 assieme al sole del mattino, dopo aver attraversato la prima nebbia dell’autunno meteorologico, dai dintorni di Torino fino a Moretta, e dopo aver visto due motociclisti coricati a terra in mezzo alla carreggiata nel centro di Verzuolo, in seguito a uno scontro con un’auto in fase di svolta. Erano coperti da teli, ancora in attesa dell’ambulanza, ma non dovrebbero essersi procurati nulla di grave, perché non trovo ragguagli dell’incidente, né sui quotidiani, né sul gruppo Sei di Vattelapesca se….
Chiesa è la più antica sede parrocchiale della comunità berlingoina, citata già nei primi documenti medievali che nominano questi insediamenti, nel XIII secolo, quando nacque la civiltà agricola alpina stanziale, che rimase la predominante fonte di reddito fino alla metà del Novecento. Non si erano certo insediati in una terra vergine: in valle esistono per esempio ancora retaggi del periodo celtico, nel culto della montagna più alta conservato anche nel cattolicesimo, il Mongioia (il nome deriva dal termine latino per designare le pile di pietre in onore di Belenus), oppure nelle decorazioni con teste mozzate sugli stipiti delle porte. Lo stesso nome Blins, che si ritrova in forme simili altrove tra le Alpi francesi, è stato considerato una derivazione di Belenus. L’aspetto architettonico che più mi colpisce qui a Chiesa sono le grandi rampe di accesso ai fienili: Bellino è molto pubblicizzata per le meridiane, ma a me paiono una pura decorazione di un resto molto più intrigante, sebbene dal punto di vista simbolico siano una commovente forma di resistenza culturale all’impoverimento dello spopolamento. Infatti la comunità non è stata in grado di inventare consistenti alternative economiche alla defunta economia agraria di sussistenza accoppiata all’emigrazione stagionale oltralpe, prevalentemente come stagnini, per cui l’emorragia di abitanti continua ancora in questi anni.
Parcheggio nel piazzale di fronte al posto tappa GTA, un edificio di rusticità moderna ma ormai vintage, che pare deserto; subito un cane riccio a zonzo da solo mi include nella comunità pisciando su una ruota. Riempio d’acqua la borraccia a una fonte molto abbondante e mi avvio nell’ubac verso il colle Bicocca, seguendo i segnavia della tappa GTA diretta ad Elva. Ai margini delle case vi sono gli orti, che alla zona donano il nome dichaoulieres, ovvero dei cavoli, toponimo di una certa frequenza nelle passate zone coltivate: un vecchio di Bertines di Casteldelfino mi disse una volta che, ancora ai tempi della sua fanciullezza, si coltivava un’esigua varietà di ortaggi (essenzialmente cavoli, cipolle e porri a Bellino), mentre oggi lui riesce a produrne una maggiore. Tra le fonti di carboidrati prevaleva la segale, il cereale più adatto ai climi freddi, oltre naturalmente alla patata, introdotta nell’Ottocento, che permise la sostenibilità di una popolazione più consistente a parità di terreno coltivato.
Una zona prativa adiacente porta invece il nome di Eissart, anche questo toponimo relativamente diffuso che significa schiarire ed è la variante delfinale dell’italiano ronco, ovvero indica i terreni messi a coltura dopo averli disboscati e spietrati; in particolare, nel latino medievale del Delfinato erano detti nemora nigra (boschi neri) i boschi selvaggi e nemora alba (boschi bianchi) quelli coltivati. Sottopasso un vecchio skilift, residuo di quando agli sciatori bastava un singolo impianto di risalita, ovvero al più tardi fino agli Anni ‘80, e ogni buco sperduto aveva il proprio, gestito con mezzi artigianali, tipo puzzolenti motori diesel recuperati da camion dismessi.
Attraverso i prati, dove c’è un recinto di capre con cane da guardiania, per entrare in un rado bosco di larici e aceri, su una mulattiera militare, che ha rimpiazzato gli scomparsi sentieri paralleli destinati alle vacche e alle pecore, il primo più regolare e strutturato, il secondo, appunto da capre. Gli aceri quindi scompaiono e attraverso lariceti in parte pascolati. Dei giovani cembri approfittano dell’ombra dei grandi alberi (nella fase giovanile sono sciafili) per rigenerarsi a un ritmo superiore e paiono pertanto destinati a sostituirli sul lungo termine, se il processo di naturalizzazione non subirà interruzioni. D’altronde sull’adrech di Casteldelfino un bosco quasi puro di cembri è sopravvissuto alla pressione antropica dell’era agricola, grazie al fatto che si trova su un terreno morenico inadatto al pascolo e il paese di Elva prende il nome dal termine dialettale per cembro, ovvero elvou, per cui devono essere la specie climax di questo ecosistema. I loro tronchi emanano un forte profumo di resina. A terra numerosi sono i laricini.
Raggiungo un piccolo alpeggio dismesso, invaso da abbondante vegetazione nitrofila; come i successivi è ricavato in una zona più solatia di una dorsale, dove questa si protende lontano dal pendio ombroso. Per via della dominazione delfinale durata fino al trattato di Utrecht nel 1713 (qualche decennio più tardi il vescovo competente definiva semigallici gli abitanti di Chianale e ancora un secolo e mezzo dopo Matthews annotava che a Casteldelfino si parlava francese), porta la qualifica di grangia, grongio in dialetto. In tutta l’alta val Varaita indica gli insediamenti delle mezze stagioni, mentre arberch erano detti quelli estivi. Qui scatto la prima foto odierna al Monviso, imbiancato solo in cima nonostante il fresco e le precipitazioni abbondanti dei giorni scorsi. Comincio intanto a essere investito da qualche fresca folata del forte vento previsto in quota. L’aria è peraltro già frizzante, per cui devo indossare due strati e i guanti.
Prima delle grange Sarsenà trovo un’indicazione per Celle, una delle ultime frazioni di fondovalle, ma la tralascio, essendo intenzionato a scendere per il sentiero superiore del Bric Rotund. Prima di raggiungere il colle, il panorama si apre sull’intero versante meridionale del Viso, con il verde cupo del bosco dell’Alevè sovrastato dalle rocce fratturate rossastre di cima delle Lobbie, il paese di Casteldelfino ai piedi e il profondo incavo del vallone di Vallanta a delimitare il massiccio ad occidente. Oltre il colle vedrò pure la dorsale erbosa nel territorio di Sampeyre, delimitata dal Ricordone, e anche un angolino di pianura ancora coperto dalla nebbia azzurrina. Un bosco a prevalenza di cembri è saltuariamente interrotto da radure pianeggianti.
Al colle termina la strada carrozzabile militare che percorre la dorsale Maira-Varaita. Nello spiazzo al fondo sono parcheggiate delle auto di escursionisti diretti con buona probabilità al Pelvo d’Elva, la cui parete orientale troneggia dorata sopra i pascoli verdi minuziosamente spietrati dell’ampia conca di Elva, punteggiati dal bianco dei vitelli piemontesi. A sud spunta invece la cupola ellittica del Chersogno.
Un cartello riporta un articolo di Valados Usitanos, un vecchio periodico culturale torinese dedicato appunto alle valli occitane italiane della zona, secondo cui la via per Celle tralasciata poco fa è uno storico percorso per Elva, detto Vio dei Cartier n’aout, ovvero via delle frazioni afferenti la parrocchia superiore, edificata nel 1770 in aggiunta a quella di Chiesa, tra fitti boschi che fungevano da riserva di legname per la comunità berlingoina. Il legno era il materiale universale della civiltà preindustriale: gli archeologi sono soliti suddividere i periodi preistorici in base alla pietra e ai metalli, ma solo perché questi manufatti resistono alla consunzione: ad esempio Ötzi aveva con sé una singola ascia di rame, ma una molteplicità di manufatti lignei, ciascuno di una specie ben definita, in base alle caratteristiche che la rendevano adatta a certi oggetti piuttosto che ad altri. Negli alpeggi di questa valle, fin dalla più tenera infanzia i bambini imparavano a utilizzare specifici legni per costruire i giochi, come il sambuco per fare uno schioppo dettotapour o il salice per fare un fischietto. Mi dispiaccio di aver trascurato quel sentiero e sono tentato di tornare sui miei passi, ma per inerzia psichica procedo per la dorsale solatia e ventosa.

Seguo una pista terrosa sul versante meridionale, aggirando un dosso. Frattanto sto rimuginando sulla decisione presa, fino a quando vedo che dovrei seguire un sentierino per la massima pendenza sulla dorsale. Decido allora di fare dietrofront. Incrocio un pastore, che in compagnia del figlio sale verso i vitelli con i paletti per il filo del bestiame in spalla. Mi saluta con un buondì dalle insolite vocali.
Tornando alle grange Sarsenà incrocio prima un tedesco, quindi un'italiana con zaini da GTA. Il primo non mi stupisce, mentre ricordo che quando ne percorsi un paio di tratti con gli amici i gestori ci guardavano come bonzi alla Mecca. Sono tentato di fermarla e chiederle conto, ma un po' per la timidezza, un po' per il timore di essere frainteso come sessista o molestatore ponendo la domanda a una donna sola, mi limito a un saluto.
Il sentiero per Celle non è particolarmente tracciato e i segnavia, dapprima presenti, si rarefanno abbastanza in fretta, per cui finisco ben presto con l’imboccare una traccia di bestiame a fondo cieco e devo recuperare quella corretta, una ventina di metri più a monte, con l'aiuto del GPS.
Tra belle viste sul Monviso e sull’adrech erboso, mentre io sono in un bosco fitto, oltrepasso il rio del Cuculet, dove il terreno si impaluda brevemente. A un incavato rio successivo, non riesco a vedere tracce oltre il guado; nuovamente appoggiandomi al GPS, capisco che la gravera laterale è in realtà il sentiero: risalendola arrivo a un fondo cieco dove finalmente vedo un incavo infrascato oltre l'acqua (da qui in poi il terreno si fa irto di sottobosco).
Mi infilo in un coumbal più profondo, ma pressoché asciutto, dopo il quale il sentiero torna più sgombro, sul versante successivo. Oltre la china scende incavato ed evidente (compare persino una tacca), per poi tornare invaso da succulenti lamponi, a cui si alternano i più fastidiosi e invasivi ontani, nelle zone più umide. Qualcuno comunque lo pesta, temo bestioline zecchemunite (a casa ne troverò tuttavia solo una sul collo), ma anche bipedi, come scoprirò in paese. Qualche suggerimento mi viene dal fatto che, dove qualche larice più grosso è caduto in mezzo al sentiero, sono stati ricavati dei passaggi non disagevoli per gli umani, anche se non in tutti i casi.
Raggiungo una dorsale, dove fu ricavato un praticello che tuttora resiste, chiamato Quiapouret, un nome curioso generato dall’unione tra una variante di Chiot e un termine di cui si è perso il significato. Al solito in questi casi, la traccia si perde e la ritrovo solo nel bosco successivo, ripescando il GPS, peraltro non molto preciso, per non dover vagabondare in su e giù senza sapere da che parte andare. In gruppo sarebbe più semplice, perché basterebbe allargarsi a ventaglio finché qualcuno non la individua, visto che la direzione è certa e bisogna solo capire la quota.
Da questa zona il legname necessario alla comunità era trasportato a valle tramite un solco artificiale detto teliero, lungo cui lo scivolamento era agevolato, anche perché l’operazione avveniva d’inverno, a fondo ghiacciato; decisamente più laborioso era trasportare i tronchi scortecciati fino ad esso, tramite funi fissate a cunei di ferro piantati in essi. Tuttavia gli esemplari da movimentare non erano certo colossi: infatti, sebbene già gli statuti degli Escarton nel XIV secolo avessero fissato dei limiti al prelievo di legname e al pascolo, specie ovino, che ne impediva la rigenerazione, lasciando anche alcuni toponimi come le Bandies sottostanti questo pianoro, la doppia necessità di legname e pascolo metteva a repentaglio le naturali capacità di rigenerazione. A ciò vanno aggiunti i tagli indiscriminati di metà Settecento, per costruire le fortificazioni in vista di uno scontro armato, che culminò con la battaglia da duemila morti sul colle a cui arriverò al pomeriggio.
Pertanto i testimoni ottocenteschi constatarono la generale penuria di legno in queste comunità, così marcata da metterne a repentaglio l’esistenza, e le difficoltà di rigenerazione dei boschi, che secondo le nozioni forestali illuministe attribuirono al prelievo per uso domestico e al pascolo soprattutto caprino. Anche un montanaro emigrato dalla bassa val Varaita mi raccontò che in gioventù c’era penuria di legna per riscaldare le case. Di conseguenza, tali tronchi erano troppo piccoli per servire da materiale da costruzione (si pensi alla trave del colmo del tetto, per fare un esempio). Per questo impiego le famiglie coltivavano con cura grandi esemplari negli appezzamenti privati attorno ai centri abitati, che ancora oggi sono i larici più grandi che si possono vedere durante l’escursione. Quassù invece, dopo parecchi decenni senza tagli, gli alberi hanno al più una stazza media, ma sono ancora molto diradati e consentono l’esistenza di un folto sottobosco di cespugli, come i rododendri.
Sul versante dirimpetto, coltivato a cereali, invece in verso opposto avrei visto salire le slitte cariche del letame prodotto durante la stabulazione invernale, da accumulare nelle grange per poi spargerlo in primavera sui campi. Insieme a un maggese triennale, era l’unico metodo per fertilizzare i campi. Un affollamento e un rumore di colpi, voci, richiami, canti che da questa camminata solitaria è davvero difficile immaginare: la montagna allora spesso non era il luogo del silenzio e della contemplazione che è oggi per me, ma un affaccendarsi più simile a quello che vedo quando attraverso la città nel pendolarismo, quasi indifferente alla folla di pedoni e auto che fendo pedalando forsennato. Tali terreni erano sfruttati quanto più possibile, per nutrire una popolazione che si riprese in fretta dalle epidemie di peste e già nel Settecento divenne eccedente le capacità produttive: l’andamento dei prezzi mostra che i terreni costavano cari, mentre la manodopera era economica. Questo senza contare le annate di carestia, quando nel mercato di Venasca non si trovava proprio nulla da acquistare: credo che sia per questi episodi che i contadini disprezzavano il denaro e fossero interessati unicamente ai beni tangibili, praticando l’autosufficienza o al più un’economia quasi di baratto.
Scendo a un torrente, il rio Elva, senza difficoltà di guado, perché l'acqua alta un palmo scorre su un letto di piccoli sassi. Esco dall'incavo come posso, senza traccia univoca, per poi trovarmi nuovamente in una zona selvaggia. Per raggiungere un successivo rio, il rio Bianco (è rimasta una targhetta fissata a una roccia), devo scavalcare un grosso cembro, dopodiché l'uscita dall'impluvio è più agevole. Alla dorsale poco oltre un paio di ometti segnano il sentiero e quindi un cartello in ottimo stato manda a un punto panoramico sopra un masso. Un secondo con buon grado di surrealtà, visto lo stato del sentiero, avvisa di prestare attenzione ai bambini per il precipizio sottostante, a cui dei fili di ferro efficaci come le corsie preferenziali senza telecamera dovrebbero fare da parapetto. Per indicare i nomi degli elementi del panorama, ci sono invece i tubi con la targhetta dell'obiettivo inquadrato, quasi un elemento folcloristico della val Varaita. Da qui è evidente la struttura geologica dell’adrech, formato di calcescisti, ovvero rocce chimicamente calcaree friabili con piani di frattura orientati, che generano ampi prati sui versanti occidentali, paralleli a tali piani, ripidi pendii scoscesi su quelli orientali ad essi ortogonali, secondo un frequente schema geomorfologico. Tali rocce sono sia favorevoli alla formazione di distese prative, grazie all’erodibilità, che fertili, come nella grassa Valle d’Aosta interna, per cui permettevano un carico animale molto elevato. Inoltre la loro geometria di frattura le rende ideali per ricavare lastre per i muri e le coperture degli edifici. Lo svantaggio è che sono povere di filoni minerari, per cui in valle operò un’unica e magra miniera di ferro, il cui accesso è visibile tuttora sulle pendici settentrionali del Pelvo d’Elva
Poso lo zaino e mi fermo un attimo, visto che sono abbastanza provato. Grazie al momento di rilassamento, mi rendo conto di un po' di cose. La prima è che, sebbene sia partito da più di quattro ore, non ho ancora bevuto, per cui lo faccio, mentre nemmeno mi sovviene di avere dei datteri nello zaino, che potrebbero darmi un po' di energia. Peraltro non avverto alcun segnale di fame, teso come sono nel non perdere l’incerta traccia, e decido di rimandare il pranzo a quando sarò in paese. La seconda è che non ho quasi fatto caso agli ambienti attraversati, per la medesima ragione. Inoltre comincio a pensare che la scelta di passare di qui sia una sorte di punizione divina, poiché l'altra settimana mi ero rifiutato di infilarmi tra i rovi e le zanzare assetate di sangue, con i pantaloni corti e senza repellente, per raggiungere i ruderi di un castello che interessava la fidanzata. Restando in tema paranormale, mi convinco che chi ha lasciato andare a ramengo il sentiero si chiami Paolo, perché dalla partenza mi gira nella testa il ritornello del Banco Paolo pa Paolo maledetto. È un presagio, ne sono sicuro: in questo periodo è ineludibile la superstizione, perché presto sarà asportato un grosso tumore a una persona cara, nel giorno in cui il rito papista legge un passo del vangelo dove si narra l'espulsione di presenze maligne da indemoniati.

Poco più avanti vedo un capriolo maschio, quindi delle arature di cinghiale, anche se qui avrei pensato più a camosci. Devo ancora affrontare il passaggio più delicato di tutto il percorso, dove un larice si è abbattuto sulla stretta cengia artificiale del sentiero divellendola, cosicché posso appoggiare il piede solo su un moncherino di ramo, al cui cedimento finirei nel dirupo qualche metro più in basso, il larice scortecciato e io scorticato dallo sfregamento. Il resto è ordinario infrascamento, anche se a questo punto mi sale un certo terrore vago di trovare un ostacolo insormontabile poco prima della salvezza. Al bivio con il sentiero dell'ubac tra Pleyne e Fontanile, il mio è indicato con cartelli recenti, come se fosse un percorso normale. Sono tentato di scriverci a biro “percorso avventura”, ma mi trattengo dal fare il vandalo. Più avanti leggerò che è stato sistemato con dei fondi europei tra il 2007 e il 2013, ma evidentemente dopo nessuno è più passato con un decespugliatore: soprattutto in media montagna, dove la vegetazione è più rigogliosa, bisogna intervenire con continuità, perché la natura si riappropria in fretta degli spazi. Una volta era più semplice, grazie all'abbondante manodopera gratuita delle ruide (corvée), con cui si costruivano e mantenevano in efficienza le opere pubbliche. Non erano le uniche forme di solidarietà collettiva strutturata, in quanto dal XVI secolo sono documentate due società di mutuo soccorso. Poiché non di solo pane vive l’uomo, ma principalmente di storie, una era unicamente votata a organizzare messe per i parenti in Purgatorio delle famiglie troppo indigenti per potersele permettere.
Rilassandomi sulla tranquilla mulattiera in saliscendi, faccio caso al bosco misto di aceri e larici, come attorno a Chiesa, e prendo a sentire qualche morso della fame, dato che è ormai l'una e mezza.
Lungo il torrente principale vi erano dei mulini, di cui restano solo muri sbrecciati, ma la forza dell'acqua è sempre utilizzata, seppure in altra forma, grazie a una captazione idroelettrica. I mulini erano privati, mentre collettivi erano i forni in cui il pane era cotto una volta l’anno tutti assieme, con modalità di gestione diverse da un forno all’altro. In mezzo a una seconda fioritura di zafferano selvatico, avanzo su una pista che era detta Chemin Royal, diretta in Francia via colle dell’Autaret, e ribattezzata Vio Veio (via vecchia) quando fu costruita la strada. Il percorso, oggi abbandonato dal traffico commerciale in quanto non carrozzabile, parrebbe essere molto antico e lungamente sfruttato: il nome del colle deriverebbe dalla presenza di un altare precristiano e la dedicazione a san Giacomo della parrocchiale fa ipotizzare che vi transitasse una via di pellegrinaggio verso Compostela. Romanticamente il vento disperde nell'aria le fibre cacuminali argentate degli epilobi. C'è poi un pilone votivo, restaurato nella struttura, ma senza toccare il piccolo lembo di dipinto originale, dai tratti ingenui, quasi fanciulleschi.
Più avanti un grande lavatoio, alimentato da una sorgente, è costruito a livello del suolo, in cui pertanto le massaie dovevano inginocchiarsi a terra per lavare (solo nella seconda metà del Novecento ne furono costruiti in cemento in cui si lavava in piedi). È tutto in lastre di pietra, tranne un setto più recente, per isolare la zona vicino alla canaletta di alimentazione dove avveniva il risciacquo, nell'acqua più pulita. Una volta l’anno, in primavera, si faceva un lavaggio generale della biancheria, utilizzando dapprima una tinozza con acqua calda e cenere e quindi terminando l’opera con un risciacquo al lavatoio, dopodiché la si poteva stirare e riporre.

Mi fermo a Celle a pranzare, seduto su un gradino di fronte al museo delle meridiane. Mangio del cous cous con piselli e melanzana al curry; mi sono però dimenticato di portare una bustina di olio, per cui è un po' secco. Alla fine bevo un bicchiere di thè speziato dal thermos. Gironzolo poi tra le case, su cui ci sono non pochi dipinti antichi. Sopra un arco con una data settecentesca, un dipinto raffigura la Trinità come tre uomini identici affiancati, che fanno il gesto della benedizione. Ha una storia antica, come evoluzione medievale di rappresentazioni bizantine e fu vietata nel 1745 da una bolla di Benedetto XIV.
Sul muro accanto è raffigurato un episodio dei vangeli apocrifi con Maria Maddalena, Maria Salome e Maria Jacobi ai piedi della croce. La prima è presente anche nei canonici, mentre le altre sono figlie di seconde e terze nozze di Anna, la nonna materna di Gesù. Si tratta in questo caso di un legame con la cultura provenzale, perché una tradizione carolingia le fece sbarcare in Camargue e ancora oggi i gitani si radunano ogni anno nel paese loro intitolato, Saintes Maries de la Mer, in occasione della celebrazione religiosa.
Per una stradina secondaria e quindi una mulattiera erbosa, passo accanto a due cappelle, un pilone votivo restaurato di recente e un allevamento in isolamento sanitario, magari per la lingua blu delle pecore, raggiungo Chiazale. Ha molte case in pietra, dei prati sovrastati da rocce adatti a litografie romantiche, meno reperti pittorici di Celle, ma più animaletti a zonzo, tra cui un cane di nome Lucky che si fa coccolare, mentre la sua mamma anziana è più timorosa. La loro padrona gestisce un agriturismo dove rimedio un caffè con la moka. Il marito è impegnato in cucina a pulire le verdure, ma scambia lo stesso due chiacchiere in cui apprendo che hanno già segnalato lo stato del sentiero alle autorità preposte, dopo il racconto di altri escursionisti.
Prafauchier è un via di mezzo tra Celle e Chiazale. Sono molto orgogliosi della settecentesca cappella di san Felice, costruita con ruide coatte. Nel 1770 fu visitata dal vescovo Luserna Rorengo di Rorà, una sorta di Wojtyla sabaudo che batté in lungo e in largo la sua diocesi fin nelle più sperdute cappelle, anche sobbarcandosi lunghe camminate nonostante il suo fisico pasciuto. Da un cartello scopro che le lobbie, che danno il nome alla cima del gruppo del Monviso affacciata sull’Alevè, una delle pochissime con nome tradizionale e non affibbiato da Valbusa, sono i balconi più alti dove si seccano la legna e il fieno (per la prima sono adoperate tuttora).
Riempio la borraccia e mi metto in maglietta. Contando che il traffico sia scarso, proseguo lungo la strada, per vedere qualcosa di diverso. Passo sotto formazioni rocciose stratificate e quindi dal municipio, un edificio moderno in posizione isolata e baricentrica, che presenta delle colonne circolari in ossequio a un elemento peculiare dell'architettura berlingoina.
Pleyne è una borgata molto semplice, che in passato era sede comunale per la posizione intermedia, ma pure infelice, in quanto molto infossata e pertanto priva di sole per tre mesi l'anno, più che ogni altra in questa valle incassata, Inoltre è adiacente a una zona franosa, tanto che una parte dovette essere dismessa.

Al tornante successivo trovo un'indicazione per la Battagliola, un cartello blu automobilistico in quanto la strada sterrata non presenta divieti. Apprezzo che il primo tratto sia prevalentemente in ombra, tanto della montagna quanto degli alberi, perché la temperatura è calda, mentre più in alto la quota e il vento mi faranno gradire maggiormente il sole.
Salendo ricomincio a vedere il Pelvo d’Elva, ora dal versante nord in ombra, e in lontananza Sampeyre e il campanile di Becetto. Ai piedi del ripido pendio che sto risalendo sorge invece Chiesa, su un conoide di deiezione. Penso che per simmetria della traccia potrei salire fino alla dorsale e non solo fino al sentiero GTA per Chiesa. Incrocio un quartetto di pensionati, divisi in mariti e mogli, e il pastore su una moto da trial spenta. Dalle tracce sul terreno vedo invece che è salito un cingolato per i lavori a una baita. Su un colatoio per l’acqua una targa di un battaglione alpino è del 1915, quando era già scoppiata la Guerra ma l’Italia non era entrata in guerra contro la Francia assieme all’Austria e alla Germania con cui formava la Triplice Alleanza, quindi un edicola votiva sempre alpina ma del XV, quando si preparava nuovamente una guerra che stavolta però sarebbe scoppiata davvero, seppure solo a livello di tragica farsa.
Al bivio capisco di avere ore di luce sufficienti a salire fino in cima e pertanto proseguo. Trovo qui i vitelli piemontesi e un gruppetto di asini, che hanno rasato i prati superiori e hanno iniziato la demonticazione. I prati non sono secchi ma neppure al loro climax estetico, raggiunto invece a giugno quando ci vidi addirittura la fritillaria. Passo degli alpeggi e una baita residenziale deserta con lavanda fiorita. La monotonia della strada militare è rotta da nuvolette aggrappate alle cime più elevate, che mandano chiazze d’ombra sopra i prati, disegnando astrazioni effimere, oltre a quelle più stabili dovute al sole basso e alle ondulazioni. Mentre fotografo, canto nella testa “Shapes of things before my eyes” nelle due versioni che conosco, quella originale degli Yardbirds e quella del primo album solista di Jeff Beck.
Prima di giungere a destinazione, vedo una signora dall'aspetto elegante raccogliere della vegetazione nitrofila, mi pare il buon enrico, detto colloquialmente spinacio selvatico. Nell'ultimo tratto si infittiscono i cembri, sotto cui vedo delle pigne senza i semi, mangiati dalle nocciolaie.
La mia cima è un colletto innominato tra la punta Cavallo e la punta Battagliola, dove mi affaccio sul Monviso quasi completamente sgombro di nubi per scattare senza pretese, senza pretese una foto «just to prove that it really existed», mentre sono sferzato dal vento teso, ma non troppo freddo. La Battagliola prende il nome da un sanguinosa spedizione punitiva effettuata da francesi e spagnoli contro il Duca di Savoia, dopo che questi aveva cambiato campo in maniera repentina, durante la Guerra di Successione Austriaca, a metà Settecento, come era tradizione di questo regno di signori della guerra. Oltre a costare vite umane, fu pure inutile nell’economia degli scontri, in quanto era contemporaneamente riuscita la principale manovra di sfondamento in valle Stura, che pure lì battezzò di sangue un colle, recentemente rinominato in maniera più accattivante da una popolare manifestazione sportiva.
Torno quindi indietro fino a un sasso in un punto riparato, per consumare gli avanzi del pranzo, una magra merenda sinoira data l'ora serale. Il piccolo avvallamento sottostante è un pianoro del ballo delle masche, immagino nel senso descritto nella tesi di laurea di Marco Aime, ovvero un luogo di confine dove si potevano incontrare donne dell’altra vallata, che in caso di matrimonio avrebbero danneggiato l’economia locale con la cessione dei già esigui fazzoletti coltivabili, spezzettati a coriandoli dalle successioni in parti uguali, a montanari troppo lontani per poterli far fruttare.
Il sole tramonta dietro il monte Pietralunga, la temperatura cala e perciò scendo coperto da uno strato in più e dai guanti. Il soggetto prediletto delle mie foto è ora il tramonto che illumina il Pelvo, senza più interferenze delle nubi, che si vanno dissolvendo. Lo riprendo con tutta la varietà di primi piani che il luogo consente, dalle baite ai vitelli, fino a quando il bosco lo nasconde, poco prima che la luce si spenga. Anche l'amata luna collabora nella forma di una falce, proprio al di sopra della cima. La lentezza con cui si avvicina alla cima al mio calare si adatta ai miei ritmi meditabondi e mi consente di studiare multiple inquadrature variando gli elementi di contorno con calma, ma non sono per contro abbastanza reattivo per cogliere una fugace luce radente su Chiesa.
Il sentiero per Chiesa, che si stacca dalla strada, è dapprima una mera striscia di terra nei prati, per divenire una mulattiera selciata e bordata di muri a secco quando si avvicina alle Grange dell'Alpe, in parte ancora vissute come residenza estiva, turistica e non più agricola, grazie alla bretella della carrozzabile militare che le raggiunge. Il complesso era assai esteso e dotato dei filari di aceri per il fogliatico dopo le estati siccitose, durante il periodo di permanenza autunnale. Vista l'ora tarda speravo di vedere qualche ungulato al pascolo nei prati, ma la sorte non mi arride.
Dato che sento caldo, mi fermo su un muretto a svuotare la borraccia e il thermos, ormai poco più che tiepido, e a togliere il secondo strato. Dopo la bevuta faccio finalmente la mia solita pisciata bianca, dopo le stentate gialle di una giornata in cui ho bevuto pochissimo. Anche il parroco apprezza e celebra con uno scampanio. Faccio le spese dell'ultima porzione, dal fondo di pietre calcaree e fanghiglia scivolose, finendo sul sedere per una lastra malamente valutata.
Giungo alle case proprio quando l'ultima luce arancione scompare dal Pelvo. A Chiesa ritrovo la foraggiatrice, che abita qui, mentre riempio la borraccia di acqua da portare a casa. Anche stasera il posto tappa pare deserto. Vorrei andare a sfondarmi di qualche porcheria in pianura (i miei riferimenti vallivi oggi sono chiusi), ma una cena è stata approntata a casa. Ritrovato del segnale telefonico più stabile allo sbocco della valle, offro un po' di ascolto a una familiare dell'operando, non potendo fare molto altro, durante il noioso ma liscio viaggio notturno, a traffico di rientro già dileguato.

Per approfondire

G. Bernard, Pratiche agrarie a Bellino (alta Valle Varaita), Valados usitanos n. 19 (settembre – dicembre 1984)
G. Bernard, Uomo e ambiente a Bellino vol. 1, Torino 1983
G. Bernard, Taglio e trasporto del legname a Bellino, Valados usitanos n. 62 (gennaio - aprile 1999)
G. Bernard, Bellino: passeggiata tra i nomi di luogo, Valados usitanos n. 77 (gennaio - aprile 2004)
J.L. Bernard, nosto modo, Sancto Lucìo de Coumboscuro 1992
L. Dematteis, Blins: l'abitare di una comunità delle Alpi Occitate, Ivrea 1993

Galleria fotografica

Meridiane di Bellino
Meridiane di Bellino
Chiesa
Chiesa
Chiesa e Mas del Bernard
Chiesa e Mas del Bernard
Grange Bicoco
Grange Bicoco
Colle della Bicocca
Colle della Bicocca
Monviso
Monviso
Monte Pietralunga e Bondormir
Monte Pietralunga e Bondormir
Lavatoio presso Celle
Lavatoio presso Celle
Celle
Celle
Celle
Celle
Celle
Celle
Celle
Celle
Santa Lucia
Santa Lucia
Grange Forest
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Shapes of things
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Pelvo d
Pelvo d'Elva
Pelvo d
Pelvo d'Elva

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Sergio Chiappino

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