Lago Bojret 2254 m
Val Grande di Lanzo/Val Locana
8 agosto
In un baleno
Mi affaccio su un versante completamente diverso: mentre prima, a parte qualche pietraia, il pendio era prevalentemente liscio ed erboso, ora tutto è roccioso e frastagliato. Per superare questi dirupi, i pastori costruirono un sistema di scale di roccia, ampliando e strutturando delle cenge
Diario di viaggio
Il lago Bojret è una perla chiusa nel guscio di un vallone del tutto secondario della valle dell'Orco. Può essere raggiunto da questa valle, con un sentiero sistemato di recente, oppure, come descritto qui, con un anello dalla val Grande di Lanzo, ricco di testimonianze storiche e meraviglie geologiche.
La pronuncia del nome adattata all'italiano è più o meno buaret. Tuttavia, il proprietario di una delle caseforti della bassa valle dell'Orco con cui parlai una volta, lo pronunciava con un accento chiuso che non saprei mai ripetere e men che meno riportare in forma scritta.
Si può salire in auto fino a Vonzo, ma le mulattiere e le borgate che si visitano partendo da Chialamberto meritano lo sforzo supplementare. Lascio pertanto l'auto nel parcheggio in riva al torrente, dove c'è un buon profumo di buddleja. Alle 7.15 in giro c'è solo gente che conferisce i rifiuti nell'area qui accanto. Riempita la borraccia alla fonte della chiesa, imbocco la mulattiera che parte sul retro e taglia i terrazzamenti in disuso, riconquistati dal bosco. I muri a secco sono davvero imponenti, quasi megalitici. Il primo bivio, da cui si stacca la mulattiera da cui scenderò, è marcato da un'edicola votiva. Più avanti c'è invece una balma, ricavata sotto un gigantesco masso. In effetti in questa zona i massi di ogni dimensione non mancano. Sono con tutta probabilità su una morena dell'ultima glaciazione, resa irriconoscibile nella forma da svariati millenni di erosione. Grazie all'ampia disponibilità di massi di ogni foggia che una morena contiene, la mulattiera lastricata è quasi un'opera d'arte.
A una seconda edicola votiva, la lascio risalire il ripido pendio e imbocco invece un sentiero che prosegue momentaneamente in quota, perché voglio vedere i castej d'le rive. Si tratta dei tipici funghi di terra e pietre, che si formano di solito da terreno morenico quando un masso protegge il terreno sottostante dall'erosione per dilavamento, dovuta alla pioggia. Uno è anche abbastanza fotogenico da poter essere immortalato. Stranamente nessuno dei cartelli esplicativi fa riferimento a leggende sulla loro origine, ma mi sembra strano che gli alpigiani non avessero elaborato ipotesi in accordo con la propria visione del mondo magica e religiosa. Il percorso di accesso segue ancora per un tratto un vecchio sentiero, poi se ne distacca a diventa un sentiero costruito ad hoc con mezzi più modesti e tracciatura escursionistica, ovverosia per la massima pendenza. I montanari conoscevano bene il loro territorio, ma non si sarebbero certo sognati di costruire un sentiero per accedere a un'anomalia, che magari consideravano pure diabolica, come in genere facevano con ciò che esulava dal domestico.
Oltre il fungo prediletto dai fotografi, il sentiero si mantiene ripido, costeggiandone altri meno iconici, fino a raggiungere i terrazzamenti di Vonzo. Nella fresca brezza faccio una breve pausa su una panchina, riprendendo quindi per un boschetto di pioppi bianchi. In breve sono a Vonzo per una mulattiera tra muri a secco. La borgata, che fino al primo Ottocento era un comune autonomo, è molto curata, in maniera direi corale, anche se non mancano cartelli che suggeriscono tensioni tra i proprietari. La Savi Lopez la descrive come un posto dove nulla ricorda la città ottocentesca; oggi invece pali, fili e antenne paraboliche segnalano la salita del progresso fin quassù. I dintorni allora dovevano essere assai diversi dal bosco di oggi: «la montagna è coltivata fin quasi alla cima, ed i campi di segala ed il verde cupo delle patate, vedonsi non lungi dalle ondeggianti cime della canapa», racconta la medesima fonte. Bevo a una fontana e raggiungo i margini del borgo dove ci sono la chiesa e il parcheggio, da cui parte il sentiero per Ciavanis.
All'inizio è solo una traccia in un prato, dove pascolano dei vitelli e sono sparpagliati maggiociondoli, aceri e frassini. Il prato è irrigato da un paio di roye, una tuttora in funzione. Più avanti diventa una bella mulattiera lastricata, tra muri a secco. Lascio sulla sinistra il sentiero che sale al Roc d'le Masche o Balma delle Fate (nel folklore locale non esiste una divisione tra masche malvagie e fate buone, ma gli stessi esseri possono rivestire entrambi i ruoli). Si tratta di una parete di roccia, dove l'erosione chimica dell'acqua si è concentrata su alcune inclusioni, che, scomparendo, hanno lasciato dei fori di forme curiose. Stavolta la spiegazione magica c'è ed è raccontata dalla Savi Lopez: si narra che, una notte di inizio primavera, inebriate dal risveglio della natura, le fate volessero portare lontano la balma. La sollevarono perciò, la poggiarono sulle proprie teste e con gran fatica volarono per tutte le valli sino al Ponte del Diavolo, dove la Stura sfocia nella pianura. Decisero di posare lì la balma, per far ammirare a tutti l'indomani il prodigio. «Mentre esse trionfanti si abbassavano verso il ponte, [il diavolo] sorse a metà dell'arco, sfolgorante tra le fiamme gittò all'aria una imprecazione infernale, e prima di sparire, vinto dall'ira, battè col piede sopra una pietra, lasciando incancellabile impronta.» Le fate tornarono perciò indietro, ma la rupe si faceva sempre più pesante, tanto che le loro teste lasciarono le impronte nella dura roccia. Curiosamente la leggenda ha anche una data storica, in quanto da documenti scoperti nell'Ottocento dal Cibrario risulta che il ponte fu costruito nel 1378, per cui la vicenda è ambientata in epoca successiva, quando si era persa la memoria della costruzione umana.
Il sentiero di accesso alla balma è ben tracciato in un fitto bosco, con qualche squarcio panoramico, come dove si affaccia su un grosso masso. È però parecchio ripido, in grado di sfiancare chi è fuori allenamento. Invece a monte della balma attraversa dei pascoli, perfettamente spietrati ma apparentemente abbandonati, dove la traccia quasi scompare e occorre prestare attenzione a delle tacche su paletti. Termina sulla strada sterrata diretta al santuario, poco a valle di pian Quarchietto. La balma è molto singolare e merita senz'altro un'occhiata, non solo all'esterno per i caratteristici fori, ma anche all'interno: c'è infatti un grande spazio, non molto alto, ma molto largo e profondo, bordato di muri a secco sul foro di accesso e sul lato a valle, per chiuderlo e renderlo abitabile.
Oltre il bivio eper il Roc d'le Masche, purtroppo la mulattiera si perde a causa della sovrapposizione con una pista in disuso per una captazione di acqua. Passato il rio su una lastra di pietra, oltre la presa entro in un boschetto, che più in alto diventa di noccioli. Mi supera un signore, accompagnato dal figlio e un suo amico, che stanno parlando di prestazioni atletiche in vari sport. La vegetazione arborea termina e mi trovo così su un prato solatio, quasi ai piedi del ripido versante della Bellavarda, con vista sulla parete nord della Ciamarella e l'acuta catena Gura-Martellot (al santuario vedrò anche la Bessanese), alla testata della valle. Più in alto la parte superiore del santuario fa capolino sopra un salto erboso. Al bivio per il colle della Paglia lascio i tre, naturalmente diretti su una cima, e vado ad affrontare la scala devozionale di 366 gradini, che aggira la parete rocciosa alla base della chiesetta. Lungo di essa ci sono anche due edicole votive, con immagini della Madonna e una foto di un teologo all'origine della prima.
Raggiungo così la candida chiesetta, dove mi aspetta un po' di gente, tra cui un ragazzo in tenuta da corsa, seguito come un'ombra da una pastore tedesco. Non troverò nessuno di costoro al lago. Provo a scattare una foto dell'interno dalla finestra, ma una lama di luce che verrebbe bruciata me lo impedisce. Mi piacerebbe una volta entravi e vedere gli ex-voto, ma non amo mischiarmi con le folle del giorno delle festa, ben da prima del Covid.
Per prati sassosi raggiungo gli alpeggi di pian Quarchietto, da cui ricordo partire il sentiero. Noto con piacere che le tacche di vernice sono state rinfrescate: una buona cosa, visto che qui la traccia non è molto evidente, anche se poi la prima volta me la cavai che tacche consunte in un giorno di nebbia. Seguo un muro, su un pendio sempre più ripido, e dopo il suo termine piego a sinistra verso l'alpe Tovo, sotto cui stanno pascolando le vacche. Anche qui noto con piacere le tacche fresche: ricordo che bisognava destreggiarsi tra le varie tracce del bestiame facendo affidamento su ometti, mentre ora è tutto più facile.
Il sentiero traversa in salita puntando verso l'impluvio del vallone. Stanno intanto risalendo delle nuvole, che prima mi regalano una foto d'atmosfera con la chiesa e gli alpi tra i vapori, visti a volo d'uccello o di drone, se preferite, poi mi avvolgono in una cappa di nebbia. Attraverso due tratti di pietraia ben sistemati. Qui gli alpigiani erano avvantaggiati, perché gli gneiss si fratturano a lastre e offrono così ottimi pezzi per lastricare. Al crescere della quota le fioriture diventano più abbondanti, includendo anche qualche rododendro, nonostante sia agosto. Al colle ritrovo un uomo e una donna che mi avevano preceduto alla chiesa; lui mi saluta, lei sta telefonando ed è assorta. Apparentemente si fermeranno qui e torneranno sui loro passi, perdendo la scala e il lago: che scelta insensata.
Per non disturbarli proseguo e mi affaccio su un versante completamente diverso: mentre prima, a parte qualche pietraia, il pendio era prevalentemente liscio ed erboso, ora tutto è roccioso e frastagliato. Per superare questi dirupi, i pastori costruirono un sistema di scale di roccia, ampliando e strutturando delle cenge. Il tratto più spettacolare è quasi alla base del salto, dove una cengia irregolare è stata ampliata e livellata in una ripida ma civile successione di gradini. Davvero una meraviglia. Tra genziana maggiore fiorita, supero poi placche e con un ultimo salto gradinato sono al lago, dove sono il primo della giornata.
Il lago Bojret è un piccolo specchio d'acqua in una profonda conca di rocce viola e erba. I fianchi sono ripidi; non ci sono zone palustri con eriofori sulle rive. Come già osservato, la conca è molto dirupata. La secca diversità con il versante di salita è dovuta al fatto che le rocce sono gneiss, i cui minerali sono stati orientati dagli sforzi meccanici del metamorfismo, creando dei piani di frattura preferenziali e paralleli fra di loro. Sul versante di Ciavanis tali piani sono più o meno paralleli al pendio, ortogonali su questo. Osservando le rocce sul pendio sono ben visibili. Tale configurazione è abbastanza comune, tanto da avere un nome: il versante erboso è detto a reggipoggio, l'altro a franapoggio.
Verso valle, invece l'emissario corre tra dossi rocciosi montonati, con tanto di massi erratici, a ricordare l'origine glaciale della conca. Oltre vedo l'infilata della valle Orco e, lontana, la pianura immersa nella foschia dell'afa agostana.
Cerco un masso dove accomodarmi a pranzare, in riva al lago. Non ricordo di aver mai patito il caldo, in questa conca rivolta a nord (una volta un'amica mi chiese la coperta termica), per cui indosso il pile. In effetti da qui a poco il sole sparirà dietro le nubi e l'aria si farà frizzante. Mentre consumo il lauto pasto di farro con pomodori e ceci, in due tronconi si affacciano sul poggio dei signori con dei bambini, saliti dalla valle dell'Orco, e vanno a sistemarsi su un prato affacciato sulla riva. Salgono anche dei motociclisti, ma per fortuna tornano subito indietro, senza scendere fin qui. Ad un certo punto, una brezza localizzata increspa una zona al centro del lago, in modo tale che per un po' mi sembra piova solo lì.
Decido di sperimentare un contatto tattile con l'acqua. Mi metto a piedi nudi, arrotolo i calzoni al ginocchio e faccio qualche passo su una placca rocciosa appena sotto il pelo dell'acqua, l'unico punto in cui mi posso immergere senza sprofondare subito fino alla vita. Se fossi un fungaiolo o un venditore di auto usate, potrei millantare un minuto di resistenza, ma non di più: l'acqua è davvero gelida e credo che anche un amante dei bagni gelati non potrebbe resistere dentro a lungo.
Verso l'imbocco dell'emissario, c'è una piccola baia, dove con la brezza opportuna si può osservare il fenomeno della diffrazione delle onde: queste, arrivando dal centro del lago e attraversando la bocca, non proseguono dritte, ma formano un arco, come se ogni punto della strettoia si comportasse da sorgente puntiforme, o almeno questo è il modello che mi hanno insegnato nel corso di Fisica II all'università.
Seguendo a ritroso le orme delle famiglie, salgo sul dosso sopra il lago e vi trovo un alpeggio, con abbondanti fatte di bestiame. All'edificio lascio sulla destra il sentiero diretto a valle e prendo per il colle della Forca, su sentiero non molto evidente, ma ben segnato da tacche e ometti. Traverso a monte del lago e con una scala di pietre raggiungo un pianoro con laghetto, dove stanno pascolando i vitelli, con gran frastuono di campanacci, che mi accompagnerà fino al colle. Alcuni mi fissano, altri muggiscono.
Riprendo a salire per vaghe tracce, finché, dopo un tornante, il sentiero diviene più marcato. Con traverso ascendente, su ripido pendio, supero una pietraia ben lisciata e passo accanto a delle baite in buono stato, transitando infine al colle, poco sopra l'insellatura. Non ricordo molto del paesaggio di questo tratto, perché ero molto concentrato nel cercare di individuare la traccia. Ricordo delle belle fioriture, tuttavia. Dell'altro versante non vedo invece proprio nulla, perché le nebbie di Avalon stanno risalendo a ritmo forsennato.
Scendo per un sentiero molto marcato e pure decisamente eroso, descrivendo serpentine nel prato. Incrocio una signora, solitaria come me. Già il versante del passo Bojret non è molto frequentato, ma qui è la prima volta che vedo qualcuno in tutte le volte in cui sono transitato. Scambio solo un buongiorno, senza considerare che potrebbe essere un'anima gemella e dovrei cogliere l'occasione. In uno squarcio godo di una fugace vista sul piccolo laghetto, quasi interrato. Il sentiero sembra ogni tanto perdersi, ma poi una tacca o un ometto indirizzano nella giusta direzione.
Vedo le baite di pian di Lee, con i caratteristici sassi bianchi contro le masche sul colmo del tetto, prima che la nebbia le inghiotta nuovamente, nonostante ne sia a cinquanta metri. Attorno stanno ruminando dei vitelli bianchi, assai più silenti dei colleghi sull'altro versante. Mi fermo per una breve pausa, in attesa che la nebbia si diradi un po' e mi consenta di individuare il sentiero, qui non molto tracciato. Durante un momento di sole, ammiro la conca erbosa da cui sono sceso, ma poco altro.
Trovo il sentiero un poco più a valle delle baite e scendo affacciandomi su un pianoro cosparso di massi, aggirato sul bordo. Non faccio caso ai mirtilli, che ricordo da un precedente passaggio, cquando invece potrebbero essere belli maturi. Arrivo a un piccolo alpe, dove hanno steso il filo del bestiame proprio su un guado, dove per fortuna si possono mettere i piedi nel filo d'acqua. Poco più avanti trovo il bivio e lascio il sentiero più evidente diretto a pian Quarchietto, per seguire invece le tacche biancorosse in discesa, lungo vaghe tracce non difficili da seguire, sapendo che si deve puntare verso l'evidente ometto sul cocuzzolo all'imbocco del vallone.
Sono intanto sceso sotto il limite delle nuvole e posso così godere della vista su questo ripido pendio erboso, che salta verso il fondo del vallone di Vassola, un tipico vallone sospeso a U, di escavazione glaciale. In queste zone hanno stazionato ripetutamente le vacche, tra vari alpi, e i pastori hanno tirato numerosi fili, che oltrepasso più e più volte, perdendo in fretta la cognizione se sia dentro o fuori il recinto. Perdo le tacche su un pianoro, ma mi imbatto in una traccia molto evidente, che mi fa ricongiungere a loro. In questo ultimo tratto c'è un certo infrascamento, anche di roba pungente come i ginepri, ma non prenderò nessuna zecca. Raggiungo l'ometto e la croce di Testarebbo, dove termino l'acqua e decido pertanto di fare merenda a Chiappili, dove ne ritroverò. Gran vista sull'infialta a del vallone e sulla valle, da Santa Cristina alla Ciamarella, che sbuca dalle nuvole.
Imbocco il ripido e tortuoso sentiero nel fitto betulleto, evitando di fare il filologo e accettando i tagli degli escursionisti, quando mi consentono di evitare degli infrascamenti. Ricordo che prima che rinfrescassero i segni, dopo un po' mi perdevo e raggiungevo la strada ravanando tra pietraie. Oggi invece tutto è elementare. Taglio la strada (ricordo troppo tardi che con una deviazione sulla destra potrei andare ad ammirare Chiappili dall'alto) e percorro il sentiero ora più agevole. Noto con piacere che, nonostante la siccità, l'impaludamento, che ha portato in anni recenti a lastricare un tratto, persiste.
Sbuco sui prati di un alpeggio, dove l'erba è alta, e superando dei rii scendo a Chiappili, con le sue casette ristrutturate con criteri moderni, ma in stile, e le sue panchine colorate. In questo momento è in rifacimento la baita alle spalle della chiesa, sotto un grande faggio. Due vecchi stanno giocando a carte su un tavolo dove feci pic-nic la scorsa primavera. Purtroppo la bianca chiesetta è chiusa. È dedicata a san Vito, di cui si hanno solo notizie leggendarie. L'agiografia ne colloca la nascita a Mazara del Vallo, dove è sontuosamente festeggiato a fine agosto, e vuole che sia stato martirizzato per ordine di Diocleziano in persona a soli dodici anni. Sulla pala d'altare, qui è invece rappresentato come legionario tebeo adulto. Il processo con cui santi più disparati furono trasformati in tebei, in chiave anti eresiale, specialmente a partire dal Seicento, è ben documentato per santi alpini come i celebri Chiaffredo e Besso. Chiappili era un borgo di stazionamento intermedio della transumanza, in altri posti detto maggengo. Una volta incontrai un vecchio che ricordava con nostalgia quei tempi, quando la borgata pullulava di vita per qualche settimana. A ricordo di allora, restano dei frassini, le cui foglie fornivano il foraggio negli anni secchi magri d'erba.
Vado a riempire la borraccia: berrò un litro e mezzo senza che mi venga lo stimolo della pipì. Credo che il lieve mal di testa che va e viene sia una conseguenza della disidratazione, come quello che arriva agli sbronzi, in quel caso per l'effetto diuretico dell'alcool. Mi accomodo quindi all'ombra a fare merenda con del carpaccio di pesce e pane di segale, un cibo esotico accompagnato dal cereale per eccellenza del freddo e delle alte quote. Segno il mio passaggio sul diario della borgata.
La successiva parte di discesa fino a Candiela è quanto di più romantico si possa immaginare: faggi monumentali tra massi giganteschi (ho ritrovato la morena di stamane), edicole votive, bramiti di cervi nel folto del bosco, radure con case rurali. Non si potrebbe chiedere di meglio per concludere una gita a un laghetto alpino. Non è proprio tutta così, solo in parte, perché ci sono anche tratti meno spettacolari, ma è una degna conclusione. Poco prima di giungere alla frazione, transito nei pressi del rio Vassola, nella parte più umida dell'impluvio dove il sottobosco è quasi tropicale. Le terrazze in disuso annunciano alla fine le prime case.
Bordeggio le costruzioni, mentre un signore intento a tagliare un albero mi sgombra la strada. Per un boschetto su un ripido pendio, con un'ulteriore edicola, sono alla casa rurale di Cadrò, dotata di fienile dove è parcheggiata una Panda, che per timidezza perdo l'occasione di fotografare, a beneficio della mia pagina dedicata. Taglio e lambisco la strada fino a giungere a Pianetto, il cui nome potrebbe non derivare da un inesistente pianoro, ma da piano, il nome franco-provenzale dell'acero di monte (Acer pseudoplantanus, per la corteccia simile a quella del platano), un albero che in natura è diffuso come esemplari isolati nelle faggete. Il nome del precedente, Cadrò, forse deriva dal termine per nocciolo.
All'arrivo nella borgata, un minuscolo quanto peloso terrier mi viene incontro abbaiando furiosamente (salvo fuggire a gambe levate quando mi volto), tanto che la mamma viene a vedere cosa stia succedendo, per poi scusarsi mortificata, nonostante i miei sorrisi per la buffa scenetta. Alla fontana bevo i sali, che prima avevo dimenticato di assumere, e all'uscita del paese ammiro la parata di ortensie di un giardino. Con un'ultima ripida discesa, su mulattiera selciata tra i castagni, sono alla prima edicola della giornata, e di lì alla chiesa di Chialamberto. Alla fontana una signora sta lavando una gabbia.
Concludo la gita con un'ottima coppa gelato a Cantoira. Sono attratto da cioccolato e pere, ma c'è la grappa e io sono a stomaco a vuoto e devo guidare, per cui rimbalzo sui più salutisti frutti di bosco con la crema. Anche il caffè è molto buono.
Per approfondire
- P. Barillà - M. Blatto, Geologia e forme del paesaggio per escursionisti, Rimini 2007
- A. Cattabiani, Santi d'Italia, Milano 2018
- R. Hertz, San Besso. Studio di un culto alpestre, Ivrea 1994
- T. Vindemmio - G. Di Francesco, Oncino, Crissolo, Ostana. Tre comunità occitaniche alpine. Microstoria dell'alta valle Po, Pinerolo 2004
- A. Cattabiani, Santi d'Italia, Milano 2018