Sentiero del postino
Val Boreca
21 ottobre
In un baleno
In val Boreca sostengono di discendere dai disertori dell'esercito di Annibale. Ecco perché, ribadiscono, i nomi dei paesi suonano esotici, come Zerba o Tartago, rispettivamente deformazioni di Djerba e Carthago. O Pizzonero, che prenderebbe il nome da gente dalla pelle scura che lo abitava. Vero o falso che sia, sta di fatto che questa porzione di Appennino ha una cultura omogenea al suo interno e diversa dalle zone di pianura e fondovalle a lei vicina
Diario di viaggio
In val Boreca sostengono di discendere dai disertori dell'esercito di Annibale. Ecco perché, ribadiscono, i nomi dei paesi suonano esotici, come Zerba o Tartago, rispettivamente deformazioni di Djerba e Carthago. O Pizzonero, che prenderebbe il nome da gente dalla pelle scura che lo abitava. Vero o falso che sia, sta di fatto che questa porzione di Appennino ha una cultura omogenea al suo interno e diversa dalle zone di pianura e fondovalle a lei vicina. Fossimo in Francia, dove i dipartimenti sono associati a entità geografiche, ne costituirebbe uno e avrebbe il nome del Monte Lesima, la montagna più alta della zona, o dell'Alfeo, una montagna sacra già nell'antichità (in cima è stata trovata una statuetta pagana che raffigura un orante). Invece in Italia l'amministrazione è centrata nelle città, per cui questa zona è conosciuta come le Quattro Province (Alessandria, Pavia, Piacenza, Genova). Anche se adesso la val Boreca è inclusa nella Val Trebbia emiliana, il centro di riferimento è Genova: è nella città portuale che emigrarono quasi tutti, quando finì l'economia di sussistenza della civiltà contadina e venne l'ora di andarsene.
Il Sentiero del Postino unisce le cinque borgate poste nella parte superiore della valle: Artana, Bogli, Suzzi, Pizzonero e Belnome. Non c'è una strada che le unisce: le carrozzabili dei cinque paesi arrivano da tre zone diverse. Oggi le borgate hanno pochissimi residenti stabili. Vivere qui non è facile, perché si è lontani da qualunque servizio e centro di aggregazione. Tuttavia i paesi sono curati nella loro povertà, perché diversa gente vi trascorre il tempo libero. Molti sono emigranti o loro discendenti rimasti legati alla loro terra, ma ci sono anche genti di pianura in fuga domenicale dalla città.
Parto da Artana, che è il paese più comodo da raggiungere per chi arriva dalla Pianura Padana. Dove per comodo si intende con cinquanta chilometri di stradina stretta e tortuosa, dove il limite dei 50 è una freddura. Ci arrivo mentre il sole sta sorgendo. A fine ottobre le ore di luce sono scarse oramai: devo sfruttarle tutte se voglio percorrere il giro con calma. La valle è immersa nella nebbia, lascito delle piogge dei giorni scorsi. Gli abitanti, che stanno cominciando a uscire di casa, si sorprendono di vedermi. Anche io mi meraviglio di vedere quattro o cinque automobili al parcheggio, del resto. Non mi aspettavo proprio nessuno. Un cane pauroso mi abbaia e scappa, mentre dei gatti infreddoliti sembrano più indifferenti. Qualcuno ha sistemato per loro un cuscino su cui possono sedere.
Prima di partire faccio una puntata fotografica alla chiesa. Il primo soggetto che mi attrae è un furgoncino abbandonato tenuto in equilibrio da una pila di mattoni al posto di una ruota. Imbocco quindi il sentiero diretto verso Belnome; percorro il giro in senso orario per non dover fare la lunga salita dal Boreca ad Artana a fine gita, anche se sarebbe meglio quello opposto, per sfruttare al meglio l'insolazione dei versanti. I prati attorno al paese lasciano spazio in breve al bosco. Il sentiero si snoda interamente tra gli alberi, eccezion fatta per le radure attorno ai paesi. Per questo ho scelto la stagione delle foglie morte: i colori non sono ancora al culmine (ci vorrà ancora una settimana, a occhio), perché quest'anno i mesi di settembre e ottobre sono stati quasi sempre caldi; tuttavia già molti alberi hanno indossato tinte accese. Sul lato solatio riconosco noccioli, querce, carpini, aceri e ciliegi, mentre sul lato in ombra domina incontrastato il faggio. Nella foresta non mi preoccupo di scattare foto, perché ho ormai imparato che raramente questo soggetto si presta. Mi dedico invece ad ammirare lo spettacolo del foliage. Noto che diversi vecchi sentieri non segnalati si dipartono dal percorso principale. In montagna solo pochi sono stati recuperati e resi fruibili agli escursionisti, perché aprirli tutti richiederebbe un lavoro improbo di manutenzione. In questo bosco lontano dai paesi, nessuno raccoglie i rami caduti, che si ammassano sul terreno. I montanari chiamano “sporco” questo stato, con una connotazione chiaramente negativa. Questo però è il punto di vista del tornaconto umano, che si vede sfuggire un possibile bene. Lungi da essere una forma di saggezza secolare dei montanari, è una concezione di derivazione illuministica, che vedeva il bosco unicamente come riserva di legname, da sfruttare nel modo più efficiente e lungimirante possibile, con l'utilità umana come unico metro. (Non è sempre stato così. Ad esempio nel Medioevo la concezione dei boschi era completamente diversa: accanto ad aree gestite a beneficio della comunità, erano infatti previste zone inviolabili, che hanno lasciato tracce nella toponomastica attuale, in termini come bandita o gazzo). Per la natura le cose stanno un po' diversamente. Esiste un ricco ecosistema che prolifera sulla macerazione del legno. «Un tronco marcio: che tesoro! … Funghi neri e azzurri gli han dato orecchie, rosse piante parassite lo han colmato di rubini, altre piante indolenti gli han prestato le loro barbe e dalle sue fradice viscere sbuca, veloce, una biscia, come un’emanazione, quasi che dal tronco morto fuggisse l’anima…», scrive ad esempio Pablo Neruda, che nelle piovose foreste dell'Aurucania trascorse l'infanzia. Inoltre il legno marcio aumenta la fertilità della foresta: «Almeno metà del contributo di un albero al tessuto della vita giunge dopo la morte, quindi la misura della vitalità di un ecosistema forestale è la quantità di legno morto. Ti trovi in una grande foresta se non riesci a camminare dritto senza dover scavalcare grossi rami e tronchi caduti. Un suolo sgombro è segno di cattiva salute» scrive il naturalista David George Haskell. Il resoconto di un'escursione nella foresta primigenia della Terra del Fuoco, compiuto da Darwin e i suoi compagni del Beagle, ne è un buon esempio. Per quanto riguarda gli ospiti della foresta, esistono delle specie che prediligono i boschi curati dall'uomo, altre quelli incolti e altre ancora che sono indifferenti.
La mulattiera confluisce nel sentiero delle carbonaie, che corre parallelo al Boreca. In questo tratto gli alberi sono stati tagliati, perché ci passa la linea elettrica che serve Artana, per cui i cespugli hanno preso il sopravvento e invadono un po' il tracciato.
Arrivo alla strada asfaltata, supero il ponte e la risalgo verso Belnome. Scopro a mie spese che questo tratto di asfalto è molto più lungo di quanto ricordassi, dal mio primo passaggio qui quasi dieci anni fa. Ho notato che delle gite tendo a comprimere nel tempo i tragitti privi di interesse, di cui non serbo il ricordo della noiosità. Al passaggio successivo mi sorprende scoprire quanto ho rimosso. La strada corre proprio di fronte a Zerba e al Lesima, attorno alla cui cima le nubi vanno dissolvendosi. A Belnome non incontro persone, ma odore di legna bruciata e rumori di lavori in corso segnalano la presenza umana. Orti curati e un largo balcone attrezzato per momenti conviviali trasmettono un senso di attesa e sospensione: chi vive qui è costretto a lavorare lontano, ma non vede l'ora di tornare a casa e trascorrervi il tempo della cura di sé e degli affetti.
Per Pizzonero imbocco una mulattiera lastricata con lose, conficcate nel terreno di taglio. È la tecnica caratteristica di questa zona, che ha un nome che ho letto su un cartello ma ho scordato. Porta al cimitero e poi prosegue in lieve salita. Indosso il pile e nemmeno l'ascesa mi scalda abbastanza da renderlo fastidioso. Il sole resta nascosto dalle nubi che si addensano attorno all'Alfeo. Non che ne verrei scaldato più di tanto, perché il pendio esposto a ovest è ripido e resta in ombra per tutta la mattina. Solo i paesi sono su poggi aprichi, mentre il resto del tragitto è ombroso, non solo per i faggi. Alcuni castagni monumentali solitari ricordano un'epoca in cui questo versante era addomesticato dall'uomo per produrre cibo. Con l'abbandono, il bosco sta tornando al suo climax naturale.
Terminata la salita, segue un tratto in quota, dove il sentiero è bordeggiato da alcuni faggi secolari, spesso coperti di muschio. Già avevo notato un po' di rami caduti di recente, ma qui la situazione è ben più grave. Un faggio monumentale è stato sradicato e da un altro è stato strappato via un pollone, finito in mezzo al sentiero. Probabilmente è stata la tramontana di burrasca di una settimana fa. Mi mette sempre tristezza quando muore un vecchio albero: mi viene da considerarli come eterni e immutabili, mentre anche loro hanno un ciclo vitale come il mio, solo più lungo. Chissà se i cani e i gatti hanno la stessa percezione dei loro padroni umani. Persino le montagne un giorno spariranno, consumate dall'erosione.
Pizzonero è deserto, ma sorvegliato da occhiute telecamere. Aspetto che il sole si faccia largo tra le nubi per fotografarlo. Le case sono tutte tenute ed è stata anche ricavata una piccola area di socializzazione attorno a un ippocastano monumentale, in cima al paese. Anche qui questa specie soffre di quella malattia che ne fa ingiallire precocemente le foglie. Vicino al paese una frana preoccupante incombe sulla strada, pur senza invaderla. Il successivo oratorio di san Bernardo è sempre il luogo incantevole che ricordavo. La strada procede in quota superando diversi impluvi; da alcuni scende un rivolo d'acqua. Tra le fronde del bosco vedo Pizzonero baciata dal sole. Le nuvole si sono quasi dissolte, ma il pendio troppo ripido mantiene lo stesso il tragitto quasi tutto in ombra. Il pile che ho riposto nello zaino, al sole di Pizzonero, potrei anche rimetterlo.
Dopo il bivio per Suzzi, noto nella stradina delle fatte di vacca, che vanno aumentando nella dissestata mulattiera che porta alle poche case del paese. Vado a mangiare su un muretto al sole accanto al cimitero, da cui ammiro il paese e la valle boscosa.
Mentre me la sciallo nel tepore del mezzogiorno, dal fondo del prato ai margini del paese spuntano due mucche obese e un vitello. Puntano verso di me senza incertezze, arrivando fin sotto il muretto. Quella nera estrae la sua lingua viscida, a cui sono appiccicati degli insetti, e sembra avere tutta l'intenzione di ficcarla nel mio zaino. Batto allora in ritirata e mi rifugio al centro del paese, nei pressi di una fonte, dove incontro un residente stabile. Con il suo accento genovese annacquato, mi spiega che si impegna con i residenti stagionali a tenere in ordine la borgata. Naturalmente le è molto legato, essendo originario di qui. Anche i suoi figli amano tornarvi, per quanto gli impegni lo permettano loro; questo mi fa ben sperare per il futuro, che in questi posti dimenticati è sempre più precario che altrove. Risponde volentieri alle mie domande e, notando il cavalletto e la borsa fotografica, ne pone lui a me. Di solito, le persone che incontro in questi borghi isolati, sono molto chiuse e fanno fatica a biasciare un buongiorno, oppure hanno un bisogno atavico di socializzazione e non la smettono più di parlare. Questo invece sembra avere un suo equilibrio, perché scambia volentieri quattro chiacchiere, ma non si dilunga oltre il necessario e torna alle sue incombenze.
Intanto una mucca scende in paese dai prati soprastanti e viene a bere alla fontana, per poi riprendere a gironzolare tra le case. Mi rimetto in marcia, diretto al mulino accanto alla cascata del Boreca. Il sentiero in un punto è interrotto da una frana, ma la si riesce ad aggirare dal basso. Non faccio molto caso al paesaggio, perché sono già concentrato sul piccolo angolo fiabesco che mi aspetta. Ascolto avvicinarsi il rumore dell'acqua che precipita, finché me la trovo di fronte. È l'attrazione naturalistica della gita: il placido Boreca scende da un salto roccioso di un paio di metri e plana morbidamente in un laghetto, sbarrato da un cordone di ghiaia. Accanto alla cascata ci sono i resti del mulino, tra cui è ancora visibile la macina, mentre a monte si può individuare il percorso della canalina scavata nella roccia che lo alimentava. Anche se sono appena ripartito, una nuova lunga sosta mi attende, non solo per fotografarlo con tutti i crismi.
Quando è il momento di rimettermi in moto, ancora torno indietro una volta a contemplare la pace. Varcato il Boreca su un ponte in cemento, il sentiero vi corre parallelo, fino ad aggirare una dorsale, dopo cui scende a un torrente che va guadato, senza difficoltà. Ci sono anche i resti di una passerella, ma non sono invitanti. A monte del guado c'è una pozza smeraldina. Ora devo affrontare la principale salita della camminata. I miei ricordi sono di un sentiero ripido e senza spunti; il nuovo passaggio li conferma. Solo i colori autunnali rendono gradevole il tragitto. Salgo a passi molto misurati, per non colare di sudore.
A Bogli vedo solo due turisti a spasso. L'altra volta avevo invece incontrato una signora emigrata a Genova, che trascorreva qui l'estate con la vecchissima madre. Mi aveva raccontato di quando andava a ballare a Belnome e tornava nel cuore della notte. Bogli è legata a doppio filo alla musica: è la capitale locale del canto polifonico ed è la terra d'origine dei Toscanini (il nonno di Arturo nacque qui). Alla luce del sole, che sta per sparire dietro il Monte Carmo, faccio merenda, senza però consumare tutta la tisana del termos, di cui conservo un sorso per il giro fotografico ad Artana, che mi aspetta dopo l'arrivo: prevedo freddo.
Per tornare alla frazione di partenza, la cartina del CAI di Piacenza e le tacche biancorosse danno indicazioni contrastanti. Mi fido della cartina, perché salendo ho visto l'imbocco del sentiero. Scopro che non è segnalato, ma qualcuno passa lo stesso: sopra una frana inerbita c'è un'evidente traccia e una farnia caduta, che lo ingombra, è stata sommariamente sfrondata per ricavare un passaggio. Dopo cinque minuti confluisco sul sentiero segnalato, che corre più in alto. Del percorso fino ad Artana non c'è molto da segnalare, se non che si passa accanto a una casa molto isolata, dove fino a pochi anni fa visse un vecchio conosciuto come Nito. Oggi è tutto chiuso, ma la casa non sembra completamente abbandonata, perché al piano terra ci sono delle taniche piene di acqua limpida.
Quando arrivo ad Artana, il sole è molto basso e tinge di arancione solo le vette dell'Alfeo e del Lesima. I gatti sono sempre tutti raggomitolati dove li ho lasciati stamattina. Gli abitanti sono rintanati in casa. Poso lo zaino nel baule, indosso pile e guanti e vado a fotografare la chiesa con il suo viale di tigli, nella luce crepuscolare. Compiuta la missione, salgo in auto. Arrivo a Capanne di Cosola giusto in tempo per vedere il sole tuffarsi dietro le Alpi. Da qui sono così lontane, che la piramide del Monviso è un brufolo.
Per approfondire
- L'Appennino delle Quattro Province
- M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018
- D.G. Haskell, La foresta nascosta, Torino 2014
- H. Küster, Storia dei boschi, Torino 2009
- L. Marello-S. Cariani, Quando un albero muore in piedi, Piemonte Parchi
- C. Menta, Guida alla conoscenza della biologia e dell'ecologia del suolo, Bologna 2008
- R. Pogue Harrison, Foreste. L'ombra della civiltà, Milano 1992
- E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
- M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018