Conca delle Carsene
Alpi Liguri
9 luglio
In un baleno
Geomorfologia, cascate, fioriture, cervi, saraceni e naturalmente Frank Zappa
Diario di viaggio
La Conca delle Carsene è una vasta conca calcarea di escavazione glaciale, successivamente rimodellata dall'erosione meteorica delle sue rocce calcaree. Si trova nel cuore delle Alpi del Mare sulla displuviale tra la val Pesio (versante padano) e la val Roya (versante marittimo). La conca è una meraviglia non solo per le forme geomorfologiche, ma anche per le fioriture di inizio estate, sia perché il calcare genera un terreno molto fertile, sia per l'eccezionale biodiversità floristica di queste montagne.
L'anello attorno alla conca, con salita dal versante nord, è un giro molto lungo, con dislivello non eccessivo ma molte ore di cammino, tecnicamente non difficile; soprattutto però è denso di motivi di meraviglia per un escursionista, anche non competente (un'introduzione divulgativa alle geomorfologie carsiche richiede almeno un capitolo di un libro). Il tratto dal passo del Duca al colle Scarasson richiede buona visibilità, per la labilità della traccia e le parche segnalazioni. Trovare giorni estivi senza risalita di nebbie non è frequente, data la vicinanza al mare, ma nemmeno impossibile.
Tutto questo camminando in superficie: questi monti sono però più rinomati tra gli speleologi, gli alpinisti al contrario, per la fitta rete di cunicoli ipogei che vi corre dentro. Questo aspetto travalica però le mie competenze e i miei interessi.
Nonostante sia inizio luglio, a causa del passaggio di un fronte freddo, al mattino la piana è immersa nella nebbia, che, dissolvendosi intorno a Carmagnola proprio mentre sorge il sole, si tinge d'oro. Solo il fruttivendolo esce di casa prima di me: arrivo perciò a Pian delle Gorre prima che si attivi il gabbiotto per il pagamento del parcheggio e prima che apra il rifugio, dove in alternativa posso saldare il conto. Devo pertanto aspettare una mezz'ora nella frizzante e umida aria prost-frontale, che richiede almeno un pile, ammirando il profilo dantesco del Marguareis. Il primo caffè è il peggiore, sa di orzo bruciacchiato.
Riempite le due borracce, per un totale di 3 litri (oggi il sole picchierà tutto il giorno e non prevedo di trovare acqua per la maggior parte del giro), mi avvio per la militare del passo del Duca, in graduale salita. La sua costruzione fu abbozzata, ma interrotta per l'aggressione alla Francia; oggi, a parte questo primo tratto è rimasta la mulattiera, che giunge fino alla Colla dei Signori e di cui al ritorno percorrerò il tratto finale. Cammino in un bosco di abeti bianchi, aceri di monte e faggi, prosperosi e fittamente coperti di muschio, grazie all'elevata piovosità della valle, posta nella zona di convergenza tra l'umidità padana e quella marittima. Questi abeti erano coltivati dai monaci della vicina Certosa, in quanto legname da costruzione. Per via dei precetti del proprio ordine, una riforma della Regola benedettina che poneva l'accento sull'ora (prega), i certosini vivevano in luoghi isolati dal mondo, dove non si rischia di imbattersi nell'abbazia, a meno di sbatterci il naso contro, e si sostentavano con attività silvio-pastorali.
Prima lasciare la strada, dove termina in un piazzale con delle auto parcheggiate, e diventa mulattiera, faccio una puntata alla cascata del Saut, seguendo il ripido sentiero di accesso. Ormai i nevai sono fusi e la portata non è copiosa, nonostante la pioggia di ieri, ma valuto comunque che potrebbe valere la pena di venirla a fotografare in una notte di luna, e anche in una senza, quando a giugno l'arco della Via Lattea dovrebbe essere proprio al di sopra. Prima di quella principale ce n'è una minore, che tutto sommato è esteticamente più intrigante, essendo formata da molti rivoli.
Sul sentiero salgo più ripidamente, sempre nel fitto bosco. Strappo una foglia di aglio ursino, sperando ottimisticamente di attrarre l'attenzione del figlio adolescente di una conoscenza di gioventù da cui andrò a cena stasera. Raggiungo lo spiazzo del Gias Sottano di Sestrera, interamente occupato da vegetazione nitrofila. Mi supera un trentenne a velocità doppia. Rientro nel bosco, ora a prevalenza di faggi, dove mi imbatto in una piazzola dei carbonai e costeggio il torrente, per poi valicarlo e guadagnare quota rispetto ad esso. Sbuco quindi tra prati con alberi isolati, alternati a bosco meno fitto, dove sento i campanacci delle vacche, senza però riuscire a scorgerle.
La valle si restringe, poco prima che raggiunga una zona con dei grandi massi-giardino colonizzati da fioriture, dove trovo il bivio per il passo del Duca, che devo seguire invertendo la direzione di marcia quasi ad angolo piano, mentre questo sentiero mantiene la medesima, correndo vicino al fondo del vallone, fino al laghetto del Marguareis. Mi trovo al di sotto delle pareti rocciose della cima più alta del gruppo, sotto cui colano grandi quantità di detriti fini in ghiaioni di tipo dolomitico. Gli alpinisti amano salire questi canaloni in tarda primavera, quando sono più accessibili grazie alla neve dura trasformata. Una volta sgombri, invece, quando il fondo è di nuda ghiaia, la risalita è una faticoso arrancare su terreno franoso, scendendo di un passo per ogni due che si fanno in salita.
Faccio una pausa per la crema solare e uno spuntino, ascoltando il fischiettio di un pastore di pecore nere, che con buona tecnica intona un motivo a me ignoto. Riprendo a salire sul sentiero che taglia i ghiaioni vegetati da erba e cespugli di mughi, o pini uncinati prostrati che siano, alzandosi rispetto al fondo del vallone. Il pastore si è sistemato qualche decina di metri sopra il sentiero: provo a salutarlo, ma non si accorge di me. Già uscito dal bosco avevo notato il Gran Paradiso a le cime circostanti oltre la pianura. Ora compaiono l'intera catena del Rosa e il Cervino, molto nitidi nonostante la distanza, grazie al fronte freddo di ieri, che ha sparso una spruzzata di neve su di loro.
Raggiungo un cembro dritto come una freccia e solitario, che ricordo di avere fotografato all'aurora una decina di anni addietro, dopo aver risalito alla luce della frontale la mulattiera del Duca, osservato da esterrefatti caprioli. Mi stupisco del fatto che questo cembro sia così lontano dalla mulattiera e non visibile da essa. Lo conoscevo già prima? Scesi fin qui alla ricerca disperata di un buon primo piano? Tutti dettagli cancellati dai ricordi. Ancora una breve salita tra fioriture sempre più lussureggianti, che ben promettono, e ritrovo la mulattiera del Duca, sotto le verticali pareti dell'omonima Testa, una cima davvero fascinosa vista da questo versante. Oltre a questa c'è pure un gendarme nei pressi del colle, a cui arrivo di lì a poco, tra un nugolo di mosche. Il passo non aveva un nome sulle carte più antiche; è ignoto se sia legato a qualche nobile dei tempi passati o se sia una corruzione di qualche termine dialettale di qualcos'altro: ad esempio gufo e dosso sono due possibilità.
Mi fermo a bere e a guardare il Rosa e il Cervino con il binocolo. Da qui si vede l'arco alpino dalla valle di Viù (il Rocciamelone è nascosto per pochissimo) fino alla Gnifetti. Anche se mi sono affacciato sulla conca, non è che ne veda molta, a causa di una dorsale rocciosa che chiude la vista: sono visibili solo la quasi piatta dorsale al confine con la val Roya, e la Testa di Murtel, erbosa su questo lato e verticale verso valle. Non posso invece non notare la statua di Padre Pio che qualcuno ha sistemato in una nicchia. Mi è oscuro cosa c'entri costui con la cultura della montagna e i suoi santi protettori.
Seguo in discesa la mulattiera fino al primo tornante, da cui si stacca il percorso fuori sentiero diretto al colle Scarasson. Il percorso ondeggia tra rocce calcaree e magri fazzoletti erbosi. Fino all'avvallamento del margine superiore della conca, da cui mi affaccio sul rifugio Garelli, una pur minima traccia esiste. Nei pressi di questa finestra devono aver fatto il nido i gracchi, perché al mio passaggio si sgolano mi osservano minacciosi.
La traccia scompare e devo fare attenzione solo alle scolorite tacche e agli ometti, costruiti da qualche benemerito. Il percorso qui fa una secca svolta verso l'alto, lasciando in basso delle placche candide. È senz'altro qui che perdemmo la retta via la prima volta che venni qui con un gruppo di amici. Finimmo sulle placche, che per fortuna non ponevano ostacoli al cammino.
Ho finora tralasciato il dettaglio più appariscente del paesaggio della conca: i fiori. Non solo sono tanti, ma anche di tantissime specie diverse, quasi tutte mai viste. Questa zona ha una biodiversità prorompente: in questo settore delle Alpi è concentrato quasi lo stesso numero di specie vegetali dell'intera Germania, oltre 2500. Tale concentrazione è dovuta sia a fattori climatici che storici: da un lato, la vicinanza al Mediterraneo delle vette moltiplica i microclimi e quindi le condizioni ecologiche, ancor più del solito che in montagna (i vegetali non nascono in posti a caso, ma solo in ben precise condizioni edafiche e climatiche); dall'altro, queste zone fecero da rifugio per molte specie durante l'alternanza tra ere glaciali e interglaciali.
Frank Zappa scrisse un assolo di batteria talmente denso che poi lo intitolò “The Black Page” (la pagina nera), per l'effetto che faceva la vista dello spartito. In un concerto adoperò l'espressione “densità statistica” per descriverlo: non saprei coniarne di migliori per indicare la concentrazione e la varietà di forme e colori che sto calpestando.
L'esplorazione botanica moderna delle Alpi Liguri e Marittime prese avvio per opera di Carlo Allioni (1728-1804), a cui si deve l'introduzione in Piemonte della nomenclatura binomiale di Linneo, di cui era corrispondente. Curiosamente, questi, come molti suoi collaboratori e successori, erano medici o farmacisti, perché, in assenza di una chimica sviluppata, i vegetali erano l'unica fonte di sostanze chimiche di possibile utilità medicinale.
Nel XIX secolo il paesaggio di queste montagne, come di tutte le Alpi, cambiò radicalmente per l'assalto alla montagna dovuto all'incremento demografico, che addomesticò quasi ogni possibile territorio. Negli stessi anni, si affacciarono i botanici stranieri, il cui accesso fu facilitato dalla nascita degli stabilimenti termali alpini e dallo stabilirsi della nobiltà europea in Costa Azzurra. Il più importante di questi botanici fu senz'altro lo svizzero Ḗmile Burnat (1828-1920), che dal 1870 cominciò a interessarsi della zona. I suoi lavori furono raccolti nella Flore des Alpes Maritimes, pubblicata in sette volumi tra il 1892 e il 1931, a cui si deve il merito di aver riconosciuto per la prima volta le Alpi Marittime come unità botanica, oltre i confini politici. Sempre in viaggio con i suoi collaboratori, setacciò queste montagne davvero palmo a palmo, spesso in maniera avventurosa, e annotò scrupolosamente i luoghi di raccolta, descrivendo minuziosamente i luoghi attraversati nei suoi appunti.
Negli stessi anni emerse anche la figura dell'inglese Clarence Bicknell (1842-1918). Di ricca e anticonformista famiglia, lasciò anche una collezione di dipinti delle specie osservate e si distinse anche per l'attenzione alle condizioni di vita delle popolazioni locali (fu etichettato come sovversivo dalla polizia italiana). Scrive La Sentinella delle Alpi, giornale di Cuneo, il 2 agosto 1888: «Un distinto signore inglese, certo Clarence Bicknell, che anteponendo all’umido nebbia del Tamigi il bel cielo d'Italia in genere, a le fresche e salutari aure di San Bartolomeo di Chiusa in specie, si era qui portato a villeggiare, faceva ieri l'altro una visita all'Asilo infantile di questa frazione, in unione al signor Gastaldi, offrendo L. 100 a benefizio dell'istituto». In una lettera a Burnat, descrisse con ammirazione a stupore le fatiche dei valligiani e le tecniche agricole da essi inventate per addomesticare l'aspra natura. Come Burnat, condusse una vita frugale a contatto con la natura, disprezzando gli agi della sua colonia di connazionali della Riviera, che non mancò di scandalizzare. Si appassionò anche alle incisioni rupestri del monte Bego.
L'esplorazione si è perpetuata fino ai giorni nostri. Per permettere una conoscenza anche ai turisti il parco ha creato due stazioni botaniche. La prima, intitolata a Burnat e Bickenll, si trova a pian del Lupo, nei pressi del rifugio Garelli; si trova su un piccolo dosso all'interno di una zona umida, dove in pochi metri si possono osservare comunità floristiche molto diversificate. La seconda, intitolata a Danilo Re, un guardaparco prematuramente scomparso, si trova invece in una zona rupestre presso il laghetto del Marguareis, al confine tra due tipi di substrati diversi (quarziti silicee e detriti calcarei).
Dopo la finestra, la traccia scompare e devo ogni volta fermarmi meditabondo a ogni tacca o ometto, per capire dove possa essere il successivo. Tutto sarebbe più lineare, se solo ricordassi che devo puntare verso un evidente intaglio roccioso, dove troverò una gran fioritura di camedrio alpino. Di lì ho una buona vista aerea sulla conca, adatta a una foto, in cui compare anche il lontano Monviso, nel frattempo sbucato dalla Testa di Murtel. Ancora un po' di caccia alla tacca e sono al colle, presso cui sta pascolando un gregge di pecore, che anche stavolta sento senza vedere.
Al colle un vento non freddo mi ricorda che è meglio bere, per evitare la disidratazione. Dall'altro versante vedo una paesaggio calcareo abbastanza simile a quello ammirato finora, se non fosse per le moto in transito sulla Via del Sale, la strada militare che dal colle di Tenda scende fino al mare, ed è aperta ai fuoristrada. Devo assolutamente evitarla, trovando la mulattiera che, secondo la carta, corre a monte. Scendo seguendo un segnavia minio; in lontananza vedo un cartello in quello che dovrebbe essere il bivio cercato, a cui vado incontro seguendo tracce di bestiame, che mi risparmiano della discesa. Tra dossi erbosi mi ricongiungo al sentiero.
Il sentiero transita sotto punta Straldi, che potrebbe essere una meta dell'escursione, in un ambiente carsico molto bello. Quando venni la prima volta, a capo del gruppo c'era un coetaneo, una cara persona poi morta tragicamente in un incidente stradale dai contorni surreali, dopo un travagliato percorso di vita. Di quel giorno ricordo anche che, arrivati al passo del Baban, si accorse che per tornare al passo del Duca avrebbe dovuto farci risalire di 150 m. Temendo che lo impalassero, in ossequio alla probabile intitolazione ai Saraceni del colle, con una carta IGC improvvisò la discesa che farò anche oggi, di cui però non ricordo assolutamente nulla, nemmeno la cascata del Pesio, uno dei miei posti preferiti delle Alpi. Ricordo poi anche che quel giorno c'era una finale interministeriale di calcio, in cui era coinvolta l'Italia, per cui la domenica sera la Torino-Savona era deserta come dopo un attacco atomico. Lui era unvettaiolo e quel giorno passammo perciò dalla cima. Il mio ricordo è che con uno zig-zag la raggiungemmo dal sentiero, ma evidentemente è un falso ricordo, perché ci sono quasi 100 m di dislivello tra qui e lassù. Mi sembra di individuare il passaggio di quel giorno, ma ho un'altra Weltanschau, per cui cerco invece una conca silenziosa dove pranzare, temendo di trovare le moto alla Colla Piana, chiamata dai montanari colle di Malabrega.
Non troverò invece anima viva, solo il cippo di confine. Saluto la val Roya e passo a pochi metri da Capanna Morgantini, un rifugio degli speleologi. Il giorno della finale era aperta e chiedemmo un tè agli occupanti. Scoprii poi a spese della mia gola una tipica usanza piemontese, le zollette di zucchero immerse nell'alcool puro.
Ritrovo la mulattiera del Duca, che proprio qui si congiunge alla Via del Sale. La Regione sta conducendo dei lavori di ampliamento, per renderla di più facile fruizione alle MTB e alla ebike. Seguo la stradina, che scende dolcemente tagliando il pendio. Il paesaggio carsico della Conca qui è assai fascinoso e mi invita ripetutamente a scatti, fino al gias dell'Ortica dove la lascerò. Devo assolutamente tornarci in una notte di luna piena. Lunare è l'aggettivo più sprecato per questi paesaggi, ma con i prati verdi e i fiori mi sembra inappropriato: il paesaggio non è certo deserto e desolato. Di notte, invece, quando tutto appare argentato, sarebbe perfettamente adeguato. In più oggi si aggiungono delle Parnassius apollo e delle vanesse dell'ortica, due specie di farfalle che fanno di tutto per farsi fotografare da vicino e alla fine ci riescono.
Dove termina il lavoro della ruspa, oggi a riposo, è evidente l'opera di spianamento condotta. Ci trovo dei ragazzi con grandi zaini, magari degli speleologi diretti a Capanna Morgantini. Con lunghi serpeggiamenti, arrivo al gias dell'Ortica, dove lascio la mulattiera e punto al passo del Baban, il punto più basso della Conca. Il nome deriva forse da torrioni visibili una volta qui sotto, quando il bosco era meno fitto. Richiama però anche i babau (spauracchi) per eccellenza, i predoni saraceni che nel X secolo saccheggiarono ripetutamente queste valli. Una tradizione vuole che dal colle di Malaberga e da qui transitasse una via romana e che i Saraceni vi fossero transitati mentre andavano a distruggere l'abbazia di Pedona, fondata tre secoli prima nientepopodimeno che dalla regina Teodolinda, dedicata al san Dalmazzo che oggi dà il nome al paese. In quel caso le orde si divisero in due: una scese dal colle di tenda (allora detto monte Cornua), l'altra da Chiusa Pesio «per collem de ardua» (per un colle attraverso luoghi scoscesi, oppure un riferimento ad Ardua, villaggio tuttora esistente presso la certosa). Facendo due più due…
Peccato che tale tradizione sia il frutto della fantasia di un prete settecentesco di Sambuco, Giuseppe Francesco Meyranesio. Egli fabbricò vari documenti e li trasmise a storici e scrittori con cui era in corrispondenza. La storia però è bella: immaginare di essere sulle tracce di feroci predoni, «gens pessima […] in multa turba irruens» (popolo tremendo che irrompe con gran turba), recita sempre il documento farlocco, distruttori di quanto di buona esisteva in quei secoli aspri, in un passato remoto e oscuro mi affascina e solletica. Trascuro pertanto la verifica delle fonti e condivido la storia, come si suole fare in questi casi.
Mi affaccio su un precipizio, che il sentiero aggira con un lungo traverso, rimanendone sempre sull'orlo, schiacciato tra picchi rocciosi e alberi pionieri, mughi e faggi, attraversando frequenti zone umide. Vedo anche qualche nigritella, una rara orchidea rossa. Il sentiero non è molto segnalato, ma è davvero difficile perdersi, perché ci si accorgerebbe subito dell'errore affacciandosi sul dirupo o precipitandovi dentro al passo successivo.
Ad ogni modo arrivo al bivio per il gias Vaccarile con la gola riarsa, nonostante fossi all'ombra e avessi già bevuto al passo del Baban. Imbocco il sentiero che scende, evitando per quanto possibile la faggeta. Quando la raggiungo, mi fermo al fresco dell'ombra per una pausa. Mancano 250 metri alla cascata del Pesio, una mezz'ora molto gradevole in faggeta mista non continua, con gigli martagoni, tra i canti degli uccelli e l'apparizione di una guizzante coda di scoiattolo.
Guardando la cascata dal ponte, in base ai ricordi ho la netta impressione che le rocce siano state pelate dal muschio che le copriva, forse un effetto dell'alluvione che ha colpito questa zona lo scorso autunno, devastando in particolare la zona del colle di Tenda, di cui ha distrutto la strada. Perlomeno ha risparmiato questo ponte, altrimenti sarebbe stata grigia.
Bevo alla sorgente del gias Fontana e proseguo verso l'Osservatorio Faunistico, prima del quale incontro un signore con un cane, anche se qui sarebbe vietato, per non disturbare gli animali. L'osservatorio è infatti un'area delimitata da reti in cui il Parco alleva dei cervi, che sono sempre molto turistici nel loro proporsi ai passanti. Solo il maschio adulto è schivo. Mentre sto fotografando, un guardaparco entra nel recinto, prontamente seguito da tutti gli animali, che così si dileguano.
Un cartello segnala che il sentiero è ostruito da frane e invita pertanto a seguire la strada. Al capo opposto hanno del tutto rimosso l'indicazione per l'Osservatorio. Seguo quindi la strada, più panoramica del sentiero a bordo torrente, accanto alla quale è stata sistemata una panchina con vista sul picco aguzzo del monte Bartivolera. Se non fossero quasi le 19 e non fossi atteso a cena, mi fermerei volentieri una mezz'ora in contemplazione.
Superato il Pesio su un ponte, attraverso una spettacolare abetaia accanto al copioso torrente, per l'ampia pista risalgo fino a Pian delle Gorre, dove il sole sta per tramontare. Offro una seconda chance alla macchinetta del caffè, che dopo una giornata di lavoro produce risultati decisamente più apprezzabili.
Il figlio della mia conoscenza, un adolescente in fase divanara, non sembra particolarmente impressionato dalla foglia di aglio selvatico. Riscuoto più successo con il gelato, di cui ho selezionato accuratamente ad uno ad uno i gusti più depravati, come mio solito: panna cotta, biscotto, nocciolato e altri che non ricordo, ma potrebbero essere fichi caramellati con ricotta o cose del genere. La cena etnica addomesticata scorre piacevolmente, fino a quando non mi devo sganciare a malincuore, al principio della breve notte solstiziale.
Per approfondire
- Marguareis per viaggiatori, Peveragno 2000
- M. Di Maio, Vaíi, gias e vaŝtére, Torino 1988
- P. Perron, I Saraceni in Piemonte, in Provenza e nelle Alpi del X secolo, Pinerolo 2009
- Zappa plays Zappa, The Black page #1 & #2
- M. Di Maio, Vaíi, gias e vaŝtére, Torino 1988