L'elmo di san Magno
Val Grana
15 ottobre
In un baleno
Dèi, regine, soldati e ciucchi sulle creste erbose della val Grana
Diario di viaggio
Entusiasmante escursione di cresta, sui crinali erbosi dell'alta val Grana, una zona ricca anche di rimandi storici. Questa valle singolare, chiusa tra Maira e Stura e priva di contatto con la catena alpina al confine con la Francia, non termina contro una barriera di roccia o del sempre più raro ghiaccio, ma su un altopiano dove sono state trovate orme di dinosauri. È per certi versi più appenninica che alpina, sia per le numerose borgate nascoste disperse tra le pieghe dei versanti, sia perché consente di marciare agevolmente lungo i propri confini naturali, in parte lungo sentieri militari, in parte su tracce di escursionisti.
La gita parte dal santuario dedicato a san Magno, culto sovrapposto a tradizioni precedenti, anche precristiane, come testimonia un'arula dedicata a Marte e conservata nel porticato della chiesa. Questo retaggio romano è poi vivo in alcune etimologie fantasiose che hanno attribuito un'origine latina ad alcuni nomi di cime.
Il percorso sale sul crinale dell'ubac e lo segue fino alla testata della valle, dove passa su quello dell'adrech, fino a portarsi a monte del santuario, per raggiungerlo infine. Vista la lunghezza, nella stagione scelta le ore di luce sono contate, ma d'altronde a d'estate l'insolazione e il caldo richiederebbero imponenti scorte d'acqua, senza contare che i giorni senza risalita di nebbie non sono frequenti: i nomi delle cime prima delle discesa lo ricordano.
L'escursione non parte sotto i migliori auspici: mentre guido nel buio della notte lungo il rettilineo tra Villafalletto e Busca, nella piana cuneese, un piccolo animaletto mi attraversa la strada e si pianta proprio di fronte a me paralizzato dagli abbaglianti, che fissa immobile. Non ho neppure il tempo di passare il piede destro dall'acceleratore al freno; l'impatto è inevitabile e fatale. Per la forte luce, non sono neppure riuscito neppure a capire di che specie fosse: la prima impressione era stata di uno scoiattolo, per le dimensioni minime e la lunga coda, ma non li ho mai visti girare di notte. Dopo ho pensato a un gattino.
Il suo comportamento, purtroppo, è stato del tutto controproducente e anticonservativo, perché se avesse proseguito per la propria strada non gli sarebbe successo nulla. L'evoluzione naturale non ha previsto i fari di un'automobile lanciata a 90 km/h e non ha generato istinti di sopravvivenza. D'altronde, per tutto il viaggio avevo riservato la stessa sorte a molti insetti, che a differenza dei gatti, stanno pure diminuendo di numero. Per questa mia passione per le escursioni e a maggior ragione per la fotografia notturna, non potrò mai essere coerentemente vegetariano, perché vi dovrei rinunciare.
Chissà se la natura metterà in atto strategie di difesa: le nostre città e gli ambienti artificiali da noi creati hanno già innescato un meccanismo evolutivo che ha portato le popolazioni urbane a differenziarsi dai cospecifici rurali, per morfologia, dieta, resistenza ai predatori, comportamento, riproduzione, strategie di migrazione, in risposta al nuovo habitat. In parte le modifiche sono dovute alla plasticità del fenotipo, cioè all'espressione dei geni, come quando acquisiamo muscoli facendo attività fisica, ma ci sono già molti casi documentati di effetti sul genoma, quindi di vera evoluzione darwiniana.
Con gli occhi lucidi per la mestizia raggiungo Caraglio, già in via di animazione, ne attraverso lo stretto budello che di sera pullula di vita sociale e ai primi chiarori risalgo la valle, prima per l'ampio fondovalle con i paesi e poi per le gole boscose. Le nuvole basse che sovrastano la pianura si arrestano magicamente poco prima del santuario. Faccio un tentativo di parcheggiare a Chiappi, ma poi mi sembra ineducato ficcarmi a casa di qualcuno, per cui ripiego sul comodo piazzale del santuario, dove sono tra i primi ad arrivare, mentre il sole sta per illuminare le cime più alte. Tra queste spiccano le pareti delle rocche Parvo e Parvetto, tinte di arancio dalla prima luce mentre mi avvio. Curiosamente quella con il diminutivo è più alta della prima, ma da qui appare più piccola e in secondo piano. A proposito del fascino alpinistico della seconda la Guida ai Monti d'Italia recita che «si affaccia sull'alta Valle Grana con l'imponente eleganza dolomitica della sua parete NE, coronata da una dentellata cresta che cade sul valloncello Parvo con un'ardita Torre NO». Sempre secondo questa fonte, il nome è di derivazione ligure e indica proprio il loro aspetto turrito, come si presenta da qui.
Intanto stare all'aria aperta in questa giornata limpida ha risollevato il mio umore. Tra spari di fucile, scendo a Chiappi lungo un impluvio dove un rio è regimentato con opere di captazione e canalizzazione. Mentre mi avvio verso un passaggio voltato tra le case, un cane sporge il muso tra un rustico portone ligneo e uno stipite e abbaia furiosamente verso di me. Un montanaro sulla sessantina esce da un antro e lo zittisce, per poi chiedermi della meta. Incerto se sarò all'altezza dei miei propositi, anche perché non ho trovato da nessuna parte dati sulla lunghezza e il dislivello del giro, gli rispondo indicando solo il primo colle dell'anello. Vedendo le nuvole poco sotto, mi dice che potrebbero risalire, ma solo nel pomeriggio: quanto sono romantici quassù nel fare ancora le previsioni in base all'esperienza pregressa e alla consuetudine, anziché con i supercomputer Cray di Reading, che prevedono per oggi cielo limpido e vento in quota.
I cartelli in paese indicano in 5.30 ore il tempo per il colle Fauniera per la via prescelta, dal colle Viribianc: al ponte avrò delle titubanze, vedendo che potrei ridurre puntando direttamente da Rocca Parvo, ma sceglierò di restarvi fedele e di percorrere interamente la cresta, ritenendola senz'altro più spettacolare. Come dice Clint, se risparmio il fiato un tipo come me ce la può fare. Incrocio dei cacciatori con figli adolescenti, che scrutano i cespuglieti dell'ubac con il binocolo.
Dalla sterrata ammiro il santuario, che frattanto è stato raggiunto dal sole, ma soprattutto le gole subito a valle, dove riesco a fotografare le nuvole basse mentre si vanno dissolvendo. Raggiungo intanto dei vitelli di razza piemontese, che al mio arrivo si mettono in allarme e si allontanano. Non so se ad ottobre sia abituale che si trovino ancora nei pascoli in quota, forse il caldo protratto (lo zero termico resta ben sopra i 3000 m), accoppiato alle piogge che hanno inverdito i prati, hanno motivato i pastori a restare. Questo versante è però un po' magro per loro, perché l'erba cresce tra cespugli di ontano e rododendro.
Contro ogni previsione, alle 8.45 sono già raggiunto dal sole e mi devo togliere i guanti e mettere in maglietta. Già da un po' mi sembrava di aver bucato l'inversione termica, ma ora fa proprio caldo. Lasciata la sterrata, risalgo un prato devastato dal passaggio dei bovini, cercando di indovinare la traccia giusta tra le molte presenti. Il terreno non è più riarso e polveroso come a luglio, anzi è persino un po' morbido, ma il fango è un'altra cosa. Transito a monte dell'edificio dell'alpe, rifatto con materiali moderni. Continuando nell'ascesa, alterno zone di prato ad altre con brughiera di rododendri e passo ai piedi di un picco bianco molto carino, che potrebbe essere la Cima Viribianc.
Dopo una ripida salita tra ontani, sbuco nella conca che precede il colle, dove metto in fuga un camoscio. Per sua fortuna sono imbelle, mentre i cacciatori stanno a bordo strada ad aspettare che qualche sventurato si offra loro come sacrificio volontario: li vedrò e sentirò sparare solo attorno al santuario, mentre non ne troverò traccia nella zone isolate. Traversando un ripido pendio raggiungo così il colle, dove il panorama si apre a nord sul Monviso e a sud sul verde vallone dell'Arma, con i suoi corrugati pendii rivestiti in basso di faggi color bronzo. Lontano troneggia la seghettata cresta dell'Argentera, affiancata dal monte Matto, un'accoppiata che vedo anche da Torino nei giorni limpidi. Frattanto si è fatto sempre più insistente il vento, che per ora non è freddo, per cui resisto in maglietta. Da qui il colle Fauniera è dato solamente più a 3 ore, anche se cammino appena da un'ora e mezza, per cui dovrei esserci per ora di pranzo. Non sempre i cartelli saranno coerenti tra loro.
La cresta si rivela subito talmente ripida, da costringermi sostanzialmente a gattonare e maledire i bastoncini nei passaggi rocciosi, anche se poi saranno benefici nella maggior parte del tragitto. Il tracciato è entusiasmante e sempre più panoramico. Raggiungo una cima secondaria che non merita una croce e scendo altrettanto ripidamente, dapprima senza traccia, poi con, per zone sabbiose. Raggiungo un colle dove la displuviale è segnata da fili del bestiame, perché ci sono vitelli sul lato Stura; da qui si diparte anche una traccia minore, non segnalata, che aggira la prossima cima.
Mi dirigo verso una parete rocciosa, dove fanno un gran fracasso i gracchi, forse perché vi nidificano (pareti isolate sono proprio il loro habitat prediletto). Aggiro la cima Viribianc sul lato settentrionale, su un sentiero troppo ben costruito per essere una semplice traccia di escursionisti. Più avanti avrò la risposta sull'origine, nella forma di file di pietre a segnarne il percorso nei prati, che altrove ho trovato in sentieri di nota origine militare. Si tratterà di opere accessorie alle strade militari delle retrovie, che abbondano sull'altopiano della Gardetta.
Dev'essere un'opera accessoria alla strada tra Chiappi e il colle Valacavera: fu infatti costruita dal Genio militare tra il 1939 e il 1940, con molto ritardo sui tempi necessari, tanto che fu completata a guerra già avviata. Per restare nei tempi, si tentò anche di far lavorare gli operai dopo le prime nevicate (che arrivarono già a settembre) e quindi dopo che gli alpeggi erano stati scaricati, con gravi disagi e carenza di rifornimenti e alloggi adeguati, a cui essi non potevano opporsi essendo militarizzati. Alla fine il priore di Castelmagno intercedette con i comandi militari e i lavori furono sospesi. La strada era fondamentale per l'accesso all'altopiano della Gardetta, che per la sua vastità permetteva un massiccio assembramento di truppe e richiedeva una logistica all'altezza.
In età imperiale romana, la valle era già percorsa da un ramo di una rete di vie transalpine, la Quadragesima Galliarum. Erano organizzate con stazioni di pedaggio ai piedi delle valli; la principale era a Pedona, ora Borgo San Dalmazzo, da cui ci arrivano diverse epigrafi di addetti alla riscossione. Da lì partivano varie direttrici, senza contare che ne esisteva anche una trasversale documentata da ritrovamenti a Marmora ed Elva. Un'altra iscrizione da Monterosso Grana attesta una manutenzione ordinata direttamente dalla corte di Pertinace, l'imperatore originario di Alba. Il trasporto era effettuato da una corporazione di mulattieri, detti muliones, in grado di muoversi sui percorsi disagevoli.
Il sentiero, tra rocce calcaree, grazie alla siccità asciutte nonostante il versante ombroso, sale a una vetta secondaria del Virbianc, più alta della principale, marcata da una croce metallica, mentre qui c'è solamente un paletto con il nome e la quota. Faccio una pausa in una conca riparata dal vento, presso la vetta, per bere e mangiare noci con bacche di goji, da cui ricavare un po' di energia. Indosso una seconda maglietta a maniche lunghe, che terrò sino al termine dell'escursione.
Scendo al colle, tra magre zolle erbose modellate dal soliflusso, sul confine tra il pendio sud erboso e qullo nord più sassoso. Raggiunto il colle, dove ricevo da nord un sentiero non riportato sulla mia carta, punto verso un grosso mucchio di sassi bianchi, che speravo di evitare, dove scopro con sorpresa che il sentiero è magnificamente tracciato e livellato, cosa che mi dissolve ogni dubbio sull'origine militare. Tra l'altro i massi presentano pure delle pollockiane forme erosive calcaree.
Trovo l'ennesimo larice nano cresciuto al riparo di una conca, una compagnia che mi scorterà per tutte le creste fino al Tibert. Questi alberi sfruttano microclimi molto locali e vivono al limite delle loro possibilità biologiche, producendo il minimo surplus di energia possibile per poter continuare a crescere, come mostrerebbero i loro anelli sottilissimi. Anche se sono piccoli, possono essere vetusti e non possono permettersi di elevarsi più di tanto, pena uscire dalla bolla in cui si trovano e venire seccati dal gelo o dal vento, che sottraggono acqua liquida alla pianta; senza contare che la fotosintesi, al diminuire della temperatura media e dei giorni sufficientemente caldi, non sarebbe più adeguata a sostenere la vita. Queste piante apprezzeranno sicuramente l'aumento delle temperature, anche se l'aumento dei periodi secchi che lo accompagna sarà per contro meno benefico.
Salgo per prati un pendio, dove la tracciatura originale a tornanti regolari è in parte scomparsa a causa dei tagli escursionistici, fino alla cima del Viridio, che merita una croce e un libro di vetta. Lo firmo in modo minimalista con il nome mio e dell'anello che sto descrivendo, però non penso di leggerlo: sono infatti in preda a una frenesia eccitata per la bellezza del panorama, e non vedo l'ora di continuare a camminare con frenesia dionisiaca, con vista ora su Rocca la Meja e infinite altre cime ignote, sempre tra il versante meridionale erboso e quello settentrionale più dirupato.
Mentre sto andando a incunearmi tra i Parvo, arriva in direzione opposta un gruppo di una dozzina di persone, di cui molte sulla trentina, parecchio più coperti me. La ragione, che scoprirò a breve, è che verso il colle Nais il vento diventa più sferzante, anche se non freddo per la stagione. In quota mi infilo nel canale tra punta Parvo e il Parvetto, mentre l'ultimo quarto di luna sta calando nel cielo e mi fa sperare illusoriamente di riuscire a fotografarla con qualche cima fotogenica. Il colle si trova ai piedi di una parete rocciosa acuminata, che mi piacerebbe venire a fotografare in una notte di luna con le medesime lame di luce di questo istante. Il vento è così sferzante, che a malapena riuscirò a decifrare gli appunti vocali per il fruscio del microfono. Il nome del colle è curioso per una sella, perché nei dialetti occitani indica pozze acquitrinose, dove non di rado erano posti a macerare gli steli della canapa: forse è riportato dal pianoro sottostante a cui sono diretto, oggi un po' secco, ma con terreno nero come torba, che in periodi più umidi potrebbe essere paludoso.
Dalla conca, per una valletta erbosa, seguo inizialmente una traccia secondaria lungo un rio, ma recupero la principale, parallela poco più a monte, quando mi accorgo che la mia serve solo al bestiame per bere. Più in alto la traccia scompare, lasciandomi alla mercé dei paletti segnavia. Arrivato a un colletto tra la cima Fauniera e una quota senza nome, mi affaccio sul capanno metallico del rifugio Fauniera, dove c'è una gran folla radunata e stanno sparando musica a palla, chiaramente udibile 200 m più in alto. Il sentiero propone nuovamente della tracciatura militare, per poi scomparire brevemente sull'altopiano erboso di cima Fauniera e ricomparire poco dopo come traccia. Il nome della vetta è stato attribuito a un fauno o più prosaicamente al nome provenzale dei pascoli di trifoglio alpino. In cima mi rendo anche conto che la luna non tramonterà dietro il Becco Grande e Rocca la Meja, come speravo, ma dietro cime più anonime.
Al colle successivo, raggiunto dalla strada militare asfaltata aperta al traffico, trovo due ciclisti accasciati nel primo posto che capita e dei motociclisti a spasso nei dintorni. Sul piccolo piazzale c'è un monumento in pietra a Pantani, che su questa salita staccò tutti e conquistò la maglia rosa, anche se la tappa fu finta da Savoldelli, che lo superò nella lunga discesa su Demonte. La posizione in bici del Pirata è sbagliata, perché ha le mani appoggiate sui freni, mentre lui era noto per salire con le mani sui corni. Il Giro d'Italia ha pure ribattezzato questa insellatura. In origine si chiamava colle dei Morti, in riferimento a un violento scontro del 1744, avvenuto nell'ambito della guerra di successione austriaca; la stessa offensiva causò anche il massacro del Pietralunga in val Varaita, anch'esso ricordato nel nome assegnato a un colle, Battagliola. Oggi questo ha assunto il più turistico nome di Fauniera, che in origine indicava invece il colle tra la cima omonima e punta Parvo.
Salgo a pranzare alla cappelletta poco più in alto, prima della quale c'è una lapide con foto presso cui sono inginocchiati due signori di mezza età, tra qualche fioritura di Gentiana verna, quella violetta a cinque petali. Mi siedo sul lato riparato dal vento. Sul lato a fianco è seduta una signora; varia altra gente, salita in auto, arriverà alla spicciolata per guardare il panorama.
Dal colle la vista verso sud, oltre a proporre una bella infilata del vallone dell'Arma, include anche il Gelas, dove sta per scomparire il ghiacciaio più meridionale delle Alpi. Dentro la cappella, su un tavolino ci sono le foto di alcuni adolescenti, passati alla cronaca come “ragazzi delle stelle”, perché morti nel 2020 in un incidente stradale, mentre tornavano da una sera quassù a vedere le Perseidi.
Prima di ripartire decido di indossare il guscio per proteggermi dal vento. Scendo alla strada, che seguo ascoltando l'altoparlante del rifugio Fauniera dare i numeri, a cui la folla risponde con boati. A casa leggerò che il rifugio ha organizzato una staffetta goliardica dal santuario, con birra e forme del formaggio Castelmagno, che evidentemente ha riscosso molto più successo di tutti i sentieri del comune messi assieme. Pare proprio che si debba trasformare la montagna in luna park per convincere la gente a salire, perché evidentemente il territorio in sé, con i suoi paesaggi, la sua natura e la sua storia non sono un'attrattiva adeguata. Probabilmente questa gente si metterebbe a piangere o proverebbe schifo se mi seguisse. Aldous Huxely aveva previsto tutto ciò nel suo romanzo Brave new world (Il mondo nuovo), in cui già nel 1932 immaginava un futuro distopico regolato dal consumismo: una società perfettamente regolata insegnava a odiare la natura, ma ad apprezzare attività a pagamento che si svolgevano in essa. Per contro loro hanno portato un sacco di soldi a un'attività della montagna, per quanto raggiungibile in automobile, mentre io per ora non ho lasciato neppure l'euro del caffè. Salgono frattanto alcuni ciclisti: quelli su ebike sono più pimpanti e vogliosi di commentare l'impresa, mentre i muscolari paiono sfiniti.
Al colle di Esischie lascio la strada, in favore di un sentiero che sale al colletto tra il monte Pelvo e la rocca Negra. Qui, in assenza di indicazioni sul terreno, ho già dimenticato la carta consultata in precedenza, come mio solito, perché non riesco mai a prevedere come sarà il terreno leggendola. Credendo che il sentiero che sale in cresta a sinistra porti unicamente alla cima soprastante, proseguo dritto per la traccia più marcata. La consulterò solo un bel po' dopo, quando mi renderò conto che le tacche sono scomparse e troverò un bivio non segnalato per cima Reina. Naturalmente è dedicata a Rèino Jano, popolare personaggio medievale provenzale, in cui donne reali come Giovanna d'Angiò e una sua zia e altre mitologiche confluiscono, tra le poche ad emergere e ottenere visibilità in un mondo maschile. L'errore però è di poco conto, perché i due sentieri si ricongiungono più avanti. Tra l'altro questo è pure un sentiero militare, che taglia per una conca erbosa molto gradevole e solatia. È molto riparato dal vento, per cui così coperto comincio a sudare e lo benedico quando lo ritrovo, risalito nuovamente in cresta.
Si apre ora una panorama fantastico sul vallone di Marmora, con i colori autunnali dei larici al meglio. C'è anche una chicca etimologica: qui vicino ci sono delle grange dell'Oliveto, nome che poi si è esteso a un visibile picco: naturalmente non ci sono colture mediterranee, ma capisco subito che dev'essere una delle tante cantonate dei cartografi militari, che non comprendevano i dialetti occitani. Magari è la stessa penna che ha trasformato il vicino colle Beau Soleil (bel sole) in Soleglio Bue: a proposito dell'adagio secondo cui ne ferisce più la penna che la spada. Qui, secondo la Guida, pare aver storpiato elvou, pino cembro, da cui anche Alevé ed Elva.
Sul lato Maira, taglio le pendici del monte Sibolet e, al colle, mi affaccio sul vallone omonimo, che è superbo per i valloni sospesi e le pareti strapiombanti, al punto che dimentico di voltarmi indietro, per scattare una foto al panorama precedente con il primo piano di un minuscolo laghetto, forse dovuto a uno sdoppiamento di crinale. Lascio il sentiero per punta Tempesta e proseguo in quota nuovamente sul lato Grana.
Mentre mi avvicino al colle Intersile, mi rendo conto che è finalmente uscita dal mio cervello una canzone di Gianluca Grignani, sentita la scorsa settimana, che mi aveva fatto tornare in mente un incontro piacevole delle passate vacanze, e che per questo non avevo potuto fare a meno di ascoltare attentamente, imprimendola bene in testa. Stamattina aveva cominciato a ronzarmi in testa e non ne aveva più voluto sapere di allontanarsi; non so perché, la melodia mi piace ma il testo non mi rappresenta, anche se per la verità ascolto le canzoni per la musica e bado molto distrattamente alle parole, tanto che probabilmente non ne saprei cantare quasi nessuna per intero. È più facile con la musica inglese che non capisco, ma mi riesce bene anche con quella italiana. Ora è tornata a fluire Eleanor Rigby, che ascolto nella versione per violino blues di Don “Sugarcane” Harris, e che mi cantavo nel cervello nel viaggio ia auto con parole inventate da me non so più a che proposito.
Salendo poi dal colle verso la cima, noto innanzitutto che ora la traccia si fa più vaga e credo proprio che da qui al fondo della cresta si tratti unicamente di un sentiero di escursionisti. Noto poi ancora una volta un versante su più erboso e uno nord più ripido e scosceso, dove sopravvivono dei larici pionieri, invece assenti sul precedente, più pascolato. Incrocio una coppia, che mi aveva preceduto dal colle di Esischie e sta già scendendo.
Il panorama si apre ora verso i dossi prativi in cima ai valloni di Narbona e Celle di Macra, due comunità povere che li contesero anche con le cattive. I primi sono noti come il paese più sventurato dalla val Grana, che fu ben presto abbandonato quando si aprirono prospettive con l'emigrazione in pianura, mentre i secondi si arrangiarono, commerciando acciughe sotto sale dalla costa ligure alle città padane, ed ebbero miglior sorte.
In vetta c'è una croce di legno, sul cui basamento in pietre molta gente ha lasciato un ricordo di persone care; qualcuno ha anche posato una capannina con una statuetta della Madonna. C'è anche un libro di vetta, anche stavolta firmato con nome e percorso. In questo caso, l'etimologia nobile fa riferimento all'imperatore Tiberio, mentre quella prosaica all'essere spesso avvolto dalle nubi, in quanto prima cima di un certo rilievo dove condensa l'umidità in risalita della pianura, ed è consonante con le vicine punte Piovosa e Tempesta. La cima è probabilmente il punto più panoramico del giro. Secondo l'oracolo elettronico, da qui si potrebbero addirittura vedere vari 4000 svizzeri, la cima sopra la legione scozzese, quella da cui passò la regina longobarda per donarla al santo irlandese, quella dove il generale cartaginese si ferì, ma non il Bric Puschera. Si vede poi il santuario in basso, da cui mi separa un amplissimo pendio erboso molto ripido. Anche la cresta che ora mi attende si annuncia decisamente più ripida e aerea di quella salita e prevalentemente erbosa.
Nonostante il vento, resisto più che posso e faccio anche una merenda con tisana e brioche pseudo-salutista alla zucca, osservando la foschia gonfiarsi. Scatto foto ai dintorni: una volta avrei mappato ogni centimetro quadro, con l'esperienza sono divenuto più parco e cerco di pensare alle inquadrature che meglio si prestano; i punti panoramici non sono certo i posti migliori da cui fotografare. Oggi ho adoperato quasi solo il tele, perché generalmente il panorama era lontano.
La via di discesa non è certo un sentiero strutturato e dev'essere anche recente, perché sulla Guida non è neppure citata; è però davvero panoramica ed entusiasmante. Il primo quarto d'ora di discesa presenta fondo a volte scivoloso per il brecciolino, poi diventa erboso e più saltuariamente di buona roccia gradinata. Il crinale separa la valle principale dal vallone di Narbona, che lungo la discesa fa la sua comparsa nello sprofondo, nell'intervallo di tempo in cui l'ombra della sera un poco alla volta la raggiunge e la oscura. È davvero impressionante quanto il vallone è stretto, ripido e incassato.
Ad un certo punto il sentiero deve superare dei dossi rocciosi ed erbosi. I primi sono oltrepassati su traccia molto sottile e aerea, il più impervio aggirato dal lato meridionale di pietre ed erba, più accessibile. La cresta spiana brevemente per poi riprendere a scendere, ora sempre erbosa e a mano a mano meno pendente, con il passo delle Crocette già evidente. Nei pressi c'è una specie di installazione a tema religioso con croci e un monito.
Lascio definitivamente la cresta, salutando nel contempo il Monviso che svetta sulle Basse di Narbona, in favore di un ripido versante erboso, per imboccare un sentiero che dapprima lo taglia e quindi lo affronta in maniera più diretta. La pendenza quindi quasi si annulla per poi aumentare di poco, su un prato perfettamente spietrato. Su questo versante solatio l'erba è già secca e non sono rimasti armenti. Confluisco quindi su una sterrata, da cui riappare il santuario, non più illuminato dal sole e quasi raggiunto da un banco di foschia, in risalita dalla valle. Per prati, scegliendo la direzione da cui la scena appare più fotogenica, riesco a fotografarlo stretto tra la nebbia in basso e l'ultima luce del sole in alto. Il sole è appena tramontato dietro il crinale e il chiarore che vi arriva è ancora sufficiente a illuminare la chiesa con luce diretta ma soffice.
Il santuario è sprangato e un cartello fa già riferimento alla messa dei Santi, fra due settimane. Non riesco perciò a vedere l'interno, dove ci sono pregevoli dipinti della cappella originaria, edificata nel Quattrocento. La struttura attuale risale invece al 1716 e il portico al 1861.
Riesco solo a fare un giro per il porticato, dove è murata un'arula romana con dedica a Marte, peraltro quasi illeggibile e molto criptica per chi non mastica iscrizioni latine, a causa delle abbreviazioni. Il culto di Marte, spesso associato a dei celtici, era molto comune sulle Alpi insieme a quello di Ercole; i due sono raffigurati assieme in una lastra oggi murata nel campanile della chiesa di Bersezio, in valle Stura di Demonte. Marte era venerato nella veste di protettore del bestiame e i muliones lo associavano al dio celtico Leucimalicus, come testimonia un'iscrizione rinvenuta a Demonte.
Il culto dei martiri tebei nasce invece da un racconto agiografico scritto da Eucherio, vescovo di Lione nel V secolo, dopo che questo aveva stato tramandato oralmente da varie persone a partire da Teodoro, vescovo di Octodurum nel 380 circa, il quale ne aveva avuta visione in sogno, che ritenne confermata dal ritrovamento di un cimitero. La Passio di Eucherio narra di soldati cristiani rifiutatisi di massacrare correligionari e per questo martirizzati dall'imperatore Massimiano. Il racconto gronda di topos dell'agiografia, dall'imperatore «pazzo per avarizia, libidine, crudeltà e altri vizi, […] dedito agli esecrandi riti dei pagani», ai martiri uccisi come agnelli da lupi feroci. Su di esso, soprattutto a partire dal XVI secolo, si innestarono tradizioni promosse dai Savoia, che presentavano sé stessi come soldati della cristianità contro le eresie; nella valle, da poco inglobata nel Ducato insieme al Marchesato di Saluzzo era diffuso il calvinismo. In quegli anni furono elaborate nuove tradizioni che trasformarono in tebei culti precedenti, creando storie di soldati scampati al massacro che sarebbero poi stati inseguiti e martirizzati nelle valli piemontesi, dopo aver dato prova di santità con miracoli. In particolare, san Magno parrebbe essere stato un monaco tedesco omonimo, il cui culto fu importato dai benedettini (le abbazie di Pedona e l'ordine benedettino francese di san Teofredo ebbero molte dipendenze nel cuneese, nei primi secoli del Medioevo). Nel culto attuale del santo, protettore del bestiame, sono inoltre perdurati gli attributi del Marte latino. Inoltre tra i capitelli dell'edificio sono presenti teste di derivazione celtica, comuni anche alle valli limitrofe.
Al parcheggio, quasi vuoto, incontro trentenni schiamazzanti e vestiti bizzarramente, di rientro dalla festa al rifugio. Sprofondato nuovamente sotto la coltre di nubi, mi fermo in un locale rural-latino, lungo la via intitolata al Nobel occitano. Avrei sperato in un panino con le acciughe al verde, ma hanno invece un banco di formaggi tipici, tra cui faccio loro scegliere quelli di capra e pecora per vedermeli ammannire in un tagliere con miele e marmellata. Il tartufo contenuto in uno mi resterà in bocca fino a casa, dove faccio in tempo ad arrivare prima che i ciucchi del sabato sera escano dal ristorante.
Per approfondire
- C. Bocca - M. Centini - M. Crema Giacomasso - M. Minola, Grandi battaglie in Piemonte, Cuneo 1993
- M. Boglione, Le strade dei cannoni, Torino 2003
- M. Bruno, Guida dei monte d'Italia - Monte Viso - Alpi Cozie Meridionali, Milano 1987
- M. Centini, Martiri Tebei storia e antropologia di un mito alpino, Scarmagno 2010
- M.T.J. Johnson - J. Munshi-South, Evolution of life in urban environments, Science 358 (6363)
- G. Mennella, La Quadragesima Galliarum nelle Alpes Maritimae, Mélanges de l'École française de Rome. Antiquité, tome 104, n°1. 1992. pp. 209-232
- R. Pellerino - D. Rossi, Le chiese di Mistà, Cuneo 2012
- R. Pellerino - L. Conforti (a cura di), val grana, Cuneo 2015
- H. Reisigl - R. Keller, Guida al bosco di montagna, Bologna 1995
- T. Vindemmio - G. Di Francesco, Oncino, Crissolo, Ostana. Tre comunità occitaniche alpine. Microstoria dell'alta valle Po, Pinerolo 2004
- M. Boglione, Le strade dei cannoni, Torino 2003