Costa Chiggia 2156 m

Val Maira

12 ottobre


In un baleno

Costa Chiggia è soprattutto una rinomata meta di escursionismo invernale con sci o racchette, ma con savie accortezze nella scelta del percorso anche d'autunno ha il suo fascino

Tolosano
Tolosano

Diario di viaggio

Il versante occidentale di Costa Chiggia è una rinomata meta di escursionismo invernale con racchette o sci, in quanto è una gita protetta da slavine dopo una recente e abbondante nevicata, quando la neve è una distesa soffice e i rami degli alberi ne sono carichi, ovvero quando il paesaggio è più fiabesco ma anche più pericoloso.
Tuttavia pure in altre stagioni la meta è attrattiva, in parte per il panorama su buona parte della valle offerto dalla cima, ma soprattutto per le numerose borgate dense di storia, architettura e arte delle sue pendici inferiori. Infatti di per sé la cima non non ha speciali attrattive, non è certo un Picco della Paura violato da Gervasutti, ma un morbido dosso probabilmente già battuto dai cacciatori paleolitici all'inseguimento di alci o camosci: la Gvida dei Monti d’Italia la liquida senza un itinerario di accesso e la degrada a T. L'accortezza da seguire è pertanto evitare di limitarsi al percorso invernale, che parte dal punto più elevato possibile: conviene piuttosto scegliere di lasciare l’auto alla frazione inferiore di Marmora e ammirare le altre sparse sulle sue pendici.
Il percorso seguito è una scelta dell’ultimo minuto: avevo infatti inizialmente pensato di puntare alla vetta dal Maira a Bassura per dei bei boschi di faggi e abeti bianchi, lambendo a malapena la parrocchiale di Marmora, per poi calare dai dirupi del Bedale Intersile. Tuttavia, dopo aver scoperto cosa queste frazioni offrivano, alla fine ho appunto optato di partire dal suo capoluogo e rimanere sul versante occidentale, per visitarne quante possibili con agio; un percorso più breve, meno naturalistico, ma più denso di attrattive.
Dopo averla messa in elenco anni addietro, finisco con il salire in un autunno farlocco, in cui a metà ottobre vado ancora al lavoro in maglietta e calzoncini e a malapena qualche albero comincia a virare verso il giallo e il rosso. Opto per un giorno di riposo feriale, in cui sono stato fortuitamente esonerato dall’annuale prova di emergenza, ragione per cui il giorno dopo ringrazierò personalmente la responsabile.

Il termometro dell’automobile segna appena 4,5°C allorché, alle 8 di mattina, parcheggio nella frazione Vernetti ancora in ombra e vado a prendere un caffè alla locanda Ceaglio, i cui tavoli sono affollati di tedeschi (non riconosco altre lingue), alle prese con un’abbondante colazione continentale. Questa struttura ricettiva si è specializzata in tale clientela selezionata, offrendo un servizio ricercato a prezzi oltremodo fuori portata per a slave on a minimum wage come me, per mutuare le parole da una martellante canzone techno di venti anni fa. Il suo albergo diffuso, il suo cortile lounge, le sue officine con le MTB elettriche occupano buona parte della frazione. La ristrutturazione le dona opulenza contemporanea, mantenendo tuttavia i tradizionali legno e pietra, senza le ringhiere di ferro e il cemento delle seconde case del Boom. Nel resto del capoluogo c’è ancora spazio per ulteriori locande, affittacamere e ristoranti, a cui questa borgata pare quasi interamente devoluta.
Dal momento che persino del miele prediligo le varietà amare, men che meno dolcifico il caffè, perché basta una puntina di zucchero per renderlo sgradevole al mio palato; Nuto Revelli riferisce invece di un montanaro della contigua Stroppo, mancato nel 1981, che ai suoi ospiti ne metteva sette cucchiaini, come segno di ospitalità, ma anche di rivalsa sui tempi magri. Chiedo quindi informazioni sulla vicina cappella di san Sebastiano, nota per i suoi dipinti gotici, in quanto il sito ufficiale della valle riporta il loro numero di telefono nei contatti: hanno infatti la chiave e mi accordo che passerò a prenderla a fine gita.

Attraverso la rimanente parte della frazione, il cui nome le è conferito da una famiglia della nobiltà locale, ma richiama anche il termine dialettale per gli ontani nero e bianco. Al termine imbocco sulla sinistra una mulattiera selciata, che sale nel bosco di ricolonizzazione, formato da betulle e frassini, dove una volta c’erano coltivazioni, alternato a prati in via di invasione dai cespugli di rosa canina. Per il caldo fuori stagione il tasso barbasso sta nuovamente fiorendo.
Il sentiero è dedicato ai costruttori di basti per animali da soma (bastié): con quello di bottai (sibré), era il mestiere di questo comune, con il quale si integravano i redditi agricoli durante il riposo invernale dei campi. Ai tempi del Casalis, i carri si attestavano a San Damiano Macra e il resto era regno del mulo e dell’asino, quindi il lavoro non mancava. I basti erano costruiti qui, mentre per eseguire le riparazioni di questi e altri oggetti in legno si emigrava dai Santi a Pasqua nella pianura, nelle Langhe e in Francia (anche valicando le Alpi innevate senza alcuna attrezzatura), vagabondando di cascina in cascina, ospiti dei clienti in sistemazioni di fortuna («era come una guerra che non finiva mai», chiosa Giacomo Andreis, classe 1891). Questo valeva per chi riusciva a restare qui, emigrando solo stagionalmente, ma per molti altri il trasferimento in Francia e oltreoceano fu permanente. La maggior parte non tornò più, qualcuno più nostalgico accumulò risparmi sufficienti a comprare una casa e poco altro.
Successivamente il progresso aprì le strade carrozzabili dirette alla Michelin, che resero anacronistici i muli, svuotarono il paese di contadini e in compenso spalancarono le porte al camper dei coniugi Schneider, trasformando i pochi marmorini superstiti in distinti albergatori di tedeschi. La soma dei muli è ancora estensiva di muli sui monti umbri, per rifornire i riscaldamenti a legna lì molto diffusi, mentre sulle Alpi piemontesi li ho visti impiegati più saltuariamente per rifornire alpeggi a vocazione casearia, non raggiunti da piste agricole carrozzabili.

Dopo aver attraversato la strada asfaltata diretta alle frazioni superiori, giungo ai prati di Brieis. È ben visibile il Monviso, come già da Vernetti, che sovrasta le rupi calcaree del monte Bettone e le distese prative della dorsale con la val Varaita. La frazione presenta sia case abitate che abbandonate e una cappelletta affrescata all’esterno con un’Annunciazione, all’interno con un dipinto dell’incoronazione della Madonna da parte della Trinità, un altro con due dei santi, san Bernardo e sant’Antonio da Padova. Bernardo è il nome del committente, come indicato sulla facciata, mentre gli altri dipinti sembrano indicare una devozione verso la moglie e madre dei figli (Antonio è il protettore dei matrimoni), o magari un modo di ribadire quale fosse il suo ruolo nella famiglia.
Le donne delle montagne cuneesi si sentivano schiave (le testimoni adoperano proprio questo termine) di un marito più imposto dalle convenienze economiche dei genitori o dalla necessità di fuggire da casa, che scelto ponderatamente, e subivano la numerosa prole, non di rado dopo violenze sessuali del marito ubriaco. Questi, appoggiato dal clero tradizionalista, per contro dimostrava così la propria virilità e ne beneficiava economicamente, destinandola fin dall’infanzia ad essere manodopera per l'attività agricola familiare, altrimenti affittandola come vacherot (custodi del bestiame) ai pastori dell'alta valle o della Francia (Prazzo e Barcellonette erano le rispettive sedi dei mercati annuali dei bambini) oppure come servitù domestica. Non di rado l'emigrazione era illegale, senza documenti, ma tollerata dalle autorità francesi, in quanto l’economia transalpina aveva molto bisogno di manodopera dequalificata a basso costo.
Cresciuta senza sapere nulla del ciclo mestruale o di come si generano i bambini, la madre lavorava fino alle doglie, e poteva dirsi contenta se partoriva in casa con una minima assistenza di donne esperte, anziché da sola lungo la via del rientro, comunque sempre in precarie condizioni igieniche e senza assistenza medica in caso di complicanze, quasi sempre fatali a lei e al neonato. Il giorno successivo era di nuovo nei campi. Capitava anche che dovesse lasciare il figlio ai parenti, per guadagnare in Francia i soldi per nutrirlo. Se restava sola, almeno fino all’Ottocento, aveva buone probabilità di essere etichettata come masca e marginalizzata.
Revelli scrive che ancora quando intervistò i testimoni per Il mondo dei vinti, «la donna era avara di parole perché rispettava la tradizione, perché voleva o doveva rendere credibile l'immagine dell'uomo padrone». Mentalità meno opprimenti non erano assenti, specie tra chi era più benestante e aveva contatti stabili con la moderna Francia, «il paradiso della pancia», ma pure dello spirito per la maggiore libertà di pensiero e di stile di vita ammessi, ma erano casi decisamente più rari.
Nel corso delle generazioni succedutesi da fine Ottocento, migliorarono gradualmente l'educazione sessuale e il tenore di vita, molto meno il carico di lavoro e la subalternità, da cui le donne si sgravarono solo una volta emigrate in pianura. «Oh, io piuttosto che tornare a fare quella vita là mi sparo un colpo subito», commenta Anna, classe 1940.
Risalgo quindi a Serre, presso cui un reisdente, che evidentemente non voleva correre il rischio di uno sconfinamento di escursionisti in casa propria, peraltro cintata, ha indicato dove prosegue il sentiero con un cartello in ben undici lingue. Poco a monte giungo a Borgata Superiore, dove ci sono case moderne, pali e fili a volontà e delle persone in giro. Anche la prima borgata era popolata, non solo da vecchi, nonostante il giorno feriale.
Seguendo la strada, raggiungo la chiesa parrocchiale, che sotto un portico della fiancata presenta dei dipinti gotici di uno dei fratelli Biasacci, i pittori noti soprattutto per gli affreschi di Montegrazie, una chiesa tra gli uliveti dell’imperiese. Raffigurano dei santi e sono abbastanza deteriorati, ma ancora leggibili. Tra questi c’è san Massimo, vescovo di Torino tra il IV e il V secolo e di cui ci sono giunte delle omelie, titolare della parrocchia. Per visitare l’interno dovrei comporre un numero di cellulare, cosa che non oso fare per non recare incomodo nel bel mezzo della settimana. Tra le altre cose, ci sarebbe da vedere un’epigrafe romana, che documenta il sistema viario di mulattiere che valicavano le alpi cuneesi, noto come Quadragesima galliarum e di cui ci sono testimonianze minime ma plurime sparse per queste valli (la più nota è probabilmente la dedica a Marte murata nel portico di Castelmagno).
La chiesa parrocchiale si trova in posizione isolata e dominante sulle varie frazioni. Dove non c’è un vero centro del comune, ma molte frazioni equipollenti, può capitare che l’edificio religioso della comunità sia costruito in una posizione che non fa torto a nessuno: ad esempio, nella vicina Stroppo, la parrocchiale medievale si trova a metà del costone lungo cui sono sparpagliate le frazioni, lontano dagli abitati.
Mi siedo un po’ sulle panche sotto i dipinti, mangio una banana e bevo, oltre a levarmi di dosso la maglia a maniche lunghe, perché il sole mi ha raggiunto e così la temperatura si è mitigata.

Dalla chiesa si diparte una strada poderale diretta al colle Intersile Sud e di lì ad alcuni alpeggi del Bedale Intersile, il vallone contiguo a questo. Evito un primo troncone seguendo invece il sentiero alternativo, che sale diretto e ripido, costeggiando un prato abbandonato e in via di invasione dai cespugli, da cui ho delle belle visioni della chiesa e di alcune borgate, da cui transiterò al pomeriggio. Nell’alto vallone di Marmora mi pare familiare una cima arrotondata, che su questo versante digrada con canaloni rocciosi; ci metto un po’ a rendermi conto di averla a lungo vista e anche fotografata durante il giro dell’elmo di san Magno, mentre volavo sulla cresta di confine con la val Grana.
Presso una casa isolata ritrovo la strada, ancora asfaltata per un tratto, che devo lungamente seguire. Sto attraversando un bosco pascolato, con radure alternate a lariceto privo di sottobosco. I larici sono ancora quasi tutti verdi e solo le bacche mature dei frequenti cespugli di rosa canina annunciano l’autunno. Oggi sono impiegate per una marmellata radical chic, mescolate con mele per stemperare l'asprezza, mentre una volta allungavano il pane di segale dei poveri, con l'indesiderato effetto collaterale di un prurito a una parte innominabile del corpo, allo sbocco dell’apparato digerente.
Supero una mandria di vitelli da carne piemontesi e poco oltre vedo scendere un fuoristrada. Il pastore, un signore con barbetta canuta e faccia rubiconda bruciata dal sole, lascia la moglie a raccogliere i pali di un recinto da smontare. Sorrido e saluto, ma non oso chiedere cosa pensano di questo caldo fuori stagione di questo secco (l’erba è gialla). Molti agricoltori e allevatori, che pure subiscono sulla propria pelle gli effetti degli eventi estremi sempre più intensi e frequenti negli ultimi anni, hanno difficoltà a capire che il clima sta cambiando e a elaborare strategie per adattarsi, prima che il cambiamento li travolga all’improvviso. Un po’ perché il mondo contadino ama falsamente presentarsi come ancestrale e immutabile («si è sempre fatto così»), anche nell’immaginario dei cittadini, mentre le testimonianze raccolte da Revelli mostrano chiaramente che muta anche rapidamente, un po’ perché la comprensione dei fenomeni richiede strumenti culturali assai elaborati ed astratti, che travalicano l’esperienza personale e gli strumenti concettuali che l’evoluzione darwiniana ha impresso nel nostro cervello per consentirgli di risolvere i problemi di sopravvivenza. Inoltre i corpi sociali che dovrebbero sensibilizzarli sono legati agli interessi economici che beneficiano del sistema attuale e non sono motivati a sollevare il problema, tanto che sono piuttosto un freno all’azione collettiva e sistemica.
Recentemente molti allevatori di questa razza in montagna hanno firmato un appello per denunciare la situazione di disagio economico in cui versa la loro attività, in quanto non sono competitivi con gli allevamenti industriali di pianura, perché il loro prodotto non è riconosciuto diverso sul mercato. In effetti mi sono sempre chiesto se dal macellaio è possibile distinguere un vitello tenuto in stalla e nutrito con mangimi (e i relativi farmaci che consentono ai loro stomaci erbivori di digerirli senza ammalarsi), da uno che ha fatto la stagione quassù mangiando erba. La qualità della carne è ben diversa, in quanto molto più ricca dei mitici omega-3 e povera di grassi saturi, per non parlare di quella della loro pur breve vita. Anche l’impatto ambientale è inferiore, ad esempio nelle emissioni di anidride carbonica, perché non c’è necessità di coltivare cereali e legumi per le farine.
Supero quindi la stalla dell’alpe, da cui odo venire i latrati dei cani e presso cui pascolano dei cavalli neri e degli asini. Poco più avanti riconosco la boscosa cima del monte Festa e capisco di dover lasciare la strada. Cerco il sentiero diretto al colle Intersile Nord riportato sulla cartina digitale e lo trovo subito, anche se avrei potuto tranquillamente tagliare per prati. Avessi invece voluto realizzare una tripletta di cime, avrei dovuto seguire la strada fino allo scollinamento, per calcare quindi la dorsale.
La raggiungo invece di qui in una manciata di minuti e mi affaccio così su un vallone assai angusto, incavato e impervio, parecchio diverso da quello di salita, con al culmine il monte Tibert, ora nero per il controluce. Verso valle vedo invece delle borgate di Celle di Macra su un pendio più dolce e sullo sfondo la forma tozza e rocciosa del monte Rubbio, un grumo di calcare e boschi, che, pur essendo più basso delle cime della dorsale con la val Varaita, domina il paesaggio della bassa val Maira per la sua forma facilmente riconoscibile. Alle spalle della zigzagante dorsale, che mi accingo a percorrere diretto a Costa Chiggia e al Buch, ci sono tutte le cime di contorno ad Elva, mentre alle spalle del versante di salita c’è l’alta valle con le sue forme dolomitiche. In basso il campanile di san Massimo fa capolino dal bosco.
Tralascio un sentiero in disuso che taglia il pendio in quota e seguo invece l’evidente traccia, che ricalca i dossi della dorsale, tra prati con qualche larice e ginepro. Sull’ultimo avvallamento trovo sdraiati sul prato due sessantenni intenti a chiacchierare cartina in mano, gli unici italiani a spasso attestati oggi. Quasi volando tra questo esaltante panorama raggiungo la croce metallica di vetta. A mezzogiorno in punto mi accomodo a pranzare su una roccia scistosa di colore nero e macchie color ruggine, consumando del farro con piselli e cavolo rosso dolce.

Dopo pranzo estraggo il binocolo, con il quale riesco a scorgere la cappella di san Sebastiano a Celle di Macra, quella con i dipinti di Baleison ispirati alla Divina Commedia, che visitai una volta da turista. Noto poi che anche tra i prati attorno ad Elva stazionano alcune mandrie di vacche piemontesi, penso ormai in procinto di scendere dai pascoli di mezza stagione verso la pianura, perché in questi giorni vari centri montani organizzano eventi legati alla demonticazione (sul profilo facebook di Marzia Verona, pastora e scrittrice, ho visto la foto di una macchina di Street View incastrata in un gregge di capre) e rientrando a casa vedrò vacche bianche pascolare nel saluzzese (la vicina pianura pedemontana è il loro tradizionale stazionamento invernale).
Decido di proseguire fino al monte Buch, dove la dorsale si interrompe e la montagna precipita boscosa fino al Maira, perché da lì dovrei riuscire a vedere le borgate e le chiese di Stroppo. Seguo una traccia tra larici, ginepri e mirtilli (questi ultimi sono gli unici pienamente autunnali, ma loro mutano colore già a settembre), fino a un colletto, dove ogni vegetazione arborea scompare mi trovo di fronte un dosso ondulato di sola erba.
Persino io, che pure detesto le ciastre, come sono dette qui le racchette da neve, ricordo con nostalgia quando lo vidi coperto di neve intonsa e rovinai lo spettacolo ai successori lanciandomi per i pendii in compagnia degli amici. Quando il sole è basso e le ombre lunghe, il Buch appena innevato diventa un perfetta versione rurale dei dipinti metafisici di De Chirico, o, se preferite, una versione ancora più astratta, ma con colori più tenui, dei paesaggi agricoli lucani di Fontana.
Su una traccia più labile raggiungo la croce di vetta, dove ho in premio il panorama desiderato. Alcuni decenni addietro era stata pensata una diga nella strettoia qui sotto, che l’avrebbe alterato non poco, ma non se ne fece nulla. Purtroppo anche questa volta non penso ad aprire la scatola con il quaderno di vetta. Sulla cima precedente mi sarebbe piaciuto fare una statistica sulle stagioni di massima frequentazione, ora cercare di capire com’è la salita diretta da Palent per la ripidissima dorsale, in quanto in basso è indicata da un cartello, il sentiero è riportato sulla cartina, ma non riesco a individuare nessuna traccia sul terreno.

Tra molte fatte di vacca scendo nel prato senza percorso obbligato, cercando di seguire la gobba meno ripida in direzione nord-ovest, poiché l’erba secca è abbastanza scivolosa, mettendo in fuga non pochi passeriformi, che certo oggi non si aspettavano un umano quassù, per raggiungere infine un sentiero in quota, tramite cui mi calo nell’impluvio che incide i prati. Al limite del bosco c’è un alpeggio moderno, con un recinto metallico entro cui sono racchiuse delle capre, con un cartello di avviso, per mettere in guardia gli escursionisti dai maremmani. Seguo quindi una sterrata, che taglia in leggera discesa i pendii settentrionali di Costa Chiggia, in un lariceto con qualche abete bianco, una conifera che sottintende precipitazioni abbondanti: proprio qui sopra, sulla dorsale con la val Grana, c’è una coppia di cime chiamate Piovosa e Tempesta. Nell’Ottocento questi abeti erano tagliati per fornire legname da costruzione, trasportato in pianura per flottazione sul Maira. Con la misera portata di oggi sarebbe impossibile.
Subito a valle della strada noto la davvero rustica cappella di san Teodoro, posta su un poggio panoramico nonostante sia nel bosco: l’edificio in pietra e calce è infatti davvero molto modesto e spartano, senza alcun abbellimento. La facciata, racchiusa in un piccolo portico, è intonacata di bianco e estesamente incisa da nomi di persone e date recenti; tra costoro spicca un filosofo degno dei più acuti buongiorno con fiori e angeli. Cartelli a Marmora affermano che il santo era un patrono del bestiame; esistono moltissimi santi con questo nome, ma l’unico con qualche legame piemontese è un soldato romano martire, di cui si conservano le reliquie a Cavallermaggiore, un piccolo comune della pianura cuneese noto per una piscina dotata di scivoli ed emittente televisiva.
Di fronte alla cappella noto un sentiero non riportato sulle cartine, ma che si dirige nella direzione desiderata e pertanto decido di seguirlo. Dapprima taglia in quota il pendio, poi scende più diretto ed eroso, perdendosi infine nel prato a monte della casa, dove al mattino avevo raggiunto la strada del colle Intersile: ho così evitato un pezzo di asfalto. Ripercorro successivamente il sentiero del mattino, ripetendo anche le medesime foto con la luce diversa.
Dalla parrocchiale scendo su strada a Reinero, immediatamente sotto. Leggendo un cartello affisso a un portone, scopro che accanto alla chiesa vi era un monastero e che un’associazione recentemente fondata cerca di sfruttarne i locali per promuovere lettura e arte; consente così ad artisti di campare salendo qui a tenere corsi, per illuminare chi invece si sente artista dentro, ma lavora nell’arido mondo della produzione materiale.
Reinero è sviluppata verticalmente lungo una ripida cresta, esposta al sole pomeridiano, ed è molto ben tenuta; ulteriori lavori di ristrutturazione sono in corso. Rispetto a quando Nuto Revelli scrisse ne L’anello forte che la val Maira era la più disastrata e intatta valle cuneese, si sono ribaltati i valori su cosa è desiderabile in montagna, tornando a quelli dell'abbé Gorret, che agognava una montagna affatto diversa dalla pianura, e i soldi sono venuti appresso a queste convinzioni. Mi colpiscono in particolare dei portali con stipiti e archi megalitici, che sono sono la forma più antica rimasta, di quando a partire dal Quattrocento si cominciò a edificare case più strutturate e durevoli, in pietra lavorata, sotto l’influsso della cultura curtense. Una nicchia contornata da queste strutture ospita un ragno rosso e il dipinto recente di un angelo della morte. C’è poi un’altra casa con i tipici grandi pilastri tondi delle valli Varaita e Maira, che conferiscono eleganza, maestà ed imponenza. L’angolo più delizioso è però senz’altro il piccolo prato davanti alla chiesetta, sul margine inferiore del paese. Il Casalis, invece, citando un religioso esperto della valle, riferiva invece che a monte di San Damiano non vi erano altro che «tugurii».
Dopo aver capito con la cartina dove devo andare per andare dove devo andare, in assenza di indicazioni, passo accanto a un bar che pare aperto. Mi affaccio e rimedio un caffè corretto da una chiacchierata con il titolare. È molto contento di questo ottobre estivo, sia perché apprezza la porta aperta e il riscaldamento spento, ma soprattutto perché molta più gente del solito, tanto turisti mordi e fuggi quanto proprietari di case, sale nei fine settimana. In questo modo compensa un giugno piovoso e per lui magro. Ammette che per la natura non è proprio l’optimum, ma sarebbe davvero felice se le piogge arrivassero dopo i Santi, quanto concluderà la stagione estiva. È solo un po’ preoccupato per gli ultimi inverni senza neve, o con una neve che si scioglie quasi subito per il caldo fuori stagione.
Per la verità i contadini montanari non hanno mai amato la neve, che significava valanghe, cedimento dei tetti, paura, buio, morte, isolamento. La sua connotazione positiva arriva dai turisti cittadini, dagli alpinisti, ed è stata assimilata dagli operatori turistici dei tempi nuovi. Per conto mio, non oso confessargli il mio amore sviscerato per le nebbie autunnali, seppure il caffè è ormai bevuto e non può più sputarci dentro. Oggi in realtà sono in consonanza con lui, perché ho cercato un giorno limpido per il panorama dalla vetta, anche se avrei gradito un po’ più di autunno nella vegetazione. Invece per fotografare le borgate in genere sarebbe meglio la nebbia, perché con il sole i contrasti tra sole e ombra sono frequentemente eccessivi per mostrare le architetture: bisognerebbe percorrere l’escursione due volte con i due climi.
Da Reinero proseguo in quota per un bosco di ripopolamento con aceri, frassini e ciliegi, lungo un sentiero molto ben costruito. Dopo una discesa in un impluvio, la successiva risalita a secchi tornanti offrirebbe una spettacolare veduta della frazione e della parrocchiale, se non ci fosse il bosco. Raggiungo Arvula, dove contorno una casa per tentare questa foto, senza sapere che tra poco avrò un punto di vista migliore, e resto affascinato da un camino. Per stradina raggiungo Urzio, per la gran parte formato da case abbandonate, ma comunque chiuse a chiave, e sul sentiero successivo incrocio un’anziana tedesca accompagnata da due sorridenti giovani in età da università. Finisco nuovamente su una strada, stavolta più importante perché diretta al colle di Esischie, dove mi supera un nutrito gruppo di svizzeri su moto adatte anche al fuoristrada. Questa via di comunicazione risale al 1742, ai tempi della Guerra di Successione Austriaca, ovvero quando furono tristemente battezzati di sangue il colle della Battagliola in val Varaita e il colle dei Morti (ora Fauniera) in val Grana, quindi come via militare tra la val Varaita e la valle Stura, ma ricalca un percorso documentato già dai tempi della Quadragesima Galliarum. Come detto, era l’unica strada della valle, che per il resto aveva solo sentieri e mulattiere, ma non fu manutenuta e un secolo dopo versava in pessimo stato.
Una diramazione mi conduce a Tolosano, sulle cui case ci sono dei dipinti di Giors Boneto, a cui era dedicato il sentiero appena percorso. Fu un pittore vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento, che sulle montagne cuneesi si specializzò nelle scene religiose e nei santi, commissionati dai privati per le facciate e delle case e i piloni votivi, onnipresenti in queste valli. Rispetto ai dipinti medievali visti alla parrocchiale e che vedrò a breve, la tecnica è molto più rudimentale. Gironzolando tra le case, più dimesse e rustiche rispetto a quelle di Reinero, spesso non ristrutturate con tecniche moderne ma ancora con l’aspetto del passato, mi imbatto poi un vecchio basto appeso sotto un portico, sopra una stufa arrugginita. Accanto alla chiesa, mi accomodo a un semplice tavolo di legno consunto, per fare merenda con gli avanzi del pranzo, mentre il sole scompare dietro i monti. Da qui ripeto la foto agognata alla parrocchiale di Marmora con il Monviso alle spalle, già scattata dall’ingresso del paese, ma ora arricchita da due elementi molto etnici quali manzi piemontesi e pali della luce.

Dalla chiesa un sentiero lastricato scende nei prati e si inoltra nel bosco, fino a un torrente, che prende a costeggiare. Raggiungo così la cappella di san Sebastiano, costruita presso dei mulini, fuori dai centri abitati. I mulini rimasero attivi fintantoché l’agricoltura di montagna produsse cereali da macinare, quassù principalmente avena e segale, quindi caddero in disuso. Una testimone di Revelli racconta che il mulino di famiglia forniva loro un discreto reddito. Oggi non ne è rimasto che qualche muro, con l’immancabile affresco di Boneto. Il meglio degli affreschi di san Sebastiano è invece all’interno, perché fuori ci sono solo due santi, Bernardo e Cristoforo, ancora identificabili da un occhio allenato, ma di cui non sono rimasti molti brandelli. Dal momento che in questi si vedono delle botteghe artigiane, è stato ipotizzato che la committenza sia loro qualche corporazione. L’autore è Giovanni Baleison di Demonte, noto soprattutto per aver affrescato Notre Dame des Fontaines a Briga assieme a Giovanni Canavesio. La visita è perciò rimandata a quando avrò le chiavi.
Adesso mi tocca asfalto fino al termine, ovvero per circa un chilometro e mezzo. Quasi subito trovo la presa di una piccola centralina idroelettrica, che è il modo in cui al giorno d’oggi si continua a sfruttare la forza del torrente, quindi assisto allo spettacolo di un pastore che raduna il suo gregge di pecore. Il ragazzo, che dall’aspetto slanciato parrebbe essere originario di qualche altopiano dell’Africa orientale, arriva con il suo cane da valle, le chiama dal prato con un comando secco e la fattiva collaborazione del cane, quindi le guida fino al recinto notturno, nei pressi del suo camper, dove c’è anche un maremmano legato.
Tutto questo avviene accanto al santuario di Biamondo, oggi dimesso e con segni di abbandono, pur essendo ancora in piedi, mentre in passato polo attrattivo, a quanto racconta il Casalis: «tenuto in grande venerazione da quei popoli alpini che vi accorrono in folla dalle circonvicine terre, massime in occasione della festa che vi si celebra nella prima domenica di settembre».
A Vernetti, dove i tedeschi si stanno rilassando nel cortile davanti a birre e aperitivi, recupero la chiave della cappella, salgo in auto per la poca voglia di camminare con il cavalletto in mano, per andare a visitarla e fotografarla. I dipinti si trovano in parte sulla volta sopra l’altare e in parte in una nicchia a fianco. Nei primi sono raffigurati episodi della vita di san Sebastiano e dell’infanzia di Gesù, tratti sia dai vangeli canonici (strage degli innocenti, fuga in Egitto, adorazione dei Magi) che dagli apocrifi. In uno di questi ultimi c’è un Giuseppe intento a preparare la minestra, al lavaggio di Gesù neonato da parte della levatrice Zachele, a significare la sua estraneità al mistero dell’Incarnazione, un tema provenzale. Mi soffermo a guardare i volti, ben connotati, immaginando che raffigurino i montanari di allora; i vestiti sono secondo la moda provenzale del tempo.
Torno a Vernetti quando è troppo tardi per una merenda e troppo presto per una cena, per cui mi limito a restituire le chiavi e salire in auto, diretto a casa. Non mi viene neppure in mente di riempire una borraccia di acqua da portare in pianura.

Per approfondire

G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
L. Dematteis, Case contadine nelle Valli Occitane in Italia, Ivrea 1983
A. Ferrari, I santi in Piemonte tra arte e leggenda, Torino 2017
F. Fontana, Skyline, Modena 1978
R. Pellerino - D. Rossi, Le chiese di Mistà, Cuneo 2012
R.H. Razminowicz - M. Kreuzer - M.R.L. Scheeder, Quality of retail beef from two grass-based production systems in comparison with conventional beef, Meat Science 73 (2006) 351–361
N. Revelli, L'anello forte, Torino 1985
N. Revelli, Il Mondo dei vinti, Torino 1977
K. Sithyphone et al., Comparison of feeding systems: feed cost, palatability and environmental impact among hay-fattened beef, consistent grass-only-fed beef and conventional marbled beef in Wagyu (Japanese Black cattle), Animal Science Journal (2011) 82, 352–359

Galleria fotografica

Brieis
Brieis
Monviso e Bettone
Monviso e Bettone
Brieis
Brieis
Borgata superiore
Borgata superiore
Parrocchiale di Marmora
Parrocchiale di Marmora
Reinero
Reinero
Celle di Macra
Celle di Macra
Celle di Macra e Monte Rubbio
Celle di Macra e Monte Rubbio
San Massimo
San Massimo
Ussolo
Ussolo
Monte Buch
Monte Buch
Monte Buch
Monte Buch
San Massimo
San Massimo
Reinero
Reinero
Reinero
Reinero
Arvula
Arvula
Arvula
Arvula
Tolosano
Tolosano
San Massimo e Monviso
San Massimo e Monviso
Giors Boneto
Giors Boneto
Il pastore del Biamondo
Il pastore del Biamondo
San Sebastiano
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