Vallone delle Cime Bianche 3000 m
Val d'Ayas
29 luglio
In un baleno
I viaggi sui sentieri sono spesso viaggi nel passato. Questo lo è senz'altro, ma è soprattutto un viaggio nel presente e nel futuro
Diario di viaggio
«Non andate al colle delle Cime Bianche: c'è il ghiacciaio», mi disse una zia che c'era stata negli Anni ’40. «Questo colle presenta sulla sommità (m. 2980) una vasta piazza ghia-
iosa raramente tutta sgombra da neve e che, facendo coppa, trattiene
uno spazio d'acqua», scriveva infatti nel 1886 Alessandro Martelli, autore con Vaccarone delle guide delle Alpi Occidentali. «Questa zona ha purtroppo perso molte delle sue caratteristiche originarie in quanto gli impianti delle società sciistiche della Valtournanche hanno iniziato a estendersi anche nella valle d'Ayas e forse non è lontano il giorno in cui le due valli saranno collegate sciisticamente. Ciò porterà indubbiamente grandi vantaggi per il turismo e gli sport invernali, ma non si può non constatare che l'interesse escursionistico di queste belle località viene ad essere irrimediabilmente compromesso», profetizzava però nel 1983 la guida comprata dai miei genitori, quando l'anno successivo trascorsi in questa valle le prime vacanze in montagna della mia vita.
Dal 2017 ha cominciato ad incombere il progetto di un collegamento tra i comprensori del Monterosa Ski e di Cervinia, che passerebbe proprio da questo vallone finora lasciato intatto dalla monocultura degli impianti da sci. Finora non si è concretizzato, per la corale opposizione di chi auspica in un futuro diverso del turismo, in cui le impronte sulla neve sono l'unica traccia che lasciamo, ma nemmeno è stato accantonato. I costi degli skipass sono sempre più elevati in rapporto al reddito medio, ma ciononostante le società proprietarie degli impianti a fune sono in passivo. Gli amministratori continuano a ripianare i debiti e non sembrano avere immaginazione sufficiente a visualizzare un futuro diverso, in cui il territorio è fruito per tutto l'anno e non solo nei sempre più brevi mesi di innevamento.
L'abate Gorret, di cui si parlerà a breve, scrisse già all'epoca del primo turismo che «un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato. […] Chi viaggia per studio o per svago può trarre piacere anche dalle privazioni, e si adatta facilmente per raggiungere il suo scopo» (L. Colliard [a cura di], Abbé Amé Gorret: autobiographie et écrits divers, Valtournenche 1987). Oggi questa dimensione del turismo alpino, come viaggio e scoperta di un territorio, della sua gente e della sua cultura, si va marginalizzando ogni giorno di più. Il modello vincente è invece quello di trasformare la montagna in una dépendance urbana: da un agglomerato di seconde case una seggiovia ci porta alla partenza della pista di downhill, un elicottero sulla cima da scendere con gli sci, la navetta alla partenza del volo appeso alla fune (l'ha fatto anche la Ferragni), come la metropolitana sul posto di lavoro. Un bollettino GEAT, ai tempi delle prime esplorazioni spaziali, paventava un futuro in cui si sarebbe saliti in cima con i razzi: non ha sbagliato di molto. Il territorio non è più esplorato e valorizzato per quello che è, ma impiegato come commodity di un'attività estranea ad esso, in cui contano unicamente il gesto tecnico e le sensazioni personali.
Il vallone, oltre la bellezza naturalistica, offre anche storie medievali: infatti di qui allora transitava la Krämerthal, una via commerciale diretta in Svizzera attraverso il colle del Teodulo. Inoltre, nei pressi dell'imbocco del vallone ci sono le prese del ru Curtod (adotto qui una trascrizione fonetica italiana, infinite altre sono adoperate da vari autori). È un canale, costruito nel Medioevo, che raccoglie l'acqua dei ghiacciai di per irrigare i prati solatii della Valle Centrale, privi di sorgenti. Scendendo da un sentiero alternativo al battutissimo 6 è possibile visitare tali prese.
Dal momento che St. Jacques è zona a traffico limitato, lascio l'auto in uno dei parcheggi lungo l'Évançon, nella strettoia della valle prima della frazione. La temperatura è di 9°, per cui i molti escursionisti, che stanno partendo come me intorno alle 9, sono ben coperti. La piazza del paese è invece già al sole e la temperatura è più mite. Riempio la borraccia alla fontana e mi avvio per ripida la strada diretta alla frazione Blanchard. Lo spumeggiante torrente, che proviene dai ghiacciai del Monte Rosa, ha una caratteristica colorazione lattiginosa e fa un rumore tale, che ricordo come fosse impossibile parlare con la finestra aperta, sul nostro alloggio sulle sue sponde. Nelle foto d'epoca, di prima della carrozzabile, appare molto meno infossato e più ad est, indice di una rettificazione e di un restringimento a beneficio del parcheggio attuale.
Il nome completo della frazione è St. Jacques des Allemands, in quanto in un passato remoto la zona fu colonizzata dai Walser, che nel secolo XVI emigrarono in massa verso lo Jura, provocando la perdita dell'identità alemanna nella comunità rimasta. Nell'Ottocento fu eremo dell'abate Gorret (1836-1907), che vi trascorse due decenni della sua vita errabonda di perenne esiliato. Fu uno dei religiosi valdostani, al pari di Chamonin e Chanoux, che in quegli anni pionieristici promossero l'alpinismo in Valle d'Aosta.
Fu valente alpinista in gioventù egli stesso e poi membro onorario del CAI. Propugnò e partecipò alla prima ascensione del Cervino dal versante italiano, insieme a Carrel, anche se mancò di pochi metri la vetta, sacrificandosi a beneficio dell'impresa. Durante questa iniziazione vide lo spettro del Brocken e solo per questo lo sento affine, perché anche io lo vidi la prima volta in occasione di un'esperienza che aspettavo da tanti anni, seppure di natura assai più contemplativa che avventurosa, com'è nel mio carattere. Fu quindi protagonista di svariate altre prime ascensioni. Scrisse la prima guida alpinistica della Vallée e progettò di stenderne una anche per l'Oisans, se ragioni politiche non lo avessero però costretto ad abbandonare il Delfinato. Lì si era rifugiato ad un certo punto, per sfuggire al clima sociale valdostano e dare sfogo alla sua passione per la montagna in terre vergini.
Il suo carattere passionale e focoso mal si conciliava infatti con il clima sociale rinserrato della sua terra. Anticonformista e anarchico per spirito, trovò la sua àncora nell'ortodossia dottrinale cattolica, mentre si scontrò con le persone che la rappresentavano, da cui fu emarginato. Visse invece in maniera laica l'amore per la montagna, ritenendo il nascente turismo una prospettiva di progresso e apertura per i suoi conterranei.
Durante gli anni dell'eremo forzato o confino che dir si voglia, lo colse una paralisi mentre camminava, che lo indirizzò al tramonto fisico e intellettuale. Si rintanò nel suo antro di passioni e vino e ingigantì la sua fama di Ours de la montagne, uno dei vari soprannomi che gli furono affibiati o con cui si autocelebrò.
Oltrepasso il torrente su un ponte e prendo a salire abbastanza ripidamente nel lariceto, prima su mulattiera lastricata e poi su battutissima traccia per bosco roccioso. La maggior parte degli escursionisti è diretta al piano di Verra e di qui al lago Bleu oppure al rifugio Mezzalama, al cospetto dei ghiacciai del Rosa, le due escursioni più frequentate dell'alta valle. Tra una certa folla, raggiungo la piccola frazione di Fiery, dove dal 1867 operò un albergo oggi dismesso. Quando si saliva a dorso di mulo e faceva poca differenza fermarsi a St. Jacques o qui, vi soggiornarono illustri alpinisti inglesi e anche regine di casa Savoia. La stanza più buia e infelice era riservata alle guide, un'usanza che ho visto rispettata tutt'oggi in alberghi della Valle d'Aosta. Sempre in un lariceto rado, salgo con uno scorcio sul Castore, che peraltro avevo già visto con altre cime del Rosa e la punta del Cervino da Frachey, salendo in automobile.
Raggiungo un gradino vallivo, dove c'è un prato in piano con un alpeggio diruto e relativo ru. Più in basso ce n'è uno invece nuovo, con il tetto in lamiera e le vacche al pascolo al di sotto. La vista sulla valle e le cime al confine con Gressoney è strepitosa; adesso sono nel blu dell'ombra, ma la giornata è molto tersa e si stagliano nitide. Sul versante opposto del vallone, invece, una barriera di pareti e cime chiude la valle. Nella piramide della Roisetta mi sembra di riconoscere pietre verdi a vario grado di ossidazione. Verso monte si riconoscono già delle striature di rocce calcaree, che formano le cime alla testata, ancora invisibili.
A tornanti nel prato supero un salto erboso e raggiungo un grande altopiano, che si estende ondulato per un lungo tratto, racchiuso sulla sinistra dal precipizio che scende al torrente principale del vallone, mentre sulla destra sfuma gradualmente nella zona di sfasciumi ai piedi della Gobba di Rollin. In mezzo ci scorre un rio che talvolta s'impaluda. Questo vallone ha due torrenti: questo e quello che scorre sul fondo, in un valletta adiacente l'altopiano ma più incassata. Questa complessa e inusuale orografia è dovuta alla compresenza di rocce erodibili e altre più tenaci, che sono state meno scavate da ghiaccio e acqua.
Faccio una pausa su una pietra, con vista sulle tre Cime Bianche comparse frattanto all'orizzonte. Il colore è dovuto alla roccia calcarea, non frequente in Valle d'Aosta, di cui si riconosce un'inclusione nella bastionata a monte della Roisetta. In direzione opposta scende intanto un signore di corsa, mentre vari escursionisti mi sorpassano, per poi deviare quasi tutti verso il bivacco Città di Mariano, il cui puntino giallo riconoscerò in una foto scattata dall'alpe Varda. Al bivio trovo anche dei giovani con grandi zaini, in fase di discesa.
Proseguo per l'ameno altopiano, spesso fiorito, ma senza eriofori, visti pochi giorni addietro sulle Alpi Marittime, ma qui ancora assenti. Il sentiero si destreggia tra le zone paludose. Gli altopiani terminano all'alpe Mase, diroccata. Risalgo una valletta e ne supero il torrente; presso il guado trovo una pecora zoppa isolata. Raggiungo un pianoro solcato da un grande rio glaciale, che guado anch'esso, sempre su guado agevolato. Nei pressi del rio c'è una roulotte con accanto un recinto con un cavallo, che assomiglia ai TPR (Tiro Pesante Rapido) che portano i turisti a zonzo tra i giardini della Reggia di Venaria, e un pony. Dei cani fanno da guardia, per cui non oso avvicinarmi, anche se il fotoamatore che c'è in me ne è attratto. Mi chiederò lungamente come abbiano fatto a portarla qui, magari smontandola e rimontandola. Tuttavia concludo che, nella ricca e sovvenzionata Vallée, la risposta più ovvia sia l'elicottero. Su un dosso sopra la roulotte, un enorme masso erratico contempla immoto la scena. Ancora più distaccata mi sembra la lontana Testa Grigia. Quando venni qui in vacanza da bambino, in paese villeggiava un collega di mio padre, il quale era solito definire “giornata da testa Grigia” i giorni tersi come oggi. In effetti, anche se ci sono salito quasi quarant'anni fa, ricordo ancora distintamente come fosse fantastico il panorama dalla cima. La regina Margherita una volta ammirò l'aurora dalla vetta.
Supero il copioso rio glaciale su guado sistemato e affronto un erto strappo su sentiero molto incavato, dove incrocio un giapponese muto e copertissimo, credo per il loro terrore di abbronzarsi più che per l'aria frizzante. Proseguo tra verdi dossi, che secondo l'abate Gorret erano detti “pascoli di Rollin”, mentre “comba di Rollin” era la conca dove c'è la roulotte; Gobba di Rollin, infine era il piatto ghiacciaio che segna il confine con la Svizzera. Le vette hanno cioè preso i nomi dal basso e non viceversa. È un processo che può sembrare strano all'escursionista odierno, interessato alle cime, ma per gli alpigiani erano degni di nota e di essere nominati i territori di pascolo, mentre solo la gente venuta dalla città era interessata alle sterili vette. È persino strano che gli alpigiani dettero loro un nome, quando più spesso le lasciavano anonime e, solo più tardi, i cartografi militari le battezzarono. Oggi il ghiacciaio sta sospeso ben lontano da qui mentre a fine Settecento de Saussure osservò «una massa notevole di ghiacci che si sovrappongono gli uni sugli altri e che successivamente sprofondano in un abisso».
Infine raggiungo il guado, oltre cui c'è il bivio con il sentiero 6A diretto al colle inferiore e il 5A alle prese del ru Curtod, che intendo percorrere al ritorno. Oltre il torrente, le pecore sono sparpagliate su un pendio lontano. Il pastore manda due maremmani a compattare il gregge. Non attraverso e continuo a seguire il torrente, fino a guadarlo nei pressi del Gran Lago. Qui lascio il sentiero diretto al colle, costeggio un primo laghetto azzurro come il cielo e raggiungo il lago più grande, dove mi accomodo a pranzare. Accomodo è forse un termine inappropriato, perché la sponda del lago è occupata da pietre irregolari, per cui un sedile confortevole o un ciuffo d'erba sono una chimera: questo lago segna il confine tra la montagna verde dei prati fioriti e l'ambiente pietroso d'alta quota. D'altronde, dal momento che in vetta mi aspettano gli skilift, mi sembra questo il luogo più acconcio. Poco fa era apparsa in alto la stazione di arrivo degli impianti di risalita, mentre da qui risulta nascosta.
Sulla sponda opposta c'è una famiglia con figli piccoli, che si divertono a lanciare pietre nel lago, come facevamo io e soprattutto mio fratello da bambini, per la disperazione di mio padre, che non riusciva mai a fotografare i riflessi; sulle sponde del primo ce n'era invece una con figlio adolescente. Nessuna cima notevole si riflette sulle sue acque, ma solo mammelloni detritici privi di carattere e qualche chiazza nevosa; il colore del lago e il suo contrasto con la solitudine muta dell'alta montagna restano l'aspetto più incantevole.
La salita al colle Superiore o Nord delle Cime Bianche è contraddistinta dalla vista dei due laghetti blu nella conca pietrosa, che si amplia a mano a mano per poi scemare quando mi approssimo al colle. Lì mi attende la vista del Cervino e della Gran Sometta, la più alta delle tre cime calcaree, tra gli impianti di risalita con i relativi spianamenti e un invaso telonato, riserva per la neve artificiale. Trovare il Cervino privo di nuvole in un pomeriggio estivo non è certo un evento frequente, probabilmente merito dell'anticiclone africano. C'è persino una spolverata di neve, che gli conferisce un aspetto d'antan: una volta restava imbiancato per quasi tutta l'estate, salvo anni particolarmente caldi, come il 1865 della scalata di Carrel e Gorret, dettaglio che consentì loro di salire più agevolmente. Ricordo che nel 2015 avrebbero voluto celebrare l'anniversario illuminando la montagna di notte, un altro esempio di importazione della città in montagna e segno di subalternità culturale. I lampioni sono consonanti con la Pietroburgo di Gogol e con la Parigi di Haussmann, mentre sui monti non fanno altro che privarci del cielo stellato. I monti sono già illuminati da luna e stelle e non hanno perciò alcun bisogno delle violente lune elettriche della modernità: la foto nella galleria, scattata qualche anno fa dal lago Blu durante un tramonto lunare, è lì a dimostrarlo.
Ora, se fossi un viaggiatore dei secoli passati, dovrei continuare a salire, attraversando il ghiacciaio in direzione del colle del Teodulo. Avrebbe voluto fare così ad esempio il celebre Horace Benedict de Saussure, quando viaggiò attorno al Monte Rosa agli albori della Rivoluzione Francese. L'espansione dei ghiacciai non interruppe infatti le vie medievali, in quanto le carovane continuarono a transitarvi. Lo stesso de Sasssure nel medesimo viaggio aveva valicato il passo del Gries in val Formazza, dove fino a pochi decenni fa c'era il ghiacciaio e la via, aperta dai walser di Formazza nel medioevo, era ora marcata da pali di legno infissi nella neve. Tuttavia, per una fitta nebbia e l'assenza di tracce sulla neve, la guida consigliò di scendere all'allora misero villaggio estivo di Breuil, dove trovarono a malapena un precario alloggio. Oggi ci sono invece i condomini per sciatori di Cervinia, la cui desolazione postatomica fuori stagione, ovvero almeno da Pasqua a Sant'Ambros, è ben riprodotta nel film “Figli delle stelle” (è uno dei due motivi per vederlo).
Lo scienziato svizzero non era certo un apripista: fin dal Medioevo, da prima che i ghiacciai occupassero queste zone, mercanti le percorrevano. La carta svizzera di Tschudi (1538) riporta infatti il colle del Teodulo, allora detto Mons Silvius, e il toponimo di Ayeczo con accanto la scritta Kräthal, come via commerciale tra la Svizzera e l'Italia. La via era detta appunto Krämerthal, valle dei mercanti ambulanti, e metteva in connessione il Mediterraneo con l'Europa Centrale, permettendo ai prodotti tropicali asiatici, importati dalle repubbliche marinare, di raggiungere il cuore del continente.
Sin dal primo Duecento è ben documentata a Genova la presenza di Alamanni, che non solo commerciavano con la madrepatria, ma svolgevano le più disparate professioni. In città esisteva un hospicium specializzato nella clientela teutonica. Legami tra la valle e la Superba sono testimoniati dai matrimoni tra gli Challant, i signori del luogo, e i Fieschi genovesi. A riprova delle relazioni commerciali, in atti come testamenti o doti della nobiltà locale, compare il fiorino genovese come moneta di riferimento.
Risulta difficile capire se vi fossero valdostani a Genova o nei suoi possedimenti mediterranei, in quanto nei documenti era solamente indicata la provenienza dal Ducato di Savoia, questa sì, assai ben certificata fin nella lontana Cipro. Più sicura è la presenza di abitanti di Ayas in Svizzera, di cui parlano ripetutamente anche i geografi svizzeri, come Simler e Scheuchzer. Sulla presenza di svizzeri in valle è rimasta un racconto orale di un rapimento di donne, che ha come protagonisti proprio mercanti elvetici stabilitisi a Saint Jacques.
Quanto alle merci, apparentemente non vi era limite, dal momento che nei contratti notarili ne sono documentate di ogni tipo in ogni verso. Si andava dalla seta e le spezie orientali, ai prodotti dell'industria tedesca. Vi transitava anche la cultura, a volte clandestina: a partire dal XVII secolo infatti, divennero comuni i colporteurs, i venditori di stampati, un'attività in cui erano specializzati proprio i montanari. I librai di Briançon arrivarono a controllare un quarto del commercio librario nell'Europa meridionale, seguendo i ritmi e i percorsi delle loro migrazioni stagionali.
Le vie transalpine nacquero infatti come evoluzione dei percorsi migratori stagionali o permanenti dei pastori di montagna: molte vie commerciali non fecero altro che ricalcare vie di transumanza. La Krärthal entrò in crisi dal Seicento, per il connubio tra i cambiamenti climatici e una molteplicità di fattori politici, come il trasferimento della capitale a Torino, che spostarono il transito sul Moncenisio e lo resero il principale valico delle Alpi Occidentali per i secoli successivi, o la tendenza generale verso una concentrazione del transito su pochi valichi.
Vie commerciali come questa provocarono ripercussioni non da poco sulle valli attraversate. Ho già citato come consentisse agli ayassini di specializzarsi nel commercio ambulante e il proliferare dei notai nella località: consentirono quindi ai montanari di svincolarsi dall'attività puramente agricola. Permetteva inoltre ai montanari e ai cittadini dei luoghi di sosta di negoziare con il potere centrale una serie di privilegi connessi con la propria posizione strategica, che contribuivano anche a modellare il senso di identità delle comunità interessate.
Naturalmente la presenza della strada comportava anche degli oneri. Il primo era quello di difesa dalla concorrenza degli stranieri, regolata dai medesimi statuti già citati per i diritti sulla strada. Quanto alla costruzione e alla manutenzione, dopo che nell'Alto Medioevo era collassato il sistema romano e le infrastrtture erano cadute preda del degrado, per iniziativa dei Comuni e delle Repubbliche Marinare furono stipulati contratti con imprenditori o signori locali, per la costruzione dei tratti mancanti. Completate le opere, la gestione passò alla comunità rurali. I walser, ad esempio, ebbero un ruolo centrale nella costruzione del ponte sulle gole del Reuss e perciò nell'apertura delle gole di Uri al traffico someggiato, aprendo così la via del San Gottardo, grazie alla loro abilità di carpentieri necessaria ad attrezzare i sentieri in zone impervie: l'opera sembrò tanto stupefacente da meritare una storia fondativa leggendaria.
Oggi invece le autostrade e ancor più i tunnel di base delle ferrovie attraversano il territorio con un'ottica coloniale, senza portare benefici ai territori. Anzi, consumano terreno, seccano sorgenti, scaricano gas, impongono dazi anche ai locali che ne vogliono usufruire e non restituiscono nulla in cambio, essendo gestite da centri di comando lontani. C'è un problema di fondo: la società della ruota è una società di pianura. Dopo aver dissanguato di abitanti le terre alte, ammassando invece gente in basso, le vede come ostacolo, da superare annullando la loro specificità, forandole, come se non ci fossero. Nel mondo del trasporto someggiato, invece, esse erano un ponte, una cerniera tra i due distinti mondi mediterraneo e germanico.
Aggiro il laghetto artificiale e raggiungo la palina del colle. Nei pressi, su un masso trovo l'indicazione per il sentiero 20 che mi condurrà al colle inferiore. La segnalazioni non sono sempre frequenti, ma ogni tanto qualche abbozzo di traccia è rimasto, nonostante gli impianti, che comunque incombono: di fatto costeggio uno skylift. Mi affaccio intanto sul colle inferiore, dove ci sono altri impianti e una strada, sul cui tornante staziona un branco di cuccioli di stambecco. Mi sembra che la mia lontana apparizione sia già sufficiente a inquietarli. La centrale delle Cime Bianche, che qui si vede dall'alto, perde la sua nobiltà di torrione e appare come un grumo di roccia. In lontananza vedo i ghiacciai del Gran Paradiso.
Raggiungo e oltrepasso vari gabbiotti di cemento di servizio e arrivo ai piedi del colle inferiore. A questo punto, un vero alpinista punterebbe alla cima della Gran Sometta, da cui secondo Carrel si vedono il Viso e il Bianco. Io invece mi metto alla ricerca del sentiero di discesa, senza però trovare segnalazione alcuna. Estraggo la carta (sulla mappa GPS questo né quello che percorrerò fino al ru Curtod sono riportati) e vedo che devo tornare ai gabbiotti. Di lì vado nella direzione suggerita e, qualche dosso più avanti, compare una traccia balbettante e persino un qualche ometto. Mi affaccio sul lago Perduto dal nome romantico, appena raggiunto da due escursionisti, e quindi su una balza erbosa. Le segnalazioni restano monche e sporadiche, come i denti di un vecchio montanaro ottocentesco.
Intanto l'intestino fa sentire la sua voce. Ho fatto appena in tempo a ricompormi e far sparire le tracce, che sento una voce dall'accento piemontese: «Potevano segnarlo meglio questo sentiero, neh?» «Non ci siamo ancora persi», rispondo connonchalance. Due vecchi erano sulle mie tracce. Mi metto io ora sulle loro. Senza incertezza alcuna procedono a passo spedito, fiutando gli ometti con l'abilità e la sicumera di un cane da trifolao. In un batter d'occhio arriviamo così al guado, dove sono seduti i pastori e le pecore sono il soggetto più ambito dai fotografi di passaggio.
Mentre i due studiano il punto migliore dove guadare (il torrente è molto ampio, ma placido), chiedo al più giovane dei pastori se la traccia, che vedo su questo lato del torrente puntare a valle, è quella che mi interessa per scendere. Lui me lo conferma e mi lancio. Nell'ansia di trovarla, mi sono dimenticato di chiedere della roulotte e di avvisarli della pecora zoppa.
Anche stavolta segnalazioni e traccia latitano, per cui ricorro di nuovo alla carta, da cui capisco di dover aggirare i dossi erbosi di fronte stando contro il pendio. In effetti qui qualche ometto e freccia gialla si fanno vivi. La traccia sarà per lo più esile o assente fin quasi al ru, ma ad ogni modo con buona visibilità è abbastanza difficile perdersi, perché non ci sono false piste né bivi e basta grossomodo costeggiare il torrente. Il fondo è un po' sconnesso, c'è qualche tratto di pietraia non sistemata; qua e là rii laterali invadono il sentiero, creando passaggi paludosi, mentre altre volte rii ora secchi hanno trascinato a valle copiose quantità di detriti sassosi; il soliflusso fa il resto. Niente di letale, ad ogni modo, solo assai scomodo e a volte equilibristico. Poco sopra quota 2300 ci deve essere stata un'alluvione, con deviazione del torrente: vedo in fatti una tacca nel bel mezzo di un isolotto e poi devo superare una sponda franata, senza particolari patemi.
Il paesaggio è completamente diverso rispetto a quello del sentiero di salita, pur essendo questo a breve distanza. Innanzitutto mi trovo schiacciato contro i pendii erbosi e le soprastanti pareti rocciose che sbarrano il vallone verso la Valtournanche. Sono inoltre decisamente più in basso rispetto a stamattina, accanto all'alveo del torrente principale. Tuttavia non mi arriva la sensazione di claustrofobia, perché la valle ha un fondo arrotondato e molto verde, con abbondanti fioriture. Solo non scatto foto, un po' per la tensione del sentiero impervio e incerto un po' perché non saprei bene cosa riprendere: è uno di quei paesaggi dove mi sembra di dover usare il grandangolare per riprendere l'insieme, salvo poi scoprire a casa che la foto è priva di sapore.
Dopo lungo peregrinare arrivo finalmente ad affacciarmi dall'alto sulle prese del ru Curtod. Un ultimo tratto di sentiero ripido, nel prato, subito dopo la più lussureggiante fioritura di nigritella mai vista. La traccia è ora ben marcata, ma mi attendono ancora un po' di pietraia non molto sistemata, un impluvio sprofondato nei suoi detriti, delle pietre ballerine. Raggiunto il prato a monte delle prese, eleggo un sasso a sede della merenda: tè, biscotti non del tutto sbriciolati da una giornata nello zaino e frutta compongono il menu. Finisco di svuotare la borraccia, ma finalmente il sole sta tramontando dietro la catena rocciosa e vedo del bosco all'orizzonte, per cui non dovrei più patire il caldo.
Il ru fu costruito per trasportare l'acqua di fusione del ghiacciaio di Ventina verso i pendii assolati dell'adret tra il col de Joux e Saint-Vincent. La zona è molto adatta all'agricoltura e alla pastorizia, sia per l'esposizione solatia, sia per le rocce molto sfaldabili che generano ampie porzioni di terreno arabile e pascolabile. Come tutte le valli interne alpine, è però arida. Pertanto, in un contesto sociale abbastanza libero dagli obblighi feudali e sufficientemente ricco da avere un surplus per gli investimenti, nel Trecento nacque il progetto di questo lungo canale, ben 25 km. In seguito ai primi anni aridi che preannunciavano gli estremi climatici della Piccola Era Glaciale, nel 1393 un gruppo di diciotto famiglie della zona, che ben presto si estese, ottenne una concessione da Ibleto, signore di Challant, per captare l'acqua. I lavori richiesero quarant'anni: nel 1433 il canale entrò in funzione, in seguito a un accordo con il figlio di Ibleto, nel frattempo elevato al rango di conte. L'atto garantiva ai concessionari, ai loro eredi ed eventuali acquirenti il diritto perpetuo di sfruttamento.
La soluzione adottata per finanziare le complesse opere di scavo, manutenzione e gestione fu quello delle corvéè. In cambio i lavoratori e le lavoratrici avrebbero avuto l'acqua gratis: a tante ore di lavoro corrispondevano precise ore di irrigazione. In alternativa, la famiglia poteva offrire denaro per remunerare salariati; un altro modo di finanziamento erano le multe per i furti d'acqua. Solo la peste manzoniana, che in valle colpì duro, fece venire meno alcuni contraenti ai loro doveri. Oggi le sorti dell'opera irrigua sono rette dal Consorzio per il miglioramento fondiario Rû Courtaud, un ente privato non-profit, che si finanzia in parte ancora con corvée, in parte con sovvenzioni pubbliche. L'acqua è fornita gratis, in proporzione alla superficie irrigua. Con la scomparsa dell'agricoltura di montagna, gli appezzamenti sono principalmente impiegati per l'allevamento.
Il metodo di finanziamento e gestione dell'opera ha perciò resistito per sei secoli e per questa ragione interessa gli economisti ancora oggi. La soluzione di un'opera pubblica finanziata direttamente dai beneficiari tramite lavoro minimizzava la necessità di denaro, che nel Medioevo era un bene scarso. L'opposizione religiosa al prestito a interesse era molto sentita. Si pensi al dispregio riservato da Dante a questi peccatori nel canto XVII dell'Inferno: posti nel girone più basso dei violenti, sono liquidati in pochi versi con connotazioni animalesche, senza concedere loro alcuno scampolo di dignità umana.
Il conte di Challant, che ottenne il diritto a un giorno la settimana di acqua per sé, ci guadagnò più così che finanziando in proprio l'opera e facendo poi pagare l'acqua ai beneficiari, cosa che avrebbe richiesto risorse e uomini superiori alle proprie capacità operative. Per i partecipanti si trattava di fornire manodopera, che all'epoca era numerosa e costava poco, in cambio di un surplus di produzione agricola, ovvero più cibo per tutti o preziose entrate monetarie: un'operazione conveniente.
Il ru è perciò un eccellente esempio di opera di pubblica utilità finanziata dal basso, senza bisogno di risorse esterne, e con una prospettiva di lungo termine. Lo spirito concreto e visionario dei montanari valdostani è ammirevole, tanto più se si considera che altrove reagirono a quella crisi climatica con la caccia alle streghe. Oggi ai benefici si è aggiunta la fruizione turistica, perché la strada di servizio permette una camminata lunga ma pianeggiante e agevole, accessibile a chiunque, in un piacevole lariceto.
Decido non di fare una visita accurata alle prese, ma di accontentarmi della vista da qui. Il sentiero resta ancora alto rispetto alla strada, che corre sul ru. Ho visto dalla carta che non devo seguirla, ma proseguire in discesa e poi innestarmi sull'8E, che posso imboccare in ambo le direzioni, entrambe dirette a Saint Jacques. Entrando in una zona più civilizzata, il sentiero diventa più agevole, ma non smarrisce il suo amore per le pietraie. C'è anche un simpatico guado senza pietre sopra il pelo dell'acqua.
Raggiungo l'alpeggio diroccato omonimo del ru, vecchie baite con incise delle date novecentesche e della legna ancora accatastata. Nel prato sottostante vado a confluire nel nuovo sentiero. Non c'è nessun cartello, ma unicamente un'indicazione dei numeri su un masso visibile da chi sale. Ero curioso di sapere se fosse indicato come E oppure EE. Sull'elenco dei sentieri annesso alla cartina è indicato come E con un tempo di percorrenza in salita di appena 2.30 ore fino al guado, quanto ce ne ho messe io in discesa. Estiqaatsi… pensa: dove sentiero c'è, escursionista zitto e cammina.
Decido di seguire il nuovo sentiero in discesa, per risparmiarmi risalite superflue. Entro in una boscosa gola del torrente, tra abeti rossi e larici. L'ampia mulattiera è stata percorsa da poco da mandrie di vacche, che sentirò scampanare più in basso. Mi godo il fresco e l'ombra nella lieve discesa, potendo finalmente levare il cappello dalla testa. Devo ancora trovare una deviazione e per fortuna è indicata. Aggiro un zona melmosa per il calpestio delle bestie e imbocco la pista in discesa. Qui sono in corso dei lavori forestali, sospesi in questo momento. Il sentiero sarebbe pure chiuso, ma ciò è indicato solo per chi sale: gli anelli non sono previsti. Ad ogni modo la pista diventa sentiero, in un bosco ombroso e umido, per poi sbucare sulla strada. Qui evito di seguire dei sentieri in quota, che mi sembrano andare verso delle proprietà, anche se secondo la carta si allacciano a quello di Fiery, e proseguo invece sull'asfalto, fino a ricongiungermi alla strada per Blanchard con un ponte sull'Évançon, che nasce proprio qui vicino dall'unione dei due rii glaciali di Curtod e Verra. Nessun cartello indica che poco a monte parte un sentiero.
La gita finisce gloriosamente in un locale qualunque per turisti, che si va svuotando di clienti, mentre il sole cala dietro ai monti e devo indossare il pile. Anziché il menu di carta mi portano un moderno QR code plastificato. Novecentescamente, chiedo invece la versione stampata, perché sono restio a installare le app che, con la scusa di darti un servizio, controllano pure se hai le mutande pulite. Non me ne voglia l'abbè se, assieme a un piatto che porta l'appellativo Walser per del formaggio e del pane di segale, bevo la nordica birra protestante invece dell'ortodosso vino mediterraneo. Quando mi allontano, noto che c'è una bella luce serale sulla Rocca di Verra, ma la pigrizia mi frena dall'estrarre dallo zaino la fotocamera nel frattempo riposta (dovrei pure montare un graduato). Quando ero bambino e le previsione del tempo erano grossolane e inaffidabili, in paese dicevano di guardare la Rocca la sera e, se fosse stata coperta dalle nubi, il giorno dopo avrebbe fatto brutto tempo. A Torino gira la versione sarcastica di questa massima, che doveva essere molto diffusa. Tradotta in italiano suona così: «Quando Superga ha il cappello, o fa brutto o fa bello».
Con una scempiaggine ho concluso la descrizione degli spunti, che la visita del vallone Curtod mi ha permesso di scoprire strada facendo. Se andasse in porto il progetto di cabinovia, il piacere dell'escursione sarebbe compromesso per omnia secula seculorum. Infatti, anche se si rivelasse un pozzo senza fondo per i conti pubblici e fosse poi abbandonato, le strutture non sarebbero rimosse, ma rimarrebbero a imperitura memoria fino alla naturale consunzione: esattamente come sta capitando per tutte le stazioni sciistiche dismesse sulle Alpi. I numerosi fotografi che amano riprendere la modernità fatiscente si rallegrerebbero per questo nuovo soggetto, ma io non apprezzo, almeno non quando cammino.
A cabinovia in funzione, svilito il piacere del viaggio a piedi, resterebbe solo la possibilità di attraversarlo velocemente, guardandolo dal finestrino come se fosse un video su youtube, senza calpestarlo e toccarlo in prima persona. Dubito che un simile passaggio evocherebbe tutti questi racconti: il patrimonio culturale nascosto tra le sue pieghe andrebbe perduto in qualche scaffale polveroso e non potrebbe più essere sperimentato in prima persona. Ogni luogo è visitabile solo andandoci a piedi, per potersi fermare a contemplare e riflettere ogni volta che qualcosa ci cattura. Ciò che impedisce di godere appieno di questa esperienza, cancella tout-court il luogo e la sua memoria dalla faccia della Terra.
Per approfondire
- L. e G. Aliprandi, Le grandi Alpi nella cartografia 1482-1885 Volume I, Ivrea 2005
- Ayas: storia, usi, costumi e tradizioni della valle, Ayas 1968
- L. Balletto, Uomi e merci dalla Kräthal sulla via del mare, Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere Serie VI Vol. V 2002
- W. Beheringer, Storia culturale del clima, Torino 2013
- J. F. Bergeir - G. Coppola (a cura di), Vie di terra e vie d'acqua. Infrastrutture viarie e sistemi di relazioni in area alpina (secoli XIII-XVI), Bologna 2007
- E. Camanni, Cieli di pietra. La vera storia di Amé Gorret, Torino 1997
- M. Florio, Corvée versus money: micro-history of a water infrastructure in the alps, the rû Courtaud 1393-2013, XI Milan European Economic Workshop
- G. Rambaldi Morchio, Walser, mercanti e notai: il passato di Ayas e Gressoney attraverso i suoi protagonisti, Atti della Accademia Ligure di Scienze e Lettere Serie VI Vol. V 2002
- E. Rizzi, I Walser, Anzola d'Ossola 2003
- H. B. de Saussure, Viaggi nelle Alpi: passo del Gries e Monte Rosa, Anzola d'Ossola 2000
- Ayas: storia, usi, costumi e tradizioni della valle, Ayas 1968