Val Clavalité
Valle d'Aosta
20 luglio
In un baleno
Faccio loro un servizio fotografico completo, come alle cosce di una desnuda da calendario Pirelli sulla spiaggia dei Conigli. Devo anche loro la vita
Diario di viaggio
La val Clavalité è una delle innumerevoli valli laterali valdostane, che si caratterizza per l'assenza di paesi. Questo perché di fatto la valle comincia alla quota di 1500 m, dopo lo scalino della valle sospesa glaciale, con una conca ombrosa e infossata inadeguata all'insediamento permanente.
Con quest'anello ne visito il vallone principale e uno secondario. Nel primo corre una sterrata, che sale fino agli alpeggi, mentre nel secondo solo un sentiero poco battuto. I due sono raccordati da un sentiero costruito con generosità di mezzi, nonostante non colleghi zone di pascolo, una propaggine dei sentieri di caccia del roi chasseur, Vittorio Emanuele II. Chiude il giro una bretella fino a un superlativo lago in una conca erbosa.
All'autogrill mi propongono una variante forte di un noto caffè triestino, che accetto di buon grado; per essere un'arabica è effettivamente forte e pure necessaria, visto che fin qui ho faticato a tenere gli occhi aperti, dopo la sveglia alle 4. Sborso così una cifra spropositata pure rispetto a questo ultimo anno di inflazione galoppante. L'imbocco della strada valliva è segnalato nel centro di Fenis solo da cartelli abbondantemente inghiottiti dalla vegetazione, cosicché al primo passaggio la manco, notandoli solo all'ultimo istante, e devo pertanto fare inversione al primo spiazzo disponibile. La strada si inerpica a tornanti, per superare il gradino vallivo. Vari teloni scritti a spray fanno riferimento a un evento avvenuto dopo una lunga attesa, facendomi pensare a una protesta per lavori pubblici attesi magari già dal precedente millennio. Alle 6.30 c'è un certo flusso in discesa, soprattutto di grossi fuoristrada. Rimpiango di non aver puntato la sveglia alle 3-3.30 anziché alle 4, poiché godo solo dall'auto dell'aurora che tinge d'arancio le cime; invece alla partenza si sarà già dissolta nella luce bianca del giorno e non farò così in tempo a fotografarla.
Lascio l'auto all'ultimo spiazzo prima del divieto, dove un cartello annuncia un prossimo bar specializzato in ciucche di birra. Noto il Cervino alle mie spalle, tra le fronde dei larici, e provo così a cercare un punto di vista insinuandomi tra loro, ma trovo unicamente una panchina devoluta alla consultazione dell'internet, che deduco sarà inaccessibile dalla successiva conca. Metto perciò il cellulare in modalità aereo per non consumare inutilmente batteria.
Seguendo la pista, attraverso un bosco di conifere, con prevalenza di larici accompagnati da pini silvestri, abeti rossi e cembri. Oltre un dosso, mi affaccio su una conca erbosa cosparsa di casette, ognuna delle quali ha un nome di località, secondo un sistema di insediamento più walser che latino. Alcune hanno un'auto parcheggiata a fianco, mentre altre paiono chiuse. Nel margine a valle c'è un bacino idroelettrico di raccolta, dove si riflettono la Becca di Viou e la Tersiva, gli unici lembi di terra illuminati dal sole.
Scendo, vado a riempire la borraccia a una fontana e passo accanto al prefabbricato con tavoli esterni adibito a bar, in questo momento chiuso. Mi riprometto di curiosare tra le lavagne con i menu e gli orari di apertura al rientro. Rimando anche la visita alla chiesetta oltre il torrente con il medesimo proposito. Resto sul lato idrografico destro. Voltandomi noto che fa cucù il Cervino, seppure solo in silhouette, e studio così un punto di vista che lo includa.
Al termine della conca rientro nel bosco, continuando a seguire la pista fino a un ponte, dove seguo i segnavia per il vallone di Savoney e entro in un vallone dai ripidi fianchi e dal fondo stretto. Su una pista erbosa poco sopra il torrente, raggiungo un gruppo di baite minimamente ristrutturate presso una cascatella, da cui si diparte un piccolo ru dismesso. In un bosco di conifere a prevalenza di larici, il sentiero sale gradualmente fino al prato con gli ordinati mucchi da spietramento di Orgère, la cui baita è stata ancora ristrutturata con un tetto in lamiera, ma ora è in rovina. A monte del sentiero ci sono dei piccoli terrazzamenti, forse per patate, visto che in questo sprofondo non possono certo maturare i cereali montani.
Sul fondo del vallone, costeggio una grande pietraia e valico il ruscello su un ponticello ligneo, portandomi sul lato sinistro. Il bosco si dirada e compaiono molti ontani, che non di rado invadono il sentiero. Il pastore non è ancora salito o non ha fatto un buon lavoro. Resto alto su una gola di erba e rocce moderatamente cupa, con cascate. Alle mie spalle compaiono il Gran Combin e il Velan.
Giungo al pianoro erboso ellittico, dove c'è l'alpeggio di Savoney. Uno degli edifici è sommariamente ristrutturato, gli altri sono in rovina; è ancora visibile il ru per il lavaggio delle stalle; il terreno è disseminato di fatte fresche. Una marmotta si rintana silenziosa al mio arrivo. Rimonto un piccolo dosso roccioso e raggiungo un recinto di pietre, dove mi fermo a bere, perché mi accorgo di camminare da ormai due ore. Di fronte ho un altro ripiano erboso, stavolta circolare, chiuso a monte da un pendio di rocce ed erba. Odo versi di bovini.
Costeggio il pianoro e, affacciandomi su un piano più piccolo e basso, vedo i vitelli da carne, lasciati da soli tutta l'estate, se non per periodiche visite di controllo o le monticazioni da un alpe all'altro. Affronto la bastionata rocciosa, per fenditure e avvallamenti paludosi, fortunatamente meno sprofondosi di quanto l'apparenza suggerisca. Trovo un buon punto di vista aereo per la foto ai pascoli di Savoney, che sto tentando di scattare da molteplici punti di vista.
Tengo anche d'occhio l'altimetro, perché all'incirca a questa quota c'è un cembro monumentale discosto dal sentiero, che non voglio perdere. Finalmente lo riconosco alla destra del sentiero, per una traccia indicata da un ometto scendo nell'avvallamento ai suoi piedi. Le sue radici si protendono al di sopra del dosso roccioso su cui è cresciuto in un nascondiglio della nocciolaia. Faccio loro un servizio fotografico completo, come alle cosce di una desnuda da calendario Pirelli sulla spiaggia dei Conigli. Devo anche loro la vita, perché, sulla ripida placca perdo per un attimo l'equilibrio e mi aggrappo a loro per non ribaltarmi all'indietro, sfracellandomi orribilmente la calotta cranica per una foto, come un fanatico dei selfie sul Prekestolen.
Un cartello sostiene che l'albero ha un'età stimata di 400 anni (200 secondo il catasto sentieri) e che il nome dialettale è arolla. Questo termine ha una storia molto interessante, che mi fa scialare per questa conifera più che per ogni altra. Plinio racconta che i Taurini curavano la tosse bevendo dei semi cotti nel miele che chiamavano aravicelos. Il dotto latino li ritiene di pino domestico, ma Dioscoride, medico greco autore di un trattato di medicina ai tempi di Nerone (De materia medica), rimasto molto influente fino al Rinascimento, tanto che in rete si trova una traduzione italiana di quei tempi, indica i pinoli del cembro assieme al miele come rimedio per le malattie del petto. I glottologi ritengono perciò che la radice ligure arav sia alla base dei nomi del cembro diffusi tra la Savoia e il Gottardo.
Quando scoprii questa storia, cercai in biblioteca tutti i possibili libri sulla medicina popolare nelle Alpi Occidentali, dall'Ottocento ai giorni nostri, per vedere se quest'usanza era ancora viva. Alla fine, tra una miriade di rimedi per la tosse, trovai due testimoni valdostani che indicavano il decotto di germogli o radici di cembro. Il miele è invece ampiamente raccomandato, sia dai cultori del naturale che nei rimedi industriali a base di sciroppo di glucosio. Non è l'unico impiego del cembro, in quanto in valle i semi fornivano un olio pregiato detto appunto di arolla, oppure potevano anche essere mangiati dopo torrefazione.
Un impiego romano che invece si è perso è l'uso della resina per produrre pece. Plinio ci dice che era sottoposta a una cottura, che la rendeva il miglior isolante per scafi di navi. L'odore di resina che si sente attraversando una cembreta pura, come quella dell'Alevé, è davvero penetrante.
Riprendo il cammino e curiosamente vedo il sentiero segnalato arrivare da destra, con tanto di cartello per il cembro, sebbene mi pareva di averlo seguito e anche le cartine sono concordi. Il bolero del sempre boh. Terminano intanto gli alberi e attraverso una successione di ampie conche erbose alternate a basse fasce rocciose, una tipica conformazione glaciale. Ogni volta mi pare di essere arrivato al pianoro del lago Margheron o Medzove, ma ogni volta mi illudo. La traccia è quasi assente e i segnavia stinti. Costeggio una pozza con un nome di lago, dove metto in fuga una rana e lascio in lontananza delle baite. C'è una discreta fioritura di nigritelle: subito le orchidee mi paiono familiari, ma non riesco a ricordare il nome, per cui le fotografo per cercarle su plant.net, ma a breve lo sentirò pronunciato da una signora di un gruppo.
Giungo finalmente al lago e mi sistemo poco sopra la riva, per ammirare il colore verde delle acque, il cordone morenico vegetato che lo sbarra e un torrione di roccia senza nome sulla mia carta. Mangio del mango essiccato e delle noci, in vista della prossima salita, e soprattutto mi spalmo di crema solare, dal momento che è già passata la metà della mattina. Dal vallone di Champdepraz arriva intanto un gruppo ciacolante, che il capo ferma perentoriamente sulla riva dell'emissario pietroso.
Da qui al col Etsely la principale cosa da notare è che il sentiero è stato tracciato cun cugnisiun, come dicono i vecchi delle mie parti, perché evita le colate moreniche di sfasciumi e resta sul magro prato fiorito. Pur essendo molto ripido e assolato, è perciò agevolmente percorribile. Il panorama si apre a mano a mano sempre più a volo di drone sul lago e la conca; verso il culmine compaiono il Dent d'Herens, il Cervino e il Rosa, parzialmente nascosto dal dosso erboso e sassoso del Mont Iverta, da fa capolino a sua volta la cima rocciosa dell'Avic. In autostrada avevo ammirato il suo profilo migliore, da cui pare una guglia.
Dal colle sull'altro versante mi affaccio su una profonda conca molto verde, con il lago di Lavodilec alla base, coronata da varie cime rocciose, con poche chiazze di neve. La più in vista è la Tersiva, che vedo che da casa nei giorni limpidi, più lontano c'è l'Emilius. Decido di aspettare il gruppo di una quindicina di persone, partito poco dopo di me, per migliorare il primo piano della foto al vallone di salita. Sono molto ordinati e disciplinati, per cui collaborano a dovere. In cima, dove scopro che sono quasi tutti sopra i settanta, si fanno i complimenti a parole e gesti, come quando raggiunge una cima chi va in montagna per fare imprese. Si fermano a pranzare, mentre io scelgo di proseguire.
Per il col Fussy, percorro una mulattiera costruita con generosità di mezzi, una propaggine delle strade di caccia di Vittorio Emanuele II, che a Dondena, sul versante opposto, aveva fatto edificare il primo edificio permanente, a cui ne sarebbero seguiti non pochi altri. Vi era una via principale che congiungeva Bard, sul fondovalle aostano, con Noasca, in valle Orco, transitando da Cogne, dall’amata Valsavarenche e dal Nivolet. Percorrendo l’Alta Via 2 se ne segue una buona parte della porzione valdostana, dormendo anche in una di queste case, oggi rifugio Vittorio Sella. Da questa si dipartono rami secondari, diretti ad appostamenti, come questo, che termina nel nulla sulle pendici del mont Rafrey.
Rispetto ai sentieri che percorrerò nel resto dell’escursione, colpisce senz’altro la diversa geometria. Mentre i primi sono curvilinei e frattali, adattandosi al pendio, e spesso sono poco visibili da lontano, essendo appena tracciati e avvolti dalla vegetazione, questo taglia diritto ed euclideo le sassaie nude al limite superiore del piano alpino, tra magra vegetazione, con abbondanti opere di sostegno. Le realizzazioni del roi chasseur sono delle strade moderne, non dissimili da quella per automobili grazie a cui sono salito al punto di partenza. Queste caratteristiche furono molto apprezzate dai montanari, che videro trasformarsi «qualche cosa di indeciso tra una forra, un pantano e un corso d’acqua», per citare l’abate Gorret, in comode vie e furono persino pagati come maestranze per ricevere questo servizio. Il ricordo rimase così vivo che in Valsavarenche, dove a Orvieille c’era la casa di caccia preferita dal re, ancora nel 1946 la popolazione votò in massa a favore della monarchia.
A un colletto, dove arriva un sentiero dal bivacco Borroz, mi affaccio sul Grand Lac nel Parco dell’Avic e soprattutto sul terrificante versante detritico, che cala verso il lago Margueron. Il sentiero prosegue in quota, sempre molto ben costruito, attraversa un zona di rocce rosse levigate e sale con tornanti, i cui muri di sostegno da lontano paiono incisi da Zorro. Solo in vista del colle è franato e ridotto a traccia esile. Sono un po' preoccupato per il sentiero di discesa, in quanto sotto di me vedo solo nevai e sfasciumi disordinati, ma poi lo trovo ben tracciato poco prima di giungere al colle.
Vi trovo un gruppo di francesi di età sensibilmente più bassa rispetto agli italiani precedenti; in comune con loro hanno gli zaini grandi da itineranza. Spira un forte vento e devo indossare un pile per il resto della permanenza. La vista è chiusa verso la conca del Miserin e quella di Dondena, mentre posso ammirare le cime verso la val Soana e la Valchiusella, oltre cui c'è una densa foschia. Subito sotto un laghetto porta il nome di Gelè, inappropriato con i caldi degli ultimi anni. In tre quarti d'ora di sfasciumi potrei salire su un Tremila, il Glacier, ma decido di risparmiare tempo ed energie per una puntata al lago di Lavodilec, che vedo in lontananza immerso in una cornice verde molto attraente.
Pranzo con cous cous accompagnato da lenticchie e melanzane alla menta. I francesi se ne vanno intanto verso il col Etsely. Poco dopo arriva un giovanissimo stambecco, che bruca un po', va a zonzo e soprattutto si fa fotografare con il tele corto, insieme al paesaggio. Riesco a includere l'Emilius in un’inquadratura, ma quella in cui risalta più è un'altra. Scompare prima che arrivino gli italiani. Una manciata lascia qui gli zaini e punta al Glacier, mentre il grosso prosegue direttamente per Dondena, sognando birra e doccia.
Ripercorro il tratto franato e imbocco la ripida traccia, che in breve mi porta sul fondo dell'impluvio. Qui non c'è una solida traccia, ma molti segnavia guidano a evitare gli impressionanti cordoni morenici, che sovrastano l’avvallamento con cataste di sfasciumi disordinati. Proseguo lungamente, alternando salti più ripidi a pianori, sempre più verdi. Compaiono anche degli eriofori. Durante l'attraversamento di varie lingue di un rio noto che sui guadi sono poste lastre di pietra, a indicare che il sentiero non è una costruzione ex post degli escursionisti. Oltrepasso un dosso, vedo uno spettacolare masso spezzato in tre blocchi dal crioclastismo e arrivo a un piccolo alpeggio. Mi siedo comodo e bevo i sali, perché al colle era troppo disagevole posare il bicchiere, in quanto i posti buoni erano tutti occupati dai francesi.
Alla ripartenza sto per essere ingannato dalla traccia del ru di lavaggio stalle, ma noto in tempo la tacca. Mi affaccio su una conca erbosa, dove metto in fuga marmotta e cucciolo e, sempre senza traccia raggiungo un avvallamento con torrente, dove secondo la carta mi ricongiungo al sentiero proveniente dal col Mountsaillon, anche se non vedo segnalazioni del bivio.
Mi affaccio su una gola scavata credo dal torrente nell'accumulo morenico. Il sentiero ora scende abbastanza deciso seguendo il rio a monte. Si fa più marcato, ma in compenso scompaiono quasi del tutto i segnavia. Pure in salita, dove il sentiero era evidente, erano minimali. Dietro un roccione compaiono degli edifici e, oltre, il bivacco Borroz. Entro nel lariceto, tra le gracchianti ghiandaie e le più eufoniche cince. Lascio il sentiero e per prato raggiungo direttamente il bivacco.
Poso lo zaino ed entro. Essendo del Rotary, è conseguentemente deluxe. Ne approfitto per finire i viveri e farmi un caffè. Arriva intanto un addetto del comune per rimpinguare le scorte e fare delle manutenzioni e così gliene offro un po', visto che c’è solo la caffettiera da nove e, per quanto ci avessi messo poca acqua, ne era avanzato. Poco dopo arrivano dei trentenni che vi trascorreranno la notte. Riempio la borraccia, anche se l'acqua è di ruscello, perché la mia è poca e calda.
Me ne vado ricordando di chiudere il gas, ma dimenticando di pulire la caffettiera. Scendo nei prati sottostanti, su una qualsiasi delle tante tracce, individuo il ponte sul torrente e arrivo all'alpeggio di Grand'Alpe, dove le vacche sono in stalla per la mungitura pomeridiana. Le stalle in questo momento sono molto sporche, ma noto che hanno degli spruzzatori al soffitto per lavarle. Proseguo oltre lungo la strada di accesso e, di fronte a una magnifica veduta dell'infilata della valle, vado a imboccare il sentiero per il colle Lavodilec. Proseguo in quota nel prato, verso valle, alzandomi rispetto al torrente, cercando di seguire quella corretta tra le numerose tracce di bestiame. Noto che uno dei rii che attraverso ha il classico colore lattiginoso delle acque glaciali, in quanto, scoprirò dalla cartina, scende da un piccolo ghiacciaio sotto la Tersiva. Questo rio è molto modesto, anche a quest’ora in cui la portata va verso il massimo, a indicare che del ghiacciaio non deve essere rimasto un granché. Ad un certo punto non noto una svolta e finisco in mezzo a una traccia fangosa, dovendo poi recuperare per tracce la via corretta. Sotto un forte sole pomeridiano, oltrepasso la diruta alpe Lavodilec, che nei pressi ha anche una cascata, cercando di capire quando mi conviene lasciare il sentiero per puntare al lago. Mi supera frattanto un ragazzo in tenuta da trail.
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Dove vedo un ometto accanto al sentiero, lo lascio e punto al dosso soprastante, da cui appare il lago. Il colore delle sue acque, tra un blu e un verde incredibilmente saturi, è ciò che mi colpisce di più, meglio del mare sardo. Sul lago si riflette la Tersiva, ma l'inquadratura non è fotogenica, perché la linea dell’orizzonte in alto è una cresta piatta, senza un picco che si distingua, e inoltre il pendio è uniforme e cupo per il controluce. Va meglio verso il vallone da cui sono sceso e i relativi picchi. Un dettaglio che mi colpisce è la piattezza delle sue acque: il lago giace in una conca molto profonda, che non riuscivo ad apprezzare da lontano, ma qui è molto evidente. Non soffia un alito di vento. Al di sopra del limite degli alberi, l’acqua è l’unico elemento davvero mobile, in quanto l’erba bassa dei pascoli alpini ondeggia alla brezza su scala molto inferiore a quella umana, meno afferrabile a meno che il vento non sia davvero teso o si debba fotografare un fiore. Le increspature dell’acqua sono invece immediatamente osservabili non appena si formano e sono affascinanti soprattutto in controluce, quando il sole si rimpicciolisce e moltiplica all’infinito in ogni onda.
La nota dolente è la superficie invasa dai moscerini, per cui desisto dal proposito di mettere a mollo piedi e magari anche altro, visto che la temperatura esterna e il fondo in dolce discesa lo permetterebbero: sarebbe stato lo scialo supremo dell'escursione, la variante tattile di quello intellettuale al cembro. Mi vado ad accomodare un po' più a monte, per ammirare la scena. Sul versante verso valle noto un bivacco metallico. Al ritorno scatto nuovamente le foto, approfittando della luce migliorata per il sole più basso.
Ero incerto se provare a tagliare un bel tratto, passando per la traccia indicata sulle cartine openstreet, ma alla fine approfitto della pigrizia mentale per una foto in più al Cervino dall'alpe (dal dosso sopra il lago era pure riapparso il Rosa). Potendo osservare il percorso dall'alto, ripercorro con più precisione il sentiero corretto. Intanto il sole è tramontato dietro i monti e posso finalmente riporre il cappellino, con sollievo. Quando trovo ben marcata la traccia indicata sulla cartina, che evita di tornare indietro fino all'alpe, dapprima la tralascio, ma poi mi pento e la raggiungo per il primo prato in dolce pendenza che trovo. Rinuncerò a una foto delle vacche tornate al pascolo con l'infilata di sfondo, ma posso farmene una ragione. Successivamente transita per una zona meno attraversabile di cespugli e salti, ma restando ben più marcata di altri sentieri percorsi oggi, fino a sbucare sulla sterrata della valle, dove è indicata da ometti.
Accorcio le bacchette e le fisso allo zaino. Proseguo lungo la sterrata e poi lungo la vecchia mulattiera, che costeggiano il torrente, godendo del fresco della sera nella valle profonda e immergendomi nei miei pensieri. Prima faccio in tempo a notare due cascate gemelle, per strada a tentare degli scatti al torrente. All'attacco dei sentieri, presso un ponte, è indicato che sono dismessi, mentre all’accesso dell’alpe Lavodilec non avevo visto avvisi. Quando giungo a Clavalité è l'ora del tramonto. Decido di restare sul lato sinistro, per tentare scatti diversi rispetto al mattino. Questo lato è meno proficuo, perché nessun soggetto è ben allineato al Cervino, ma alla fine ottengo una buona foto della chiesetta dedicata alla Madonna delle Nevi con la Tersiva. La chiesa purtroppo è sprangata, né è possibile spiare dentro.
Al bar fanno fracasso uno stereo, che trasmette canzoni da cantare insieme a voi in magica armonia, e il generatore diesel. È in corso una festa di matrimonio, celebrato dopo lunghi anni di convivenza e prole, a cui si riferivano perciò i teloni del mattino. Mi affaccio molto timidamente, solo per vedere che il locale ha una pagina facebook di riferimento. Una signora mi coopta come fotografo: festeggiati e festeggiatori si raggruppano esultanti attorno a un tavolo io scatto tre foto, sperando che almeno in una abbiano tutti gli occhi aperti e facce di cui non vergognarsi, quando il datore di lavoro aprirà il loro profilo. Normalmente il bar è aperto nelle fini settimana, tutti i giorni ad agosto, per offrire panini, taglieri e grigliate, accompagnate da vino, birra e cocktail, a chi viene a camminare mezzo miglio fino alla base della collina, a sedersi e scialare al sole. In occasioni speciali il bar organizza cene su prenotazione a base di trippa, stinco alla birra e una misera minestra per i vegani aggregati, con accompagnamento di DJ.
Alla fontana del mattino riempio la borraccia con acqua da portare in città, mentre un tizio in auto si ferma e va a fumare una sigaretta in riva al laghetto. Chissà se il momento intimo terminerà con un lancio del mozzicone in acqua: una volta gli alpinisti celebravano la vetta fumando una sigaretta e gettando il mozzicone nel vuoto (Mauro Corona racconta in un suo libro un lancio di lattina). Sull'ultimo tratto di pista transita un certo traffico, anche un maggiolino bicolore che non ho la prontezza di riflessi di fotografare.
A Fenis ho la tentazione di fermarmi a fotografare la falce di luna nel cielo rosato sopra il noto castello, ma soprassiedo. A Bard ricordo che devo sempre venire a vedere la mostra del pittore amico di Leslie Stephen, il grande alpinista vittoriano e autore della citazione sul camminare mezzo miglio; i due salirono in cima al Bianco per ammirare il tramonto e dipingerlo. In tangenziale, quando è ormai notte, supero un tale vestito da basket, che cammina in corsia di emergenza seguito a ruota dalla stradale con i lampeggianti accesi. Avrei intenzione di festeggiare la gita riuscita con le patatine dello schifezzaio, che reintegrano i sali, ma trovo sul tavolo della cucina un avanzo di cena e ripiego su quello.
Per approfondire
- F. Fini - G. Mattana, Il Gran Paradiso, Bologna 1981
- A. Gorret, Victor-Emmanuel sur les Alps, Torino 1879
- O. Mattirolo, I vegetali alimentari spontanei del Piemonte: Phytoalimurgia Pedemontana, Torino 1919
- G. Plinio Secondo, Storia naturale, Torino 1984
- A. Gorret, Victor-Emmanuel sur les Alps, Torino 1879