Cima di Crosa 2531 m
Val Varaita
21 giugno
In un baleno
La dorsale meridionale della valle Po, al confine con la val Varaita, può essere facilmente raggiunta con un anello, o forse sarebbe meglio dire una collana, vista l'ampiezza, da Becetto, frazione di Sampeyre sull'adret. Gran parte del percorso si svolge tra sterminate distese prative, ampiamente sfruttate per il pascolo estivo delle vacche.
Diario di viaggio
Le due dorsali che delimitano la media valle Po, a nord e a sud, sono accessibili a qualunque escursionista, in quanto sono percorribili semplicemente camminando, senza passaggi alpinistici né angusti passaggi esposti o difficoltosi. Richiedono però giornate limpide, in quanto mancano di segnalazioni. Entrambe, essendo affacciate sulla pianura, offrono panorami incomparabili a lunga gittata, dalle Alpi Liguri al Rosa, con naturalmente il Monviso a dominare la scena e lo spazio visivo.
La dorsale meridionale, al confine con la val Varaita, può essere comodamente raggiunta con un anello da Becetto, frazione di Sampeyre sull'adret. Gran parte del percorso si svolge tra sterminate distese prative, ampiamente sfruttate per il pascolo estivo delle vacche. Ho avuto la fortuna di trovare una giornata di inizio estate con scarsa risalita di nebbie, un evento raro in questa stagione e soprattutto in questa valle, dalle cui falde è più probabile scorgere il Rosa che il Monviso.
L'ampio anello (sarebbe più appropriato definirlo una collana) qui descritto si propone di percorrerne il tratto tra la Testa di Garitta Nuova, dove la dorsale si sdoppia generando il vallone di Gilba, fino alla Cima di Crosa. Tuttavia un escursionista molto allenato potrebbe tentare di percorrerla fino al colle di Luca, portandosi dietro una tenda e una tanica d'acqua.
Becetto non ha una vera fisionomia da borgo, ma sembra piuttosto un aggregato informe di casette ai piedi di un santuario mariano, in passato molto importante, prima che le apparizioni di Valmala gli sottraessero i follower. Ad ogni modo, oltre alla chiesa c'è un centro aggregativo nel bar di un albergo-ristorante, dove l'anno scorso mangiai molto bene durante il Valle Varaita Trekking e assistetti alla dimostrazione di una pentola miracolosa dotata di Bluetooth®. Probabilmente la borgata ha conosciuto giorni migliori quando si usava trascorrere lunghe villeggiature in montagna, ma ad ogni modo non ci sono neanche oggi segni di abbandono, ma tutte le case, seppure rustiche, appaiono curate. Le lancette del campanile sono anomiche, ma le campane suonano l'ora corretta. Nella piazza della fontana, da cui si dipartono i sentieri per Dragoniere e Meira Ruà, c'è un certo viavai di cani a zonzo libero e di escursionisti in partenza, alcuni a piedi, altri in auto. Transita anche una famigliola con cappelli di cowboy, che condensa quasi tutte queste sfaccettature in un unico aggregato.
Imbocco la pista con indicazioni per Dragoniere. Per fortuna sono passato di qui giusto un anno fa, per cui ricordo di non doverla seguire quando entra nel prato, ma di dover invece infilarmi in una selva oscura. Vi trovo quasi subito una comoda mulattiera ombrosa e moderatamente fangosa, bordata da filari di grandi frassini, aceri di monte e così via. Prosegue quasi in piano, toccando un'edicola votiva dedicata alla Madonna della Misericordia, di cui si è conservato solo il lato nobile. Sento dei campanacci di vacche e vedo dei gigli di san Giovanni in procinto di sbocciare. Scendo a un impluvio, dove il rio scorre in un fitto bosco, che non lascia passare neanche qualche chiazza di luce. Il sentiero è molto bello dove passava sotto dei roccioni, ma non è molto battuto, a giudicare da quanto è folta la vegetazione del sottobosco. Invece verso Dragoniere qualcuno ha falciato l'erba, probabilmente il pastore delle vacche di cui odo i campanacci e odoro il letame, intente a pascolare su un prato a monte del sentiero. Trovo una seconda edicola votiva, meglio conservata, dedicata alla Sacra Famiglia, dove riesco anche a leggere i nomi dei santi, tra cui sant'Anna con il libro per istruire la Madonna e l'immancabile sant'Antonio Abate, protettore del bestiame.
Raggiunta la strada, fa capolino il monte Ricordone, di cui intravedo il Piantamento, il bosco di conifere messo a dimora dopo la disastrosa valanga del 1885, che seminò morte e distruzione tra alcune meire di Frassino. Sull'altro lato della valle c'è invece un monte verde e aguzzo, forse il Birrone, frequentata meta invernale. Alle mie spalle il campanile di Becetto sbuca al di sopra del fitto bosco. Sia le poche case di Serre Inferiore che il nucleo più consistente di Dragoniere sono anticipati da un pilone votivo. Sul secondo, con affreschi di fattura recente più realistici della media, è raffigurato san Chiaffredo, martire della legione Tebea patrono di Saluzzo; era molto popolare attorno al Monviso, dove molte persone portavano il suo nome. Non compare nella prima fonte su questo evento, un'agiografia scritta oltre un secolo dopo, ma è stato aggiunto a oltre un millennio dagli eventi dagli autori successivi. Essi crearono varie storie di scampati al massacro, che avrebbero predicato la nuova religione in giro per le Alpi Occidentali, dove sarebbero stati successivamente martirizzati, e dove hanno dato origine a popolari culti. Oltre a lui c'è santa Margherita di Antiochia, patrona di Casteldefino; è raffigurata con un drago ai suoi piedi, perché secondo la passio il diavolo le apparve in quella forma e la inghiottì, ma lei le squarciò il ventre con la croce (grazie a qualche salto logico per questo è protettrice delle partorienti, patronato molto sentito in un'epoca in cui il parto era un rischio mortale per la donna).
A Dragoniere, sulla facciata della chiesa, un gruppo di steli oltre ai caduti nelle guerre ricorda i parroci e le tappe del progresso nella frazione. In assenza di cartelli, trovo il sentiero diretto al colle del Prete grazie all'intuito e a una scolorita tacca biancorossa. Salgo a monte delle case, da cui godo di un bella vista sui due campanili con il Pelvo d'Elva a fare da sfondo. Il primo tratto della mulattiera è pulito, perché dei vitelli stanno pascolando in un prato, mentre più in alto è un po' infrascato, specie prima di un gruppo di baite, dove intercetto un sentiero proveniente da sinistra, sempre da Dragoniere. Arrivo quindi a un pilone votivo dedicato alla Mater Amabilis, di fattura molto ingenua, costruito a marcare un incrocio. Prendo a destra verso la Meira del Pian, ma anche diritto in salita andrebbe bene, perché finirei sulla sterrata tra Ruà e il colle del Prete, che però è aperta al traffico.
Mi inoltro in un bosco molto fitto e con esuberante sottobosco di piantine ed erbe alte, in cui resterò a lungo. Non scatto nessuna foto, perché trovo ostico questo genere di paesaggio, ma il luogo mi affascina come una casa fantasma abbandonata, con la cucina ancora apparecchiata, divenuta ora il rifugio di una volpe: anche qui è così, in un certo senso, con le balze terrazzate ancora intatte ma riprese dal bosco. La natura caotica ed esuberante si è ripresa questi luoghi, abbandonati all'improvviso dopo alcuni secoli di laboriosa colonizzazione stabile, non appena c'è stata la promessa di condizioni di vita meno precarie. Attraverso un nucleo di semplici case in rovina, una sola delle quali è intonacata, e varco un paio di rii. Trovo un bivio, dove una tacca mi fa proseguire dritto; anche il ramo di sinistra sembra un sentiero e secondo la carta dovrebbe raggiungere anch'esso la sterrata. Trovo del paciugo e poi un rio più copioso, che ha anche scambiato il sentiero per il suo letto. Per fortuna i miei scarponi tengono bene l'acqua, perché devo mettere i piedi a mollo per varcarlo, visto che le pietre al di sopra dell'acqua sono scivolosissime.
Dopo tanto bosco, bordeggio un grande prato con segni di vacche e un filo del bestiame, fino a sbucare all'aperto nei pressi della diruta Meira del Piano, tra fioriture. Intercetto il sentiero proveniente da Rostagno, che sembra ampio, e svolto a sinistra. Anche questo avrebbe potuto essere una via di accesso, proseguendo da Dragoniere lungo il valle Varaita Trekking e quindi svoltando a sinistra nella borgata abbandonata e abbastanza spettrale di Rostagno, passando per le omonime meire. Da qui per un lungo tratto il sentiero sarà una striscia sottile di erba meno fitta tra le megaforbie. Raggiungo Meira Bianca, il cui tetto è stato taconà con teloni e dove sento dei versi di caprioli provenire dal bosco, ma senza vedere animali, che mi regaleranno però quattro zecche. Trovo alberi caduti, ma con un passaggio più o meno sbozzato. Credo sia in questa ginnastica che mi cade dalla tasca laterale la custodia con gli occhiali da vista, che devolvo agli archeologi del Tremila, perché dubito che a breve passi qualcun altro da questo sentiero che possa raccoglierli. Mi dirigo quindi verso un impluvio boscoso, dove pascolano dei vitelli. Scendo al guado e scavalco i fili elettrificati, mentre i vitelli si danno alla fuga precipitosa. Raggiungo i margini di un grande prato brucato, dove resto sul sentiero un po' cercando di intuire dove possa esserci una mano umana negli avvallamenti, un po' aiutandomi con il GPS. All'ingresso del bosco trovo qualche tacca e un sentiero più marcato che sale dolcemente al colle del Prete, dove non c'è nessun cartello né alcuna tacca che lo indica.
Al colle c'è un certo affollamento di gruppi familiari. Oltre a un'edicola votiva, c'è anche una specie di altare di fronte a una nicchia con una statuetta, sormontato da un muro di due metri in cemento in cima al quale c'è una piccola campana. Mi spalmo la crema solare, perché sono ormai le 11 e non vedrò un albero fino a sera, e mangio della roba energetica. Il colle è una porta sul vallone di Gilba e offre un bel panorama sulla pianura fino al Rosa.
Da qui mi incammino su un'ampia dorsale erbosa, tra erba bassa e spettacolari fioriture, dove il panorama si ampia a mano a mano che la quota aumenta. Ora non sono più solo, ma condivido parti della salita con alcune persone, con cui però scambio solo il buongiorno. Non c'è molto da raccontare per la verità sull'ora e mezza che mi separa dalla prima cima, Testa di Garitta Nuova. Noto un larice nano cresciuto al riparo di un dosso: questi alberi possono anche essere molto vecchi, con anelli di accrescimento meno che millimetrici, e non possono elevarsi al di sopra del riparo, perché verrebbero seccati dal vento e dal gelo. Passo quindi dalla Meira Gardiulot, giusto un muro perimetrale. Questi toponimi indicano un luogo con una gran vista e questo tiene fede alle aspettative: si vedono bene le Marittime, seppure un po' nascoste dalle nuvole e offuscate dalla foschia. Non fa però troppo caldo: in salita non sudo e i due litri abbondanti di acqua mi dureranno fino alle 17.
Tra le fioriture, ai gigli di monte visti poco sopra il colle, si aggiungono gli anemoni, i tre colori delle viole, le più numerose, un'orchidea e qualche rododendro. Questi ultimi sono pochi, segno che qui il territorio è molto curato dai pastori, per cui questi cespugli tanto amati dai fotografi sono come la gramigna, perché sottraggono pascolo e pertanto li combattono: ancora un paio di anni fa li ho visti bruciati in un alpeggio. Naturalmente però la maggior parte delle fioriture sono specie a me sconosciute, di cui non mi rimangono i nomi ma solo le forme e i colori dei fiori, come le distese gialle o certi petali a punta.
Dapprima salgo per una pista appena accennata, poi questa scompare e seguo tracce di escursionisti sempre più labili. Mi rendo finalmente conto che il ripetitore che vedo da un po' è proprio sulla mia prima cima, una marcatura contemporanea tra un ometto di pietre nel punto più alto e una croce metallica affacciata verso Meire Bigoire, in valle Po. In fondo anche gli ometti di vetta e le croci non sono sempre esistiti, ma sono stati nati in ben precise circostanze storiche con ben precisi propositi, in culture esterne alla montagna, che le vedevano come un teatro per l'autorealizzazione; forse un giorno i nostri discendenti vedranno i ripetitori come noi percepiamo gli altri due.
La cima è abbastanza affollata, ma sufficientemente ampia da accogliere tutti. Vado a sistemarmi oltre la vetta, al principio della dorsale che dovrò percorrere e da cui finalmente ammiro il Monviso, eccezionalmente ancora sgombro alle 13. I suoi canaloni sono ancora abbondantemente coperti di neve. Vedo anche la ancora lontana Cima di Crosa, al termine della dorsale che mi accingo a percorrere.
Sulla dorsale non c'è sempre una traccia, men che meno segnavia, ma con buona visibilità non ci si può sbagliare. Tra sfolgoranti fioriture, aggirando nevaietti residui (curiosamente tutti a sud) e qualche roccia, raggiungo la Cima Riba del Gias. Come vetta vale poco, dal momento che ha giusto un piccolo ometto, ma tutt'intorno ci sono degli interessanti muri a secco, non so se di confine o con quale altro scopo. Stando un po' a sinistra della dorsale, per evitare una pietraia che vedo più in basso, mi imbatto in un sentiero più marcato, che mi condurrà al colle di Cervetto. Sul suo margine ci vedo piantata una penna scura di qualcosa di grosso. Poche descrizioni per un tratto straordinario, con le valli ai miei piedi e il Monviso di fronte che va coprendosi. Per la verità mi sembra di galleggiare su un mare e non faccio molta attenzione ai fondali.
Al colle resto un po' meditabondo, rimuginando se sia il caso di proseguire verso Cima di Crosa o scendere: cammino da cinque ore e non sono in perfetto allenamento, a causa dei lunghi mesi di fermo da pandemia. Mi faccio un po' di coraggio da solo e provo a continuare, pentendomi subito, perché la salita sostenuta mi fa immediatamente sentire la stanchezza accumulata. Persisto tuttavia, sperando che il bivio con la traccia in quota che taglia via i Fortini di Crosa sia ben segnalata. Si tratta di rudimentali fortificazioni settecentesche, di quanto l'alta val Varaita era francese fino a Casteldelfino (esiste tutt'ora una frazione chiamata Confine, un poco a valle del paese, e oltrepassandola gli alpeggi non si chiamano più meire bensì grange).
Per fortuna è ben segnalata da una tacca biancorossa a V, che indica di girare e lasciare la traccia che prosegue in cresta. Percorro quindi uno spettacolare traverso, solo un po' timoroso che la stanchezza mi faccia porre un piede in fallo. Il pendio precipita sotto di me e corre fino ai boschi che circondano Becetto, con il suo campanile da qui foruncolo, sempre tra fioriture. Oltrepassata una dorsale, mi appare la mole scura della cima, immersa nell'ombra di un nuvolone, che ora mi sembra imponente per la fatica, anche se è appena 150 m più alta di me. Mi trovo tra tantissime genziane a campanula in procinto di fiorire: dovrebbe essere quella di Koch, perché le rocce mi sembrano gli gneiss acidi. In salita, raggiungo il colletto tra i Fortini e la Cima, dopo aver incrociato non poca gente in discesa.
Dal colle vedo un bel laghetto in valle Po, dove c'è della gente rumorosa che sento fin da qui. Trovo un bivio e prendo a sinistra il ramo più evidente, dove trovo una tacca poco oltre (ma secondo la carta anche l'altro porta in cima). Intanto la vista del pendio sotto di me è ancora più strepitosa che prima, ora che sono più in alto. Raggiungo la dorsale che scende verso la Madonna Alpina, che percorrerò in discesa, e con un ultimo ansimante strappo ripido come il Muur sono in cima, dove mi fermerò più di un'ora.
Ci trovo tre uomini anziani con una donna di mezza età intenti a chiacchierare a ruota libera in piemontese. Mi accomodo e rifocillo. Il Monviso nel frattempo è scomparso dietro le nuvole, ma in compenso le Marittime e la val Maira sono ora più limpide di stamattina. Più tardi mi ricorderò di aver portato tutto il giorno il pesante binocolo da cacciatore in fondo allo zaino e lo userò per riconoscere il Cervino, il Castore, il Polluce e, al capo opposto, Cima della Saline. Resto in dubbio sul Beigua, non potendo distinguere le antenne. Riconosco Superga e il grattacielo Sanpaolo nella mia città, oltre che il lungo viale nel bosco di Stupinigi; tento anche di individuare il camino dell'inceneritore che mi hanno costruito sottocasa, ma la risoluzione non lo consente o non sono abbastanza determinato, ma è chiaro che da casa mia a Torino si vede questa cima.
Mentre le nuvole vanno a zonzo, portandomi il sole a sprazzi, sale un trentenne senza zaino, che mi chiede come si chiama questo posto. Gli dò una risposta pacata e materiale, come se la sua non fosse una domanda più insensata di quella posta a Pensiero Profondo, e gli indico anche la vera cima, poco più alta, verso cui si precipita prima di sparire in un baleno. Intanto i quattro scendono e mi lasciano solo per una ventina di minuti, prima che salga un ragazzo taciturno insieme a un border collie, che tiene sempre ben legato al guinzaglio. Annoto due righe sul libro di vetta e scatto qualche foto alla croce.
Seguendo la dorsale diretta a sud, per prati senza una traccia definita arrivo alla cappella dedicata alla Madonna Alpina, un nido d'aquila che domina la montagna di Becetto. Un signore francese, figlio di una donna del posto e di un corso, l'anno scorso mi raccontò di quando qui consumava le esperienze di socializzazione giovanile, durante le vacanze estive. L'interno è molto curato e perciò inaccessibile. Peccato, mi piacerebbe leggere le dediche delle foto appese alle pareti. Il mio atto devozionale è scattarvi una foto.
Proseguo quindi sul sentiero che taglia in piano il pendio, cercando il punto di vista adatto una foto, anche se il migliore era prima di arrivarci, in cui la si vede vegliare dall'alto il panorama, sul confine tra dei ripidi pascoli e una zona più dirupata. Queste zone di natura selvaggia ostili alla colonizzazione erano percepite come diaboliche e forse la posizione della chiesa non è casuale, ma non credo proprio che esistano documenti che attestano le ragioni della scelta. Giunto in vista di un grande nevaio di accumulo, in una conca ai piedi di ripidi pendii erbosi, al bivio imbocco il sentiero segnato sulla destra, che lo aggira dal basso, pur tra qualche infrascamento di ontani. A valle della conca nivale, arrivo a una baita diroccata, con abbondante vegetazione nitrofila, da cui mi affaccio su Becetto. La temperatura intanto è salita quanto basta a costringermi a stare in maglietta, togliendo l'ultimo strato rimasto dalla cima.
Tra bellisimi prati ripidi aperti sulla valle, trovo i primi larici nani. Alla mia destra, oltre un rio, faccio caso a una bellissima zona di dirupi prativi, colonizzati da larici e cembri, illuminati da una luce radente da dietro il dosso soprastante. Non so se i pastori sarebbero d'accordo con questo mio giudizio estetico, frutto della cultura romantica di origine industriale e alieno alle loro necessità. Sento fischi di marmotte.
Raggiungo il margine superiore degli alberi d'alto fusto, dove qualche cembro è in sofferenza. Altri piccoli sembrano piegati da qualche slavina. Mi imbatto negli ultimi narcisi. Raggiungo la confluenza con il sentiero che scende dal colle di Cervetto, per cui non ci sono indicazioni, perché i cartelli indicano solo la Cima di Crosa via Madonna Alpina. Il sentiero entra quindi in una specie di strettoia tra cembri e larici di dimensioni ridotte, variamente piegati dalle slavine, da cui la zona di dirupi appare ancora più affascinante.
Passo quindi a valle di una baracca metallica, presso cui ci sono delle sorgenti, dove confluisco in una pista, entrando nel bosco continuo, qui di larici. I segnavia si fanno rari e pellegrini, ma la cartina indica chiaramente che devo seguire la pista. Quando mi fermo a terminare l'acqua, mi sorpassa il ragazzo con il cane, che sfreccia a velocità almeno doppia della mia. Da uno scorcio il campanile di Becetto sembra a un tiro di schioppo, ma l'altimetro è di un altro avviso. Supero un bel prato di megaforbie fiorite, dove trovo lo sbocco di una pista per MTB, partita a monte di Meira Gardiulot, e dove c'è una baita. A una curva, noto una tacca all'imbocco di una traccia e deduco che è il sentiero che taglia un paio di tornanti. Provo a imboccarlo e noto con piacere che doveva essere il vecchio sentiero graduale e non una traccia di escursionisti che taglia per la massima pendenza. Ci trovo anche una bella fioritura di maggiociondoli. Confluisco sulla pista poco prima del parcheggio di Meira Ruà.
Come d'altronde già da Cima di Crosa, le indicazioni sono solo per chi sale, perché evidentemente non considerano chi fa giri ad anello, ma qualche tacca e l'evidenza mi aiutano a trovare la mulattiera che evita la strada asfaltata. Aggiro Meira Ruà, dove c'è della gente che sta trascorrendo il pomeriggio della domenica sul prato della propria baita, finisco sull'asfalto, ma individuo quasi subito la pista erbosa alternativa che scende a Becetto. Sbucato dal bosco, vedo il campanile che sta suonando le 18 e in breve sono alla piazza dove ho lasciato l'auto.
Ho la mezza idea di fare una visita al santuario, prima di andare e cena dai Chimi a Frassino, quando mi accorgo della mancanza degli occhiali. Avendo solo quelli scuri, devo perciò essere a casa prima del buio, come un