Santuario di Cunéi

Valle di St. Barthélemy

24 agosto


In un baleno

[…]ma soprattutto un santuario meta di pellegrinaggio, dove si svolge un rito ancestrale, ora integrato nella religione cattolica

Oratorio di Cunéi e becca del Merlo
Oratorio di Cunéi e becca del Merlo

Diario di viaggio

Perché, per quale ragione

La valle di St. Barthélemy neppure è citata dalla Guide dell’abbé Gorret, tanto appare trascurabile nella weltanschau di una regione protesa verso i ghiacciai dei Giganti d’Europa e i valichi transalpini. È infatti breve, una Y racchiusa tra la Valtournenche e la Valpelline; non si allontana troppo dalla valle centrale, ma non ne fa parte, in quanto ha un’economia pastorale da alta montagna e non agricola, ma neppure raggiunge le dorsali di confine. È pure priva di una municipalità propria, dipendendo dal comune di Nus, sul fondovalle aostano, ma di proprio ha unicamente una parrocchia che le trasmette il nome.
Al giorno d’oggi non ha conosciuto lo sviluppo sciistico e non presenta pertanto grandi insediamenti, cosicché gode di un ridotto inquinamento luminoso. Accoppiato al clima arido con notti serene tipico delle valli alpine interne, ha permesso agli astrofili di eleggerla sede di un osservatorio, che svolge anche un’intensa attività divulgativa. Per il resto ha pochi alberghi, molte minuscole frazioni, un paio di rifugi, ma soprattutto un santuario meta di pellegrinaggio, dove si svolge un rito ancestrale, ora integrato nella religione cattolica, che me l’ha fatta inserire nell’elenco dei luoghi dove camminare sui sentieri.

Sui santuari nel contesto dello spirito delle genti alpine

I santuari sono un luogo speciale nel cattolicesimo: normalmente in questa confessione cristiana un clero invero centralizzato si riserva l’esclusiva dell’intermediazione con il divino su snodi centrali della dottrina e della pratica, come la corretta interpretazione delle scritture, l'eucarestia o la remissione dei peccati; nei santuari invece il controllo si allenta e il fedele ha un accesso più diretto ai poteri delle divinità. La stessa loro ubicazione nasce da un’elezione dal basso, come appunto in questo edificio, costruito per ratificare e ricondurre nell’alveo dell’ortodossia una tradizione montanara, come spiegherò più oltre.
A maggior ragione questa libertà è possibile sui terreni dell’alta montagna, lontani anche fisicamente dalle sedi del potere. Anche da un punto di vista politico, almeno dalla nascita della civiltà alpina bassomedievale fino al consolidamento dei moderni poteri assoluti e centralizzati, non poche zone delle Alpi beneficiarono di una discreta possibilità di autogoverno: basti pensare agli Escarton, alle colonie walser e ladine, al Libero Stato delle Tre Leghe Grigie, ma anche la stessa Valle d’Aosta godette di un certo affrancamento nell’ambito del Ducato di Savoia. Inoltre le Alpi sono spesso state patria fisica o ideale per sorte, scelta o costrizione di ogni sorta di marginali: irregolari, inclassificabili, disertori, disillusi, sognatori, disadattati, irrequieti, dissidenti, visionari, donne. Quando il pensiero europeo si esprimeva nel contesto cristiano, furono movimenti religiosi eretici, come i valdesi o i dolciniani a rifugiarsi tra i dirupi e le ombre delle pareti, braccati dai soldati dei poteri della bassa come marmotte o camosci. In epoca più secolare è stato il turno di anime solitarie in fuga dalle convenzioni della società borghese o di movimenti utopistici antagonisti del sistema capitalista.
Ancora di recente, quando già avevano decretato la propria resa con l’emigrazione di massa, alcune comunità alpine tradizionali non si sono mostrate culturalmente subalterne e hanno talvolta sviluppato uno spirito di autonomia e autodeterminazione ostile all'atteggiamento coloniale, con cui le popolazioni delle pianure sviluppate sono salite per esportare i propri progetti economici vincenti, in quelle che percepivano impropriamente come terre vergini da dissodare culturalmente. Un esempio emblematico è la strenua e vittoriosa resistenza a un colossale comprensorio sciistico, attuata negli anni '70 del Novecento dai pastori e dagli amministratori di Cervières, un centro di produzione di latte tra Briançon e il colle dell'Izoard. Anche gli sconfitti e decimati del Vajont non si rassegnarono mai, ma restarono solidali tra loro e con aspre lotte riuscirono a conseguire il diritto al ritorno.
Leggendo testimonianze di persone che ai giorni nostri si sono fatte montanari, dopo esperienze in città, o lo sono rimaste per volontà e non per mancanza di alternative, traspare come spirito contemporaneo soprattutto l’orgoglio e il bisogno di fare da sé, in isolamento, senza percepire i vincoli che una società articolata e affollata pone all’agire umano. In montagna è più evidente, perché si è in pochi e bisogna essere dei tuttofare: una vita da imprenditori stretti tra innovazione e dissoluzione, sempre attivi sui social per vendersi, non diversamente da un qualsiasi impresario di un Billionaire, al servizio della propria mission 24/7 come un supermercato della 5th Avenue. Il prodotto è l’esperienza e la mitologia della vita a contatto con la natura, generalmente da vendere in loco e per online sotto forma di nutraceutici ai facoltosi cittadini che preferiscono invece beneficiarne solo nei ritagli di tempo, contro il logorio della vita moderna che continuano ad apprezzare. Nello stile di vita il vantaggio è la posizione più defilata, lontani da caos, smog e socialità urbana. Non c’è più quindi l’autoconsumo dei contadini di una volta, ma anche in pianura sono arrivati i tempi magri e la precarietà, per cui il mito della busta paga, che risucchiò montanari come un maelstrom, non ha più ragione di esistere. L’indipendenza e l’autonomia restano invece sempre fattori dirimenti, anche se si è attori del mondo globalizzato: lo spirito delle Alpi resta vivo nell’unica maniera possibile, evolvendosi darwinianamente, adattandosi.
Tornando ai santuari, la norma 1230 del diritto canonico che li definisce impone tre conditio sine qua non: essere un luogo sacro (non necessariamente un edificio), essere meta di pellegrinaggio di numerosi fedeli con motivazioni di pietà religiosa (non specificata, se non con esempi, perché non sarebbe possibile fare un elenco esaustivo), e godere dell’approvazione dell' ordinario del luogo (il vescovo o un'analoga figura con competenza territoriale). Un primo accenno ai santuari è contenuto nei Patti Lateranensi, quindi in tempi molto recenti, sebbene nel culto cattolico esistano da secoli, poiché la velocizzazione ottocentesca dei trasporti ampliò la platea dei pellegrini; successivamente Pio XI, il papa alpinista, specificò che il viaggio doveva avere finalità pie, per distinguerlo dai viaggi di piacere che allora andavano diffondendosi, e il suo successore nel dopoguerra codificò la definizione, poi limata nei decenni seguenti fino alla versione appena citata. In nessun documento ecclesiastico che ho consultato sul sito del Vaticano si fa mai cenno al pellegrinaggio a piedi, per distinguerlo da quello motorizzato, darne un significato o una valenza diversa: pertanto al giorno d’oggi nelle festività le piste pastorali sono aperte al traffico fino al fondo (Tsa Fontaney), e per accedere si può anche beneficiare dell’elicottero.

Sul pellegrinaggio a piedi

Un pellegrinaggio a piedi studiato dagli antropologi a più riprese nell'ultimo secolo è quello tra Cogne e la cappella alpestre di San Besso, il 9-10 agosto di ogni anno. Nella formula originale richiede otto ore di cammino all'andata e altrettante al ritorno, anche su terreno molto impervio e ripido, fino al superamento di un colle a quasi 3000 m; quando il clima era più freddo, ovvero anche solo quando i nostri vecchi erano ragazzi, poteva anche essere coperto di neve. Va detto tuttavia, che per la politica regionale di promozione turistica dei pellegrinaggi, anche in questo caso oggi è possibile salire in auto fino a un alpeggio a 2300 m, anziché essere costretti a partire dal paese a 1600 m. Gli attuali pellegrini spiegano che il sacrificio fisico e anche il rischio dell’alta montagna (in passato taluni perirono scivolando nei dirupi) sono una componente centrale nell’atto di devozione: secondo loro, non avrebbe senso cimentarsi in un’impresa simile se non per ragioni religiose.
Tuttavia la scansione del percorso dei cognesi è simile a un qualsiasi viaggio comunitario in autobus, perché il fulcro del cammino sono alcune tappe contraddistinte da momenti di spiritualità, socializzazione, libagione, condivisione e festa, non diversamente da una compagnia di alpini che, andando al raduno annuale, fa soste agli autogrill per consumare salami e vini tutti assieme. Pare invece assente l’apprezzamento continuo dell’esperienza: nel viaggio a piedi, a differenza che nel viaggio con i mezzi, qualunque momento può offrire occasione per fermarsi e contemplare, ma i pellegrini paiono ignorare tale prerogativa, essendo piuttosto legati alle pause di una partizione predefinita del cammino.
Ogni esperienza di questo pellegrinaggio, come del resto di tutti i riti al santuario, ha pertanto senso solo se effettuata in maniera collettiva, all'interno di gruppo esclusivo, con cui si condivide l'intimità, magari anche solo per quel giorno nel corso di tutto l’anno. Lo testimoniano vari pellegrini e lo esprime bene una scena descritta dalla Demarchi al colle dell'Arietta, punto culminante del pellegrinaggio di san Besso, dove i pellegrini si accalcano l'uno sull'altro attorno allo stretto intaglio durante l’ennesima pausa rituale, senza manifestare alcun segno di disagio per la scomodità, e ne approfittano per raccontare all'autrice il significato fondativo che quel passo riveste per la propria comunità. Lo stesso vale per le celebrazioni religiose e profane connesse alla permanenza nel luogo sacro, che possono essere svolte solo in presenza della comunità dei fedeli (i religiosi, invece, per la genesi dal basso del valore del santuario, sono più accessori).
Inoltre tutto questo richiede di essere effettuato, oltre che in gruppo, anche nel solo giorno prescritto, mentre un viaggio personale come il mio in altra data per loro non avrebbe alcun valore: solo in quel giorno si manifesta la potenza trascendente. Tra i montanari, più attenti al ciclo della natura di un cittadino, che, penzolando tra ufficio e abitacolo, nota a malapena i mutamenti stagionali quando i centri commerciali accendono i riscaldamenti o i condizionatori, sono comuni le credenze che solo in giorni specifici del calendario si aprano accessi al magico. Per di più la data di san besso ha anche una valenza sacrificale, in quanto è necessario abbandonare i lavori agricoli nel pieno della breve estate. La società contemporanea, invece, ha reso ininterrotte le occasioni di guadagno miracoloso, la bacchetta che soddisfa bisogni e concretizza speranze nella modernità. Essendo una creatura di quest'ultima, salgo pertanto durante un riposo infrasettimanale qualsiasi, in cui conto di evitare l'affollamento e gli ingorghi autostradali dei giorni di festa estivi.

La partenza

Stavolta all'autogrill di Chatillon è di servizio una barista giovane e meno maliziosa, che non mi propone il caffè superbo a prezzo da gioielleria, ma quello ordinario comunque molto buono a normale prezzo gonfiato dalle commissioni al concessionario autostradale. Per un’ampia strada risalgo la valle, che, per le sue rocce facilmente disgregabili dal ruscellamento, ha perso la conformazione di valle sospesa glaciale, fino a un tornante, dove imbocco una stretta stradina secondaria. Posteggio infine l'auto nel piccolo spiazzo di Baravex Dessous, nei pressi della partenza del sentiero, a Praz. In questa manciata di metri ci sono tre gruppetti di case con tre toponimi diversi; la terra di mezzo, Rascar, ha pure una chiesetta dedicata a San Bernardo, il santo montano per eccellenza, patrono degli alpinisti.
A lui sono intitolati i due passi principali della Vallée, uno per la Svizzera e uno per la Savoia, che aveva reso sicuri al transito, dopo che nel secolo precedente il suo erano stati sotto il controllo dei predoni saraceni. Nell'antichità erano noti come Mons Jovis, dal nome latino delle pile di pietre con cui i Celti onoravano i propri dèi, e il racconto della sua opera ha assunto la forma mitica di una lotta contro le divinità pagane. Cerco di fare in fretta per poterle scattare la prima foto della giornata, in segno di devozione e richiesta di protezione, con lo sfondo della piramide dell'Emilius, il Tremila roccioso che domina Aosta, mentre è illuminato dal primo sole, ora in procinto sbucare dietro le Alpi e raggiungerlo. Al rientro scoprirò un punto di vista più idealizzante, che esclude le case più moderne e incorpora la becca di Nona e il chiaro triangolo scanalato del Grand Nomenon, ma allora il cielo sarà coperto e non varrà pertanto la pena aspettare il replay del tramonto.
A Praz sono accolto da due cani legati, che fanno un sacco di baccano, e uno libero e quieto. Grazie ai molti cartelli escursionistici gialli, imbocco senza incertezze la mulattiera erbosa diretta a Porliod, a una mezz'ora di prati di erba alta e secca, alternati a boschetti di larici. Prima dell’abbandono dell’agricoltura di montagna avrei visto biondeggiare la segale, anche se l’attività principale era già allora l’allevamento bovino. Quasi subito oltrepasso un ru, che li taglia verticalmente ed è inframmezzato da frequenti saracinesche, per distribuire l'acqua ai vari appezzamenti, e successivamente dei fili blu elettrificati del bestiame, che tuttavia non vedo. Raggiungo la strada, che da Porliod si dirige verso la parte superiore del vallone, dal quale scenderò al pomeriggio. Incrocio un cacciatore in mimetica, senza fucile e con bastone (la stagione venatoria aprirà a breve), che scruta verso il basso, fermo sul margine della pista. Sento quindi lo scampanellio dei cani e a un suo collega chiedo se li sta addestrando e cosa spera di trovare, con questo secco. Lui si dice fiducioso che un capriolo o una lepre salterà fuori, «intanto passiamo la giornata e la facciamo passare a loro». Oltre all'erba, anche gli epilobi più esposti al sole sono seccati e in luogo del garofano rosa hanno lo stelo argentato come in autunno.
Raggiungo Porliod, dove la strada asfaltata aperta al traffico termina con uno spiazzo, accanto alla chiesetta affrescata con due santi e dedicata a Pantaleo, il santo indistruttibile patrono di Valpelline. Visto che l'escursione non è eccessivamente lunga e faticosa, non mi pare necessario affidarmi a lui, ma forse avrei dovuto, perché per un paio di giorni sentirò le cosce ricolme di acido lattico. Intanto il sole mi ha già raggiunto, nonostante sia partito di buon mattino, e mi sferzerà fino a quando i cumuli non lo copriranno. Ad ogni modo, la temperatura era mite già prima che sorgesse, anche se ignoro il dato preciso, perché mi sono dimenticato di guardare il termometro dell'automobile al parcheggio, dopo che lo avevo consultato salendo. Da qui ammiro il ripiano morenico su cui sorge Lignan, la frazione principale della valle, sede della parrocchia dedicata al santo scorticato che conferisce il nome alla valle.
Curiosamente non esiste un sentiero tra qui e la frazione superiore, dove termina un altro ramo di strada e parte il sentiero per Cunéi, ma devo seguire la strada asfaltata. Al bivio tra i due rami c'è un'area attrezzata dotata di parcheggio, dove si stanno preparando all'escursione due signori, che mi supereranno al col Salvé e si eclisseranno prima di Cunéi.

Un pellegrinaggio escursionistico

Prima del termine, lascio il già rovente asfalto in favore di una traccia in traverso, non notandone una più diretta indicata dal geonavigatore regionale, e finisco sul sentiero segnalato. Attraverso ancora un'alternanza tra prati riarsi e boschi misti di larici e abeti rossi, dove invece l'erba è verde, ma abbondano i ginepri, a indicare l'aridità abituale. È una caratteristica climatica molto comune nelle valli interne delle Alpi, che sono protette dalle perturbazioni, arrestate dai rilievi prealpini. Sono talmente accaldato per il sole cocente, che, quando avvicino gli occhiali al mirino per scattare una foto a Cima Longhede, questo si appanna all'istante per la mia intensa traspirazione, come di solito capita solo d'inverno, quando l'escursione termica tra il corpo e l'ambiente è elevata. Le vacche, di cui sento i campanacci ma che non vedo, pascolano pertanto al limite superiore del lariceto, protette dalla sua ombra.
Raggiungo un altopiano ondulato tenuto a prato, da cui metto in fuga due falchetti, e irrigato da un ru, dove mi congiungo a un sentiero proveniente da Lignan, da cui avrei dovuto partire se fossi stato purista e rispettoso delle tradizioni: infatti il documento di fondazione del santuario prevedeva che le processioni partissero da lì. Mi ha però scoraggiato la prospettiva di dover rientrare da Porliod prevalentemente su asfalto e così stavolta sono salito in automobile fin quasi al punto più elevato possibile. Mi dirigo verso un colle, dietro cui sbuca un picco roccioso, alla destra del quale si erge il monte Morion, Bec de Pisserotte sulle vecchie carte, da questo lato prevalentemente erboso. In generale c’è molta confusione sui nomi di queste cime «di nessun interesse alpinistico», per rubare l’espressione a un vecchio istruttore di una scuola per duri, in quanto in certi casi hanno nomi diversi tra carte diverse, in altri i toponimi si intersecano tra loro. Sullo sfondo, molto chiaro per la prospettiva aerea pur non essendo eccessivamente lontano, compare in controluce la parte di monte Rosa, che si affaccia sulla valle di Gressoney.
Sempre con pendenza contenuta, raggiungo l'alpe di Tsa Fontaney. Per il sole sono tanto sudato, ma non posso beneficiare di una rinfrescata all'abbeveratoio, ora asciutto perché è in corso il lavaggio delle stalle. Il toponimo tsa, molto comune in valle, d'altra parte indica proprio un alpeggio elevato e soleggiato, dove non era praticato lo sfalcio. Attorno alle stalle ci sono pochi bovini: credo che la mandria fosse quella che ho udito al limite del bosco.
In assenza di indicazioni, seguo delle tracce che puntano verso un colle poco pronunciato a ovest del Morion e presto diventano una pista, dove metto in fuga una marmotta. Tale pista corre sopraelevata rispetto a un altopiano ondulato, in cui c'è un laghetto alimentato da una sorgente, che scaturisce proprio dalla pista. Non c’è vegetazione arborea, se non un unico larice pioniere al riparo di un dosso. Mi accorgo intanto che la roccia è di natura calcarea, dettaglio che spiega sia le doline che l'ampiezza e la fertilità dei pascoli. Raggiungo quindi un pianoro, dove metto in fuga una marmottina, e a svolte guadagno l'ultimo risalto prima del colle, sempre tra dossi erbosi e marmotte in fuga, lasciando sulla destra il sentiero per il Morion.
Al colle mi superano i due signori del parcheggio, una coppia sulla settantina, entrambi molto smilzi, mentre mi fermo a mangiare una pesca e bere dell'acqua. Oltre il colle, affacciato sull’altro ramo della Y valliva, si estende un altopiano ondulato di roccia ed erba, che termina bruscamente con un salto; in lontananza appare il santuario (forse per questo qui c’è una grande croce lignea), sul ciglio di un pianoro, con alle spalle un dentino di roccia giallina, l'Eremita di Cunéi, che si eleva leggermente da una cresta rocciosa. Fu così battezzato da «chi, a cagione del suo stesso ufficio, di battesimi se ne intende», ovvero dall’abbé Henry, parroco e mentore della Valpelline, nella seconda edizione della sua guida, mentre nella prima era solo descritto, ma lasciato senza nome. Dopo molti tentativi infruttuosi, fu scalato la prima volta nel 1924 da due alpinisti milanesi, Bramani e Fasana, a cui era stato indicato proprio dall’abbé e a cui si deve anche il virgolettato. Più a est, sul versante opposto del vallone, un picco di roccia scura, la punta Tsan, per la sua forma meriterebbe qualche denominazione evocativa, per l'irruenza disordinata con cui si scaglia verso il cielo. L'Urlo di Pietra, oltre a essere già protetto da copyright, suonerebbe tuttavia troppo melodrammatico, ci vorrebbe una gradazione in meno, perché è qualcosa di più terreno, più vicino all'impeto umano di Immigrant song dei Led Zeppelin che alla sofferenza esistenziale di Monch. Più a est ancora, e più lontano, ora il Rosa si mostra sin dal Polluce ed è più distinto.
Proseguo quindi per questi dossi erbosi e rocciosi. Subito oltre il bivio per un'altra via da Lignan, stavolta per la comba di Chaleby, costeggio un terreno poligonale, una modalità particolarmente fotogenica di erosione, tipica degli ambienti freddi, ma senza permafrost: è infatti dovuta ai cicli di gelo e disgelo, con un meccanismo che è stato compreso solo grazie ai modelli numerici al calcolatore.
Sul margine dell'altopiano, raggiungo un ulteriore bivio, dove provo a seguire un sentiero esposto e attrezzato, il Passet, in origine l’unico accesso al santuario per chi arriva dal col Salvè (ve ne era un altro che saliva dal basso, da La Servaz, dove oggi sorge il rifugio Magià). Il passaggio più spettacolare è una stretta cengia, in parte naturale, in parte appianata con pietre a secco, dotata di catena, che apprezzerò nonostante la roccia gneissica abbia una buona aderenza e il fondo sia asciutto, quando abitualmente gradisco le corde fisse soprattutto con fondo bagnato e sdrucciolevole. Il passaggio è infatti davvero stretto e spuntoni di roccia mi costringono a camminare sul ciglio per non urtarvi contro lo zaino e venire fatalmente sbilanciato. «Scavato nella roccia e in qualche punto assai emozionante», chiosa sinteticamente il caro vecchio Vaccarone. Sconsigliato agli impressionabili e ai cardiopatici, preciso io, più dei video di youtube dove si vedono torture, ammazzamenti e cose analoghe. Dopo di questo ci sono altri passi su rocce sul ciglio del precipizio. In un certo senso, pure io potrei aver condiviso un punto di vista affine allo spirito di sacrificio dei pellegrini di san Besso, scegliendo questa via, seppure solo a livello inconscio, in quanto razionalmente ero più che altro motivato dalla curiosità esplorativa per un sentiero storico. Nella mia pratica escursionistica limito per quanto possibile i pericoli oggettivi dell’alta montagna, essendo abbastanza instabile sulle gambe, anche se poi mi è capitato di farmi più male per incidenti urbani. La prova di coraggio è premiata all'atterraggio da un volo radente di gracchi. Pochi minuti di dossi rocciosi ed erbosi mi conducono al santuario.

Genius loci: il santuario

La posizione alpestre valorizza oltre ogni modo un edificio semplice e essenziale: per prima cosa lo riprendo perciò con una roccia montonata e un masso erratico in primo piano, la parete liscia e verticale della becca del Merlo sovrastata da un cielo cobalto sullo sfondo e la costruzione magnificamente integrata tra questi due elementi naturali delle alte quote. Mi pare appunto che il tetto in lose e il sobrio intonaco perlato alle pareti si inseriscano nel miglior modo possibile nel paesaggio essenziale dell’alta montagna. A questo punto un italiano vero esprimerebbe apprezzamento con la metafora di un’associazione culinaria azzeccata e saporita, tipo salsiccia e peperoni, speck e provola o ragù e besciamella, ma io ritengo la combinazione di yogurt e menta della tsatsiki più indicata. Per contro, alcune persone che l'hanno visitato o a cui ho mostrato le foto, adoperano termini negativi come squallido o desolato nel commentare questa visione. Di certo non mi ficcherei volentieri sui ghiaioni o sulle morene di sfasciume e men che meno mi avvinghierei con voluttà alla nuda roccia, come al corpo di un'amata con cui congiungersi: preferisco infatti gironzolare tra la montagna di prati e boschi. Tuttavia trovo questo deserto a due passi dai fertili pascoli davvero affascinante, questa giustapposizione molto amalgamata: l'armonia tra vegetazione e pietre che i monaci giapponesi hanno conseguito con secoli di arte dei giardini zen, modellando entrambi con fatica e dedizione, qui è già apparecchiata dalla natura. Osservato da sotto, non mi attrae meno dei cembri del bosco dell'Alevè avvolti dalle nebbie mistiche o delle distese di morbidi dossi punteggiati dei fiori di rododendro del Grande Est del Devero.
Poso lo zaino su una panca esterna e lo visito, dando un’occhiata ai quadretti di ex-voto al fondo della chiesa, esposti per l’edificazione dei devoti, come prescrive il diritto canonico ai santuari. Attorno all’altare, la scarna architettura è impreziosita da dipinti. Su un ripiano, c’è un album fotografico autogestito, dove i fedeli possono aggiungere la foto di una persona, che fa da memoria storica per i frequentatori abituali. Ricordo come la parete di foto fosse stato il dettaglio della Madonna della Corona che più mi impressionò, persino più della posizione aggrappata alla parete. Per questi santuari legati a una piccola comunità, la visita «rappresenta un momento in cui la devozione verso la figura celeste e la storia familiare che dentro questa devozione si racchiude possono essere trasmesse» (Demarchi): come gli ex-voto trasmettono alle generazioni future le attestazioni di fede e ne forniscono la prova, per vincere le incertezze e i dubbi, così fanno questi album per il ricordo delle persone. La trasmissione ha poi un momento istituzionale durante la messa, nell'elencazione dei defunti delle famiglie. Al piano superiore vi sono delle stanze con stufa, dove soggiornavano i pellegrini il giorno della festa e che prima dell’edificazione dell’adiacente rifugio erano concessi dal parroco agli alpinisti. È in consultazione un libro sulla storia, ma lo sfoglio solo distrattamente, perché è disponibile anche nella biblioteca del CAI. Il primo dettaglio che mi colpisce è il primato vantato: afferma di essere il santuario più alto d’Europa (o almeno delle Alpi), a 2656 m; le vecchie guide scrivevano invece più modestamente che era il più alto della Valle d’Aosta. Sempre santuario, beninteso, dal momento che sulle Alpi sono edifici sacri più alti, come ad esempio la chiesa sul monte Tabor in valle di Susa a 3186 m, ma che non sono meta di pellegrinaggi.
L’edificio attuale risale a metà Ottocento, quando fu ampliata la primitiva minuscola cappella. Secondo Canzio e Mondini, due alpinisti autori di una monografia sulla valle, contenuta in un bollettino CAI del 1894, in seguito a un lungo soggiorno e scambi di informazioni con notabili del luogo e studiosi, il nome deriva da una varietà di génépy presente in zona, detta cunéia dai locali. L’abbé Henry lo fa invece derivare dalla posizione al limite inferiore dei nevai permanenti (nei è neve in patois); per lui la pianta è invece il nome collettivo di diverse specie di achillea di alta montagna, abbondanti attorno al Lago dell’Eremita, che i montanari raccoglievano a beneficio dei produttori di liquori (generalmente essi davano nomi solo alle piante che utilizzavano). Il nucleo originario dell’edificio fu edificato a partire dal 24 luglio 1656, quando un costruttore di Issime ottenne un appalto dai rappresentanti delle comunità parrocchiali di Nus e Saint Barthélemy.
Una narrazione diffusa tra i pellegrini vuole che un giorno la Madonna si presentò all’alpigiano del posto sotto mentite spoglie di mendicante chiedendo ristoro, ma fu trattata con disprezzo. Il giorno dopo al posto del pascolo e dell’alpe si formò un lago; l’unico risparmiato fu un pastorello, che aveva mostrato compassione per la mendicante. In segno di ringraziamento egli scolpì una statua della Madonna, che successivamente portò in paese, ma questa ritornò miracolosamente sul luogo, dove fu perciò edificato il santuario, avendo ella scelto tale sede. Una statua attribuita al XVI-XVII secolo è conservata nel santuario nel periodo di apertura estiva e trasferita in paese il resto dell’anno. Una leggenda ex-post, comune a molti altri luoghi di culto cristiani edificati su preesistenti siti italici, per spiegare che la sacralità del sito non è una scelta arbitraria dell’uomo, ma è insita in esso.

Il santuario - l'epifania del divino e i riti

Infatti la scrittura notarile dell’appalto ci ha trasmesso pure la ragione che li spinse a scegliere quel luogo: era la presenza di una fontaine benitte, dove da tempo immemorabile i montanari si recavano in processione per impetrare la pioggia durante i periodi di siccità, con successo. San Gregorio di Tours nel VI secolo descrive ad esempio un rito con doni di oggetti a un lago per ottenere la pioggia e le processioni per impetrarla proseguono fino al giorno d’oggi, non solo a Cunéi, visto che in valle processioni per la Madonna della Neve sono comuni: infatti allora è il momento più secco dell’anno e la pioggia è necessaria ai pascoli del piano alpino prima che sia troppo tardi e diventi inutile. Anche qui il rito che vi si pratica rimanda all’ancestrale: durante la celebrazione patronale annuale, infatti, il sacerdote sale alla sorgente e immerge tre volte il crocifisso in essa. Il significato posteriore alla cristianizzazione è di una benedizione, ma, come appena osservato, già in origine era la sorgente a benedire il dio e donargli la forza di vincere la siccità: il santuario fu costruito poiché la sorgente era già magica di per sé, non per conferirle qualche potere particolare o addomesticarla. Un articolo sulla Domenica del Corriere del 25 agosto 1906 fa invece riferimento alla benedizione di un lago (quindi con un richiamo alla leggenda), di cui non è indicato il nome, ma che dalla foto annessa vedo essere il lago dell’Eremita.
Mi piacerebbe acquistare una cartolina da inviare come ai vecchi tempi, da timbrare all’adiacente rifugio, ma hanno solo un magnete e l’icona di questa Madonna dipinta su legno. Stranamente la cuoca afferma di non sapere dove sia la sorgente del rito, sebbene la scoprirò subito dietro al dosso alle spalle del santuario. Seguendo le indicazioni per il lago dell’Eremita, scavalco il dosso a nord del santuario e me la trovo di fronte, un rivolo d’acqua che sbuca dal fronte di una morena. Da essa preleva il ru, diretto a un laghetto accanto al santuario, dove, come mostra la foto in Lassù gli ultimi, avviene la cerimonia di immersione del crocifisso, ripetuta tre volte. È una cerimonia ampiamente attestata nel mondo antico nel culto delle dee madri della natura. Qui più che un residuo pagano è una consonanza nel simbolismo acquatico tra cristianesimo e altre religioni: plurime citazioni bibliche, sia delle Bibbia ebraica che del canone cristiano, fanno riferimento ad acque che danno nuova vita, a cominciare dal battesimo.

Genius loci: la sorgente

La prima cartina del posto, quella dell’alpinista britannico Adams-Reilly tracciata nel 1860 circa, riporta un residuo di ghiacciaio ai piedi della becca del Merlo. La spiegazione positivista che mi do è che, nascosto nella morena, anche anche in secoli miti come il Basso Medioevo o l’età imperiale romana, quando queste montagne furono colonizzate da comunità più strutturate che isolati cacciatori o pastori, si fosse conservato qualcosa tra del permafrost tra le porosità della morena e dei ghiaioni, un rock glacier o un ghiacciaio grigio, che assicurava l’alimentazione della sorgente anche in assenza di piogge. Ignoro se colgo nel segno, in quanto sicuramente non ho la percezione immediata dei fenomeni naturali, appannaggio di chi con essi vive e da essi dipende, ma è chiaro che questa sorgente li colpiva per qualche caratteristica, che la distingueva da ogni altra. Credo di esserci andato più vicino quando notavo l'aspetto desertico dei monti senza vita da cui invece sgorga una sorgente perenne in grado di fecondare la terra, un'anomalia che non poteva passare inosservata: la potenza del trascendente si manifesta sempre nello strano, nell’eccezione all’ordine naturale. Per contro, la sorgente incontrata a monte di Tsa Fontaney sgorga da un prato verde e non ha nulla di eccezionale.
In altre parole, questo fenomeno, in apparenza dimesso, nell'ambito della comprensione della natura dei montanari risulta immutabile, superiore al capriccioso divenire della natura, e incomprensibile, rispecchiando pertanto in maniera visibile i misteri del trascendente invisibile. Attraverso la riflessione intuitiva sulla sostanza del fenomeno, non mediata dalla conoscenza naturalistica di tipo meccanicista su cause ed effetti, ne estraevano un'essenza astratta dal significato cosmico, un fenomeno originario in grado di innescarne di analoghi derivati. Più o meno come intellettualmente dai postulati di Euclide si deriva il teorema di Pitagora, ma sul piano ontologico.
Lo vedevano inoltre come una porta per accedere all'invisibile, la "totalità viva e misteriosa" (Goethe), di cui sentivano il bisogno per giustificare, dotare di senso e nel contempo avere una forma di controllo sull'imprevedibilità e la precarietà della sorte di cui si sentivano in balia. Riflettevano sul fenomeno e trovavano una risposta ai propri bisogni interiori, un pensiero in cui l'oggetto si riflette sul soggetto e ne permea l'animo. Avevano la convinzione che la natura avesse una direzione e con questa manifestazione aprisse uno squarcio nell'incomprensibilità del suo cammino, che qui indicasse loro la strada verso l'eterno e immutabile, tramite cui scampare all'eterno divenire e dissolversi.
Goethe fornisce una sua versione della distinzione tra bello e sublime: il primo è ciò che ci piace e possiamo comprendere con l'intelletto, il secondo ciò che ci piace e ci sovrasta. Questa sorgente, che potrebbe passare inosservata a un viandante distratto, tanto è modesta, all'occhio vigile di questi montanari per il paesaggio e la natura circostante, attenti a carpire i segni della montagna da cui dipendevano per la sopravvivenza, evoca il secondo. Un sublime un po' rannicchiato come una persona timida a una festa, sussurrato, non impetuoso e travolgente come quello dei quadri di Turner. Un sublime figlio del rapporto concreto e materiale con la natura e non con l'esperienza meramente estetica di un nullafacente a zonzo come sono io oggi.

Torniamo ai riti

Fin dai tempi più remoti esiste una continuità nel culto delle sorgenti: già nel Neolitico una forma pare esserlo la presenza di pietre incise attorno alla dorsale del Beigua, presso Genova, una zona molto piovosa, quindi nel Bronzo si possono citare templi nuragici come quello di Santa Cristina e nella Grecia classica fonti legate a oracoli. I concili medievali fanno spesso riferimento a culti delle sorgenti da estirpare, ma alla fine la Chiesa si trovò costretta a integrarli in forme come questa, in cui sostituì ai simboli precedenti i propri. D’altronde fin da subito uno dei maggiori santi dell’Alto Medioevo, Colombano, pur combattendo aspramente i culti celtici e italici, fondò i cenobi di Luxeuil e Bobbio accanto a sorgenti termali già sfruttate dai Romani. In valle d’Aosta i ru, i canali irrigui scavati a partire dal Basso Medioevo, hanno un’importanza capitale, in quanto la loro acqua ha generato l’economia della valle come la conosciamo ancora oggi. Sono state deviate le acque, anche abbondanti grazie all’estensione dei ghiacciai, verso le zone più aride e solatie, trasformandole in terreni ottimali per i prati da pascolo, per permettere l’allevamento bovino su larga scala. Questo infatti necessita di prati, mentre quelli ovino e caprino, in altre regioni alpine assai più diffusi fino all’abbandono postbellico, possono essere esercitati proficuamente anche nei boschi, dove, come ho visto salendo, durante le siccità l’erba rimane verde più a lungo anche senza irrigazione.
Su un masso erratico presso il punto di prelievo è posto un altare con una targa con la data 1952, che non è la data in cui è stato scavato il ru, in quanto risulta descritto già da Canzio e Mondini (purtroppo le carte più antiche non sono abbastanza dettagliate). Significativo che sia stato scelto un masso erratico, anziché una zona più attigua alla sorgente: sui massi si può fare un discorso del tutto analogo a quello delle sorgenti. Tra l’altro un rito dei massi è contenuto nella festa successiva all’immersione, in quanto ogni famiglia, di quelle del luogo tradizionalmente legate alla processione, ha un masso riservato dove pranzare, mentre gli estranei, come turisti, curiosi, fotografi devono mangiare in piedi sugli umidi prati. Proseguo lungo il sentiero appena tracciato e finisco sopra un arrotondato cuneo roccioso, una verruca glaciale, che delimita a sud il lago dell’Eremita. Da sopra posso ammirare il cordone morenico che scende nella valle e le cime rocciose che la contornano. La roccia dev’essere abbastanza friabile, perché alla base vi sono estesi ghiaioni. Il dettaglio che più mi colpisce per la verticalità è la parete della già citata becca del Merlo, che fu salita per la prima volta da due sottufficiali degli Alpini nell’estate del 1941. C’è anche una cima raggiungibile con sentiero su sfasciumi, la becca Fontaney, affacciata sull’alpe da cui prende il nome, alta poco meno di 3000 m. Per tracce scendo al laghetto, che ha un bel colore verdino ed è trasparente; costeggiando la riva metto in fuga dei girini, cosa che mi sorprende non poco, perché me lo aspettavo privo di vita, per la quota e la trasparenza.
Tengo le mutande, anche se non c’è nessuno, e mi immergo nel lago di acqua benedetta, lasciando però la testa fuori. La cerimonia di immersione, comune a molte religioni comprese l’escursionistica e la consumista, ha il ruolo di trasformare la persona grazie al potere generativo dell’acqua. Nel Medioevo era molto popolare la versione con la fontana dell’eterna giovinezza, in grado di rigenerare all’infinito i corpi; oggi il bagno in mare ha medesima funzione rigenerativa fisica e psichica, durante i momenti di pausa funzionali a ripristinare l’efficienza nel dovere preponderante della produzione di PIL, che impegna la maggior parte del nostro periodo di veglia. L’acqua è davvero fredda, ma la temperatura esterna mite, al culmine di un’ondata di calore. La Domenica racconta invece di come un secolo fa i pellegrini portavano con sé della legna per scaldarsi. Sapendo stare a malapena a galla, sono comunque prudente o fifone che dir si voglia e resto dove tocco. Avevo portato il cavalletto per immortalare il gesto, ma alla fine ho scelto di non essere autocelebrativo, con gran dispiacere di lei. Per il freddo non resto tanto, ma poi ripeto per l’entusiasmo. Durante tutto il rito, incredibilmente resto presente sulle sensazioni che il mio corpo mi trasmette, senza pensare ad altro: una cosa che mi capita di rado, anche quando faccio qualcosa che mi stimola, come durante il cammino, così come per contro mi può capitare all’improvviso di rendermi conto di aver abbandonato il corpo in condizioni insostenibili a lungo. La mia mente rifiuta di essere una manifestazione del corpo e vaga per i suoi sentieri libera dalle sue radici: la percezione di me stesso è normalmente dualista, ma in questo momento sono riuscito congiungere le mie due metà.
All’uscita mi sdraio su una roccia, cercando di sfruttarne il calore per far asciugare le mutande. Torno quindi alla chiesa per accendere una candela e al rifugio per acquistare una raffigurazione della statua, da regalare a una cugina per la sua nicchia sacra (nel suo caso di ortodossia cattolica). Al gestore non pare vero l’interesse al di fuori della festa e si illumina in volto.

Sulla via dei contrabbandieri

Proseguo quindi per un sentiero storico, che conduceva in alta Valpelline, dove ora c’è lo sbarramento di Place Moulin, attraverso il colle Livournea a 2841 m; tra gli altri ci transitavano i contrabbandieri diretti in Svizzera, perché questa via evita i paesi. È conservato al santuario un ex-voto datato 1899 di un possibile contrabbandiere, in quanto raffigura un uomo in paesaggio montano con un pesante fardello, quando il trasporto da e per gli alpeggi era più comunemente a carico delle donne. Percorro la prima parte di tale via del contrabbando, fino alla base della rampa per il colle Livournea, dove c’è il lago Luseney. Il sentiero è in eccellenti condizioni, molto più di quando furono redatte la guida di Garimoldi, che neppure lo cita, o la Guida ai Monti d’Italia, che lo descrive come incerta traccia, in quanto oggi vi transita l’Alta Via 1. L’ho intercettata poco dopo il col Salvè, anche se questa evitava il Passet per preservare i preziosi trekker stranieri e gli sfiniti corridori del Tor: per chi va verso Courmayeur l’imbocco non è neppure segnalato. È probabilmente il tratto migliore dal punto di vista del piacere paesaggistico dell’escursione, per l’ambiente incredibilmente selvaggio che incontro, con ripidi pendii erbosi, canaloni orridi, pareti verticali. Per la verità, il sentiero era originariamente diretto al colle di Montagnaya, che collegava Bionaz a questa zona, un sentiero oggi scomparso su questo versante. Invece i pellegrini diretti di lì al santuario preferivano il col di Cunéi, formato in realtà da due passaggi distinti separati dall’Eremita, più diretto anche se meno agevole. Tuttavia non doveva essere un pellegrinaggio particolarmente importante o partecipato, perché l'abbé Henry, pur nominandolo nella guida della valle, non lo cita tra le pratiche devote della sua parrocchia, Valpelline, forse anche perché una cappella dedicata alla Madonna delle Nevi è presente in quel comune. La via principale tra Lignan e l’alta Valpelline valicava invece il colle di Vessona, tra il Mont Faroma e la becca del Merlo, alla testata della comba di Chaleby, a ovest del colle omonimo ai cui piedi sono transitato prima di giungere qui.
Dal santuario scendo verso un pianoro erboso di forma ellittica molto eccentrica, delimitato a sinistra da cime rocciose con i loro coni di deiezione e a destra da un orlo di erba e rocce montonate, e lo percorro per la lunghezza fino alla soglia glaciale, dove mi volto a salutare la conca di Cunéi e piego a sinistra. Dal bordo del piano glaciale e per buona parte del tragitto seguente ammiro la sottostante valle, da cui scenderò nel pomeriggio, uno scavo glaciale a U di cui questa zona pare essere la spalla, fin qui stretta e dai fianchi scoscesi, sempre più ampia e dolce a mano a mano che digrada. Il sentiero punta verso la testata valliva, tagliando in traverso ripidi prati alternati a colate detritiche, dove si destreggia bene, per poi risalire un pressoché verticale canalino erboso, dove è talmente ripido da essere gradinato.
In cima al canalino mi trovo dinnanzi degli impluvi talmente ostici che subito non riesco assolutamente a capire dove si possa passare, finché scorgo la sottile traccia a monte della zona più impervia, diretta a un alto colle. Per prima cosa però scende, per sottopassare uno spuntone roccioso, ben tracciato e abbastanza ampio da non darmi orrore per il vuoto, nonostante l’elevata esposizione su un fianco scosceso. Sale quindi deciso in traverso, nuovamente con alternanza tra ampi prati e qualche colata di detriti di varia pezzatura, fino a quando appare chiaro il motivo della salita: bisogna passare a monte di un ripido canalone moderatamente orrido, con fondo non troppo irregolare, ma delimitato da salti rocciosi. Intanto nel paesaggio sono comparsi, a nord-est dietro a un colle, dei plateau ghiacciati, che dovrebbero essere quelli tra la Gobba di Rollin e i Breithorn. Dal lato opposto, sopra di me, ci sono invece pareti colorate di blu e rosso, magari rocce ofiolitiche a vario grado di ossidazione.
Il sentiero frattanto resta buono anche dove deve superare un tratto franato. Passo a monte di un canalone gemello fraterno del precedente, con un fondo ricolmo di sfasciumi grossolani e che salta nel vuoto al termine della gola. Mi attende ora una salita a un colletto, che sarà altrettanto ripida del canalino, più lunga e con me più stanco e affamato: non mi resta che puntare lo sguardo verso il basso e salire a ritmo lento. Sono talmente obnubilato che neppure mi passa per la testa di guardare l’altimetro per capire quanto ancora devo penare. Se non altro gli dèi mi graziano, mandando un po’ di nuvole a oscurare il sole e rinfrescare l’aria. Quando finalmente vedo la cima della piramide che contrassegna i colli delle Alte Vie valdostane, capisco di avercela fatta.
Al colle Terray mi fermo a contemplare il nuovo panorama, una zona molto rocciosa e aspra (triste dicono Canzio e Mondini). Purtroppo non vedo il lac de Luseney, in quanto di fronte ho un pianoro più di rocce montonate che di erba, che chiude la vista verso il basso. Alle spalle fa una certa impressione la sottile linea bianca del sentiero tra i dirupi. A breve mi renderò conto che magari avrei potuto anche bere un sorso, visto che non lo faccio da un’ora e mezza e il vento, il sole e lo sforzo mi hanno fatto abbondantemente traspirare. Nel piano incrocio due ragazzi francesi con grossi zaini e al termine fa capolino il bivacco, ma del lago ancora nessuna traccia. Dove il sentiero scende diretto per la massima pendenza su ghiaia scivolosa, magari per una frana non ancora ripristinata, incrocio un signore che sale con vigore, più pochi altri escursionisti alla spicciolata più avanti. Il fondo ritorna verde dove il sentiero attraversa nuovamente dei dossi.
Finalmente vedo il lago, che è secco all’inverosimile ed è attorniato pertanto da una vasta distesa di pietrame scuro, ma lo spettacolo austero, tra cime rocciose e un’alta morena frontale rossa che si protende fin sulle sue sponde (nella carta di Adams-Reilly è riportato ancora un piccolo ghiacciaio alle sue spalle), ampiamente compensa per fascino la magra. Vari autori ottocenteschi fanno riferimento al colore cangiante delle sue acque, ma a me, che le vedo sempre sotto la medesima coltre di nuvole, appariranno di un colore uniforme e costante. La becca di Luseney da qui risulta in parte nascosta da un’anticima piramidale. Fu salita la prima volta il 2 agosto 1866 dal versante opposto appunto da Adams-Reilly, un britannico nato in Irlanda, con la guida nientepopodimeno che di Carrel; in cima a ricordo lasciò una fiaschetta di cognac, oltre al solito biglietto in una scatola di latta e all’ometto di pietre. Il primo a salire da questo versante fu invece il celebre Martelli, autore con Vaccarone della prima guida alpinistica delle Alpi occidentali. Tutti costoro furono colpiti dalla sua forma piramidale simmetrica, e decantarono il panorama ammirato, «di picchi rocciosi mostranti forme fantastiche e tutte le tinte delicate che le roccie possono assumere», che tra l’altro include il Forte di Bard, come confermato dall’oracolo digitale. Essi la descrivono come «uno dei più graziosi picchi nevosi delle Alpi» (Adams-Reilly, trad F. Mondini): di questa neve che il britannico trovò sulle sue pendici, nulla è rimasto a fine estate, almeno su questo versante, e oggi la montagna si mostra di roccia nuda.
Alle 13.40 mi fermo per pranzo su una roccia con tale vista. Mangio un piatto unico di basmati con toma di capra e melanzane e zucchine verdi cotte con una spezia estratta a sorte allungando il braccio in dispensa, dei semi per dolci scaduti da un anno, ma ancora con un vago sentore di anice. Da segnalare un topolino che guizza nella pietraia e la percezione che le mutande si sono asciugate, anche se non saprei dire quando il processo si è completato.
Dopo vado a visitare il bivacco Reboulaz, una capiente struttura in legno e pietra, dotato di cucina, pannelli fotovoltaici e gas. Dentro un gruppetto occupa tutto lo spazio chiacchierando amenamente, prima di lupi, poi di gente in preda alle allucinazioni per lo sforzo e l’insonnia forzata del Tor, la corsa a perdifiato lungo le due Alte Vie. Tra l’altro noto che loro, valdostani di un’altra valle, pronunciano cuni il nome del santuario. Vorrei farmi un caffè, ma la manopola del gas mi pare incastrata. Il bivacco è stato costruito dalla famiglia di un giovane del posto caduto nel 1987 sulla becca di Luseney, scivolando su una placca e battendo la testa, pochi giorni prima di compiere 26 anni. Si era laureato in informatica e lavorava a Ivrea nell’indotto Olivetti, ma sognava di tornare in valle, dove era attivo nella pro loco e la famiglia possedeva un albergo. Il padre morì nel 2001 in questo bivacco dopo una messa di commemorazione, un destino gemello triste e crudele, come solo la natura selvaggia può dare. Vedo che nelle istruzioni per il pagamento del pernottamento compare il nome della sorella, che non risulta invece più nei contatti dell’albergo (ma magari c’è la figlia).
Prima di questo bivacco in muratura, dal 1958 ve ne era un altro dei tradizionali a botte di lamiera, intitolato a Franco Nebbia, un alpinista della GEAT, sottosezione del CAI Torino. Dopo la costruzione del Reboulaz fu trasferito nella valle di Cogne. La damnatio memoriae di questo alpinista colpì pure un Tremila a lui intitolato dai primi salitori, posto nel vallone di Cunéi, perché un torrione di roccia sulla vetta, formato da un masso in bilico crollò nel decennio scorso. Nel 1952 era invece crollata una vasta distesa di terreno morenico a ovest della becca di Luseney, a causa dell’acqua che l’aveva impregnata. I detriti scesero per tre chilometri e 1300 m di dislivello, distrussero l’alpeggio di Chamen, uccidendo i pastori e il bestiame, e fermarono la loro corsa solo a valle, dove sbarrarono la strada al torrente, che formò un lago e sommerse così una frazione. I montanari dovettero scavare un canaletto in tutta fretta per far defluire le acque, prima che lo sbarramento collassasse e provocasse una disastrosa ondata di fango e pietre.

Il rito della pioggia

Comincio la discesa, puntando a una merenda al rifugio Magià. Le nuvole si sono addensate, ma non paiono minacciose. Dove mi affaccio sulla soglia glaciale, oltre la quale scendono ripidi i conoidi di deiezione vegetati, incontro un signore in tenuta da trail, seguito a breve dalla moglie assai meno sportiva, in compagnia di un cagnetto. Qui lascio l’Alta Via 1, che taglia in quota le colate detritiche e poi sale a zig-zag verso un colletto, che conduce in Valtournanche. Io invece proseguo verso valle, tra pietre ed erba, verso una profonda valle a U, prima delle quale pascolano delle mucche nere. Più sotto incrocio un uomo con pizzetto che, assieme a un ragazzo, ha intenzione di passare la notte al bivacco e pertanto mi chiede se è affollato. Le mie previsioni meteorologiche si rivelano presto errate, perché sento un tuono e dal cielo arrivano delle gocce. Sono tuttavia sempre convinto che non debba scatenarsi un finimondo inzuppamutande, per cui indosso solo il coprizaino, tenendo la giacca a portata di mano, anche perché non fa per nulla freddo e con essa addosso farei la sauna. Sul fondovalle pare invece esserci uno scroscio più intenso, ma magari è solo la compressione della distanza.
La pioggia ebbe un significato religioso non minore dell’acqua sorgiva, per il suo potere fecondante dei campi: un mito melanesiano narra di una fanciulla che restò incinta per essere stata bagnata dalla pioggia. Farmi bagnare da un po’ di pioggia completa i riti acquatici odierni. Invece la moderna religione consumista aborre ogni manifestazione meteorologica che non sia un sole scintillante o un tramonto infuocato: è infatti una religione figlia dell’urbanesimo, che ha perso ogni connessione con le necessità agricole e ignora persino come si formi l’acqua in bottiglia del supermercato. Mi sollazza molto un sito meteo sensazionalista, che a ogni pioggia titola “Crolla tutto”. Una volta invece mi divertì sentire una persona raccontare che non avrebbe potuto andare a mangiare la polenta in un rifugio a bordo strada, se quella domenica fosse piovuto.
Purtroppo all’alpeggio di Crottes noto solo il Rumex alpinus, ma non gli edifici scavati nella terra, con volte a botte, per proteggerli dalle valanghe, che sarebbero stati pertanto meritevoli di una visita. Sono infatti in un teatro di pareti rocciose, cupe per il cielo plumbeo, da cui colano detriti di falda in pendii assai ripidi. Riesco intanto a fotografare le mucche mentre piove in lontananza, anche se nell’immagine finale non si vedrà un granché. Mi supera quindi un signore con la zaino davanti alla pancia e il K-Way indosso, che afferma di sperare che non piova più e non sa quanto sto gustando questi momenti. Plano dolcemente sul piatto fondovalle, tra larici anche monumentali e abbondanti segni di slavine, nella forma di radici al vento. Ora il paesaggio assume davvero i connotati da film su Nosferatu, da antro pur essendo all'aperto, tanto è cupo: come colonna sonora ci starebbe bene qualche ululato, qualche ghigno ultraterreno o Filthy habits. Non ho tuttavia ricordi uditivi oltre i tuoni di prima, piuttosto il silenzio che segue la furia degli elementi, senza che tuttavia questa ci sia stata, se non come gesto, come una danza tribale rappresentata a beneficio del forestiero, senza vera azione né partecipazione. Mi resta il dubbio su quanto l'avrei apprezzata, perché sarebbe stata un'esperienza orgiastica e sublime, ma altrettanto disagevole.

Il rientro

Tra prati alternati a lariceti arrivo al rifugio, mentre della gente si allontana; dopo aver ordinato ai tavoli una torta di mele e una birra locale, di cui in passato apprezzai soprattutto la versione con segale, vado a darmi una rinfrescata e lavarmi dalla faccia la crema solare ormai inutile. Divido la torta con una gattina siamese con le scarpette bianche, più interessata al cibo che alle coccole. Mentre mangio, mi viene incontro una vecchia conoscenza appunto della GEAT, qui in vacanza qualche giorno per salire su un po’ di cime dei dintorni. Oggi, prima di arrivare qui, è stato su Cima Longhede e becca d’Aver, quindi andrà su Rocca Bianca, un Tremila escursionistico sulla dorsale con la Valtournanche. Arriverà in cima alle 10: è uno che attorno al solstizio d’inverno, per salire su Rocca Patanua 2409 m, parte da Borgone 400 m; questo per abitudine, non come quelli che salgono sul Rocciamelone da Mompantero o su un Quattromila da Gressoney una volta nella vita per fare un’esperienza insolita. Per salire al rifugio ha impiegato un’ora, a me ne servirà una mezza per scendere. In effetti il rifugio, che è più un alberghetto con pure una sauna, può essere una buona base per questa zona, di cui lui apprezza soprattutto lo scarso affollamento, specie in confronto alle zone più rinomate della Valle d’Aosta, come le valli del Bianco. A proposito, concludo la merenda con un caffè chiamato 4810 e pure piuttosto buono.
Mentre mi preparo a partire, dopo essere stato fermo quasi un’ora, si siede al tavolo accanto al mio un gruppetto di escursionisti tedeschi sulla sessantina, con zaini da trek di più giorni. Seguo la sterrata, dove raggiungo un gruppo familiare con un ragazzino con ritardo mentale. Giunti presso un ponte, loro lo valicano, diretti a Porliod, mentre io imbocco una pista erbosa (non ci sono cartelli, solo segnavia più avanti). Intanto qui splende un sole implacabile e picchia pure forte, mentre sui monti alla testata della valle il cielo è addensato e borbotta: sole e pioggia si abbracciano e contorcono assieme voluttuosamente. Costeggio una casa, dove una grossa cagna nera dal pelo corto e liscio mi salta attorno invitando me a giocare, perché i suoi padroni preferiscono prendere il sole seduti su delle sdraio. A differenza di stamattina, i prati sono molto verdi.
La pista, essenzialmente due solchi di ruote nel prato, continua lungo il torrente, tra prati e gruppetti di larici, fino a sbucare in un pianoro prativo più esteso, su una nuova sterrata. Se la imboccassi a destra, scenderei a Praz per la più rapida, ma preferisco proseguire su questo lato del torrente, per vedere una fornace da calce riportata sulla mia cartina. Intanto sento tuonare sempre più forte e vicino. Mi viene in mente che, non di rado, in montagna cade un rovescio più debole nelle ore centrali e poi nel pomeriggio si scatenano gli elementi. Anche stavolta il mio vaticinio sarà sbagliato, perché entro mezz’ora cesserà di tuonare: avrei dovuto bere dalla sorgente miracolosa per acquisire facoltà oracolari, esattamente come capitava in certe fonti greche, ma magari l'immersione del mio corpo del lago ha evocato la pioggia per i pascoli, utile in questa ennesima estate siccitosa. Sempre su sterrata, seguo da vicino il torrente, tra larici e abeti rossi, in un ambiente più fresco e ombroso, emotivamente molto rilassante e in netto contrasto con la tensione fisica e il paesaggio impervio del traverso da Cunéi al lago Luseney. Passo da una captazione in cemento del torrente e da uno stagno artificiale, con il suo canale di alimentazione. Ad un certo punto i segnavia mi conducono sul vecchio sentiero, che taglia un tornante, ma non è molto curato: oltre a numerosi piccoli rami sul fondo, alcune sorgenti creano dei pantani, senza contare che è nuovamente al sole. Allo sbocco sulla sterrata nessun segno lo indica. Dopo un lungo tratto senza foto, per la luce contrastata del bosco al sole, mi affaccio su un prato da cui riesco a fotografare l’Emilius, nel frattempo comparso oltre lo sbocco della valle, cinto da abeti e nuvole, proprio mentre scompare il panorama delle cime rocciose dell’alta valle. Questo prato peraltro non sembra essere più pascolato, perché vi cresce erba molto diversa da quella dei prati del mattino.
Arrivo a un ponte sul torrente, lo valico e trovo indicati i resti di un mulino e una fornace per la calce, ripuliti dalla vegetazione invasiva e dotati di cartelli esplicativi da un gruppo di volontari una decina d’anni addietro. Del primo sono rimasti solo lo scavo in cui c’erano le macine e la base del muro perimetrale, in cui sono visibili gli alloggiamenti per le ruote, oltre che il canale di scolo oggi asciutto, con tanto di lastre in pietra come ponticello sul tracciato del sentiero. Il secondo, che era più essenziale e consisteva solo in un tronco di cono in pietra a secco, con apertura in basso, è ancora integro. Un cartello racconta come avveniva la lavorazione, portando qui il calcare con una teleferica da una cava sulla becca d’Aver e cuocendo il tutto con legna, trasformando così il carbonato di calcio in ossido (calce viva), con liberazione di anidride carbonica. Sul luogo di impiego era trasformato in idrossido (calce spenta) immergendolo in acqua, con cui dava una reazione fortemente esotermica con conseguente sviluppo di bolle di vapore acqueo. Un’ipotesi etimologica creativa vuole che il colle di Livournea derivi il suo nome dal latino libourneus, dal significato di bolle bianche, che i Romani avrebbero visto nel torrente, per la presenza di un giacimento di calce viva al colle. Un torrente ribollente è un’immagine molto tolkeniana, ma purtroppo il metodo scientifico elimina quasi sempre le ipotesi più in sintonia con questa. L’unica eccezione che mi viene in mente sono quegli scienziati che hanno dimostrato che l’esperimento mentale EPR, tanto fantasmagorico che Einstein lo propose come paradosso della meccanica quantistica, per dimostrarne le carenze, è invece riproducibile empiricamente.
Proseguo lungo una mulattiera lastricata nel fitto bosco di abeti rossi molto umido, con muschio sulle pietre. Su una pigna vedo per la prima volta un curioso vermetto così snello da parere un fil di ferro, che potrebbe essere la forma adulta di un nematomorfo, dei vermi che conducono la maggior parte della vita come larve parassite, perché la forma adulta ha il solo scopo riproduttivo. All’uscita dal bosco, sul terreno c’è una pietra azzurra molto liscia su cui mi pare di riconoscere delle strie glaciali.
La gita termina in salita, nei prati a valle di Praz. Giungendo alla meta, trovo un punto di vista più agreste per una foto a San Bernardo ed Emilius, più affine all’immaginario di Lassù gli ultimi dello scatto del mattino, poiché taglia via le case moderne, ma valuto che non valga la pena fermarmi per il prossimo tramonto, in quanto il cielo è interamente coperto. Mentre alla fontana riempio la borraccia di acqua da portare a Torino (è più fresca di quella di Baravex), mi telefona un’amica a cui avevo mandato un messaggio a proposito dell’incontro con la comune vecchia conoscenza.

I valdostani secondo i foresti (e viceversa)

Accanto alla fontana un ragazzo lavora con degli attrezzi, ma sono troppo distratto dalla telefonata per badare a cosa fa, mentre degli adulti chiacchierano sul margine della strada. Un clichés dei viaggiatori illuministi e romantici riferiva la presenza di numerosi cretini in Valle d’Aosta. Nacque da un’impressione di De Saussure, quindi sul finire del Settecento, che a Villeneuve fu colpito dal loro aspetto spaventoso combinato all’assenza di intelligenza: «qualche suono inarticolato fu la loro unica risposta, e lo stupido stuporecon cui mi guardavano, i loro gozzi enormi, le labbra semiaperte, le palpebre gonfie e spesse, le loro ganache pendenti, la loro carnagione scura, avevano qualcosa di assolutamente spaventoso in loro» (Voyages dans les Alpes, § 954). I viaggiatori successivi non mancarono di vedere cretini ovunque nella regione: Whymper, ad esempio, una settantina d’anni dopo rimarcò che «raramente si vede una valle così fertile e affascinante, una che - cretinismo a parte - lascia un’impressione così gradevole sul viandante, dove un numero eguale di individui è ridotto a una condizione che qualunque scimmia rispettabile disprezzerebbe» (Scrambles amongst the Alps). Al crepuscolo del secolo, Canzio e Mondini sul bollettino CAI si premurarono di specificare che i valligiani di St. Barthélemy «sono in generale bella e robusta gente, intelligente e laboriosa […] cosicché i cretini sono relativamente in piccolo numero» (corsivo mio). Ancora nel 1913 l'abbé Henry vi dedicava un paragrafo apposito per la sua valle, con tanto di titolo, nel quale specificava che, grazie al progresso, non ne erano rimasti che pochi e inoffensivi, e solo nell’edizione successiva del 1925 ometteva del tutto l’argomento.
Oggi invece molti forestieri raccontano della mancanza di garbo e dello scazzo (non mi viene un termine più adeguato e meno volgare) dei locali. Ad esempio, una conoscente che frequenta molto la Vallée per motivi di lavoro, mi riferì una volta che, per essere presi in considerazione, bisogna per prima cosa insistere su quanto si sia seccati dall’essere lì. Oggi evidentemente sono stato fortunato, perché le ragazze in servizio al rifugio erano molto sorridenti, gentili e disponibili; solo la cuoca del rifugio Cuney mi ha liquidato, per ragioni che ignoro ma potrebbero essere una sorta di vergogna dei riti agresti, per cui temeva di essere giudicata antiquata e superstiziosa da un forestiero metropolitano, oppure il fastidio per l’interesse di un forestiero per un luogo che i valligiani sentono di esclusiva proprietà e vedono invaso dai turisti curiosi. Oggi infatti mi sono addentrato in un luogo modellato dal pensiero, più che dalle braccia dei montanari e non ho dunque violato solo uno spazio fisico di altrui appartenenza, come faccio di solito, persino in città per professione. Mi auguro di essere stato schivo e discreto quanto possibile.

Per approfondire

A. Adams-Reilly, The Bec de Lusney, Alpine Journal III
S. Barberi, Le milieu alpin dans l'art religeux en Val d'Aoste, cotrao, L'homme et les Alps, Grenoble 1992
Ten. Carlo Sacchi e S. Ten. Vittorio Rosica, Cronaca alpina. Becca del Merlo, Le Alpi, vol XLII, n. 9-12 luglio-ottobre 1943
E. Camanni, Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Bari 2016
E. Canzio - F. Mondini, La valle di St. Barthélemy. Un angolo dimenticato nelle Pennine, Bollettino del Club Alpino Italiano, Anno 1894 Vol. XXVIII — N. 61
M. Chabloz, Notre-Dame des Neiges a Cuney, Nus 2009
N. Demarchi, Pregare in vetta, Gignod 2021
C. Dutto, Echi delle Terre Alte. Vite del popolo silenzioso delle montagne, Villar Perosa 2023
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 2008
E. Fasana, L'ermite de Cunéi, Club Alpino Italiano Rivista Mensile, maggio 1925 Anno XLIV Num. 5
G. Garimoldi, La valle di St. Barthelemy, Torino 1962
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A. Martelli - L. Vaccarone, Guida delle Alpi Occidentali, Torino 1889-1896

Galleria fotografica

San Bernardo
San Bernardo
Lignan
Lignan
L
L'Eremita di Cunéi
Terreno poligonale
Terreno poligonale
Punta Tzan
Punta Tzan
Oratorio di Cunéi e becca del Merlo
Oratorio di Cunéi e becca del Merlo
Oratorio di Cunéi: gli ex-voto
Oratorio di Cunéi: gli ex-voto
Lago dell
Lago dell'Eremita
Fontaine benitte
Fontaine benitte
Un orrido impluvio
Un orrido impluvio
Lac Luseney
Lac Luseney

Rifugio Magià
Rifugio Magià
Becca di Luseney
Becca di Luseney
Emilius
Emilius

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Sergio Chiappino

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