Serenissime dendriti
Riviera di Levante
27 febbraio
In un baleno
Un viaggio da Bogliasco a Camogli, un poco sopra la linea di costa, attraverso la compenetrazione dendritica tra la dismessa agricoltura di villa della Repubblica di Genova e l'edilizia residenziale contemporanea della classe benestante

Diario di viaggio
In principio erat pestum
Dopo aver pasteggiato a spese del datore di lavoro con pasta trafilata al teflon condita dal pesto del discount, sorge in me il desiderio di calare sulla Riviera per assaporare della Liguria meno posticcia, non solo a beneficio della crapula, ma soprattutto dello spirito. Motivato dalla lettura di un libro sulla duplicità umana artefice e fruitrice del paesaggio, scelgo di ammirare la compenetrazione dendritica tra la dismessa agricoltura di villa della Repubblica di Genova (le case dei proprietari e conduttori circondate dai campi) e l'edilizia residenziale contemporanea della classe benestante, in parte lambita durante il giro della montagna di Fassa: tutta la zona del golfo Paradiso tra i confini orientali del capoluogo e il promontorio di Portofino, tra il mare e i primi declivi, che già nel XVI secolo appariva come la propaggine di un’immensa città litoranea: lì appunto il modellamento e la contemplazione del paesaggio sono sin da allora organicamente inseriti in opulenti circuiti economici tuttora vitali.
Persa la prima occasione per un inconcludente passaggio in pronto soccorso di un caro e dei relativi cascami, ne approfitto per riflettere sul senso del percorso originariamente ideato con altro scopo e modularlo. Ho sempre avuto tempi di assimilazione lunghi e beneficio del rimandare sine die l'elaborazione dei percorsi. Alla fine della fiera al percorso più o meno obbligato da Bogliasco a Ruta, viste le premesse, aggiungerò prima una puntata al punto panoramico detto il Paradiso, da cui avere una visione d'insieme dei luoghi attraversati (essendo un paesaggio lineare lungo la costa, ma con una dimensione verticale come una scenografia teatrale, la vista frontale come magnificata dal Giustiniani nel XVI secolo è quella ideale), quindi una seconda al Semaforo Nuovo, vecchio marchio tecnologico sul territorio, dove recentemente l'urbanizzazione del turismo di lusso ha adocchiato un'area rurale in corso di naturalizzazione. Da lì mi potrò concentrare sulla contemplazione estetica dell'altra metà del paesaggio, il mare tra le montagne che ha contribuito in maniera sia climatica e paesaggistica che di via di comunicazione a ogni tipo di intervento sul territorio, tanto agricolo quanto edilizio. Infine progetto di andarmi a strafogare di torte di verdure e focacce a San Rocco, prima di sonnecchiare sull'ultimo treno per l’Oltregiogo. Stavolta non mi interessa scendere a punta Chiappa, dove anni addietro trascorsi una sera di Santo Stefano nell'umidità salmastra che mi inzuppò i capelli a fotografare il pluf del sole nel mare e poi il medesimo illuminato dalla luna piena, prima di tornare con un treno notturno ora soppresso.
Ci provo durante il successivo riposo feriale, quando i treni sono più frequenti e le focaccerie aperte anche fuori dai centri balneari. Prendine anche per me, annota la fidanzata: purtroppo gli accidenti serali mi consentiranno di fare rifornimento unicamente di cibarie al formaggio, che lei gradisce come io gli outlet.
Not rain on train
Dal treno che raccatta pendolari dai centri truffaldinamente piemontesi e genuinamente liguri della valle Scrivia, il primo paesaggio crepuscolare, quando finalmente sollevo gli occhi dal libro, è il fiume di nebbia sul fondovalle, qualche decina di metri più basso della linea ferrata, da cui emergono le cime degli alberi spogli. L’apparizione è troppo fugace e mi coglie alla sprovvista, senza neppure lasciarmi il tempo per il pensiero di incomodare i vicini, recuperare lo zaino dalla cappelliera e scavare in cerca della fotocamera. «Paesaggio horror», lo connota uno di costoro, ma a me sembra piuttosto una visione in cui i preponderanti elementi umani di questa valle intensamente urbanizzata e industrializzata sono ricondotti a una dimensione meno invasiva sull’insieme.
Il treno è in lieve ritardo e resta ancora immobile qualche minuto in una galleria prima di Principe, dove da qualche anno si arresta la maggior parte dei treni a causa dei lavori al nodo di Genova, innescando la stizza dei lavoratori, che perderanno la prima coincidenza per Brignole. Per contro io riesco comunque a prendere al volo quella per Bogliasco, dove trovo un posto a sedere di fronte a un uomo dalla mise trasandata dell’artista, come quella che mi immagino in Glenn Gould quando la guardia dello studio di registrazione lo scambiò per un barbone. Scende subito a Brignole, come quasi tutti gli altri passeggeri.
Durante la lunga sosta a Nervi, per dare la precedenza all’intercity Milano-Livorno, medito lungamente e inconcludentemente se estrarre la fotocamera per riprendere la Marinella con l’enorme portacontainer in uscita dal porto di Genova. Le grandi navi mercantili sono un iconema della costa ligure che cerco sempre di includere nelle mie inquadrature; altri sono i motorini, in numero soverchio rispetto a quanti se ne vedono nell’oltregiogo, per via degli spazi più risicati e del clima invernale più mite; quindi le apecar, scomparse dalle Alpi dopo che è passata la generazione che ne aveva bisogno per girare senza patente, qui invece ancora diffuse grazie alla capacità di infilarsi in caruggi e piste pedonali; infine i parcheggi sui tetti delle chiese. Sono per contro assenti le biciclette, a causa delle ripide salite da affrontare non appena si lascia l'Aurelia e delle vie anguste e tortuose, dove al sorpasso l'autista deve scegliere tra un possibile frontale e lo stritolamento del ciclista. Curioso che quando penso al paesaggio ligure mi vengono per primi in mente elementi mobili del traffico, pur se onnipresenti, piuttosto che le fasce o le casette vivacemente dipinte.
Profumi e luci liguri
A Bogliasco mi accoglie per prima cosa l’odore del pesce fritto e poi, nella panetteria, quello caratteristico dei forni che producono focaccia, di cui faccio scorta per pranzo e consumo immediatamente come seconda colazione mezza fetta prima del caffè (preferisco questa opzione all’inzuppamento nel cappuccino, come si dovrebbe per passare inosservati nonostante l’ingombrante zaino e l’accento foresto). La focaccia già sperimentata è unta e saporita, il caffè è amarognolo e lascia un retrogusto molto delicato, appena percettibile ma persistente. La panetteria funziona anche da bar, ma la toilette è dissimulata come porta senza targhetta, per non permettere ai foresti di identificarla; ciononostante la individuo senza indugio e la punto con fare sicuro da cliente chiamato per nome.
Scendo alla marina, dove un ponte in pietra a schiena d’asino sul torrente è molto elevato, forse per proteggerlo da piene impetuose. L’esposimetro segnala un’intensità luminosa eccezionalmente elevata, molto più che in un mezzogiorno di giugno a 3000 m, per la rifrazione marina e forse anche per la vernice della case che la riflette moltissimo, consigliandomi gli occhiali da sole che indosserò fino al tramonto. A memoria da un anno fa, tra scalinate e caruggi vado a cercare il sovrappasso pedonale sull’Aurelia, da cui parte il sentiero segnalato diretto a San Bernardo.
Tra piccoli condomini moderni e poi ville dalle fioriture tropicali, la crosa si inerpica ripida. Ad un certo punto è ridotta a un angusto passaggio dai lavori alla fognatura, dagli sgradevoli risvolti olfattivi, eseguiti da alcuni operai dell’Europa orientale, che gentilmente accostano la pala meccanica per farmi strada. Spero che poi la ripristinino con il fondo storico in mattoni rossi di argilla, e non con i gradini di cemento di altri tratti: sono più funzionali e senz’altro molto meno scivolosi, ma a detrimento dell’atmosfera etnica per il loro aspetto povero e anonimo. In effetti, per via delle piogge dei giorni scorsi e del fatto che spesso sono incassate tra alti muri, che non permettono al sole di asciugarle, non poche crose saranno assai viscide.
Oltre il termine delle abitazioni fitte, il fondo è formato da pietre calcaree, credo originariamente infisse a coltello e in parte rifatte, mantenendo i materiali originari. I muri laterali sembrano essere stati in origine le creste, con in cima le pietre infisse a coltello per impedire agli ovini transumanti l’accesso ai coltivi, ma sono deteriorati. La via transita nel terreno di una villa, cintato da ambo i lati e con un doppio cancello lungo una stradina, per consentire l’accesso all’altra parte di proprietà. Dietro la rete mi viene a salutare una cagnolina nera di nome Tess, che probabilmente mi seguirebbe con gioia. Dopo una villa con grande giardino e pini ad esso proporzionati, cominciano le case di San Bernardo, dove l’autista del bus di linea, un furgoncino da 9 posti, è in attesa della partenza su una panchina. Anche io mi siedo a bere su un muretto, per il caldo patito in salita, che mi consiglia di restare in maglietta. Sono accanto al campo da pallacanestro e di fronte al circolo operaio con vista sul promontorio dei ricchi. Obtorto collo per la foschia marroncina intravedo a malapena le Alpi Liguri innevate.
Le fasce dei liguri di Levante
Punto a raggiungere Pieve Ligure senza salire fino alla chiesa di Santa Croce. Ricordo un’indicazione più a monte, al di sopra dei coltivi, ma ora faccio caso alla targhette del Sentiero Liguria, che mi indirizzano in una via in quota tra le case. Transito in uno strettissimo caruggio tra case colorate vivacemente, che diventa stradina pedonale lastricata tra casette con giardino e successivamente, restando sempre in quota, punta a un impluvio, tra fasce coltivate a ulivi. Non sono invase da vegetazione naturale, ma paiono comunque abbandonate per l’assenza di reti e ogni altro indicatore di presenza umana.
Tutte le zone di coltivi dismesse che vedrò oggi saranno oliveti, mentre in passato le fonti riferiscono una maggiore varietà, in particolare di produzioni permesse dal clima mite, quando era un bene raro e ricercato (in quei secoli già solo in val Polcevera si moriva sotto le valanghe e a Genova «il vino s’agghiacciava ne’ bicchieri»): ad esempio alberi da frutto e coltivazioni orticole quali «le persiche & l’archiciocche» di Nervi citati dal Giustiniani nel XVI secolo, ma poi anche una smisurata varietà di prodotti orticoli, agrumi, fichi (seccati erano fondamentali per l’alimentazione invernale), viti, ciliegi, mandorli, tutte come colture miste con alberi diradati, perché si producevano anche cereali e legumi. Le parti superiori di questo monte erano invece tenute a bosco a beneficio delle costruzioni navali, quindi immagino a roveri, e i terreni dell’immediato entroterra a pascolo invernale degli ovini.
Ciò le distingue nettamente dalle monoculture del basso Ponente. Gli agronomi in genere preferivano la coltura mista, per la maggior resilienza, come si direbbe oggi, e la più equa distribuzione dei lavori nel corso dell’anno. La ragione della sua prevalenza era attribuita tuttavia semplicemente alle consuetudini contrattuali, che attribuivano i prodotti degli ulivi al proprietario terriero e i seminativi al conduttore. Di questa varietà di alberi non sono rimasti che esemplari decorativi nei giardini: doveva apparire un paesaggio incredibilmente vario anche solo nei colori, come registrano alcuni viaggiatori come il prezzemolo de Saussure.
In origine doveva essere così anche a Ponente: per esempio gli statuti anteriori al XV secolo del distretto di Porto Maurizio, oggi monocultura olivicola, elencano «uva, persica, poma, pisca, celexias, mesicas, amigdolas, nuces, melagranos, citronos, olivas, cicera, lentes, fabes, caules, poros, gesse vel alia spinatia, cucurbitas, malonas, cucumera, bledas, braxia sive aliqua ortalia, blava sive spicus tozellae, herbam, foliacanam et quacumlibet aliorum fructua» (di alcuni termini non è noto il significato).
Strabone afferma che la Liguria romana importava olio dalla penisola italiana. Una tradizione popolare attribuisce la diffusione della cultura olivicola ai monaci benedettini che si insediarono in Liguria dopo la cacciata dei saraceni, ma è priva di supporti documentali: per esempio, nel territorio di Toirano soggetto all’abbazia di San Pietro in Varatella, le piante di ulivo ancora nel XIII secolo erano sporadiche. Inoltre in Liguria esistevano già prima, seppure sempre in quantità ridotta: ad esempio sappiamo che i monaci di Bobbio ricavavano anche olio dai possedimenti dell’Alpe Adra (zona di Lavagna), ma in quantità minuscole rispetto a quanto ottenessero dai laghi prealpini. Alcuni ritrovamenti archeologici mostrano che la villa romana di età imperiale si era insediata in Liguria e quindi forse vi aveva importato le sue colture mediterranee, comprese quelle arboricole. Un’altra tradizione, stavolta di origine dotta, data la diffusione ai contatti avuti dai genovesi durante le Crociate. I dati raccontano piuttosto una storia in cui i mutamenti d’uso del territorio non sono frutti di iniziative coordinate di agenti specifici, ma di processi secolari di masse anonime, che inoltre si materializzarono molti secoli più tardi di quanto vuole la tradizione, ovvero dalla prima Età Moderna.
Le colture inoltre mutavano di frequente, in conseguenza delle oscillazioni dei prezzi dei diversi prodotti, in quanto, a differenza di quanto capitava con la mezzadria della Pianura padana, la produzione era mirata al mercato e non unicamente alla sussistenza: «I Liguri nascono con una testa calcolatrice. […] Per un seguito di questa oscillazione perpetua, abbiamo veduto nel giro di parecchi anni passare e riprendere e passare nuovamente il regno degli agrumi, dei gelsi, delle viti, e dell’ulivo, a proporzione che il prezzo di tali frutti, delle sete, del vino e dell’olio hanno più o meno eccitato l’avidità sconsigliata de’ contadini e de’ possidenti» (G.M. Piccone, Saggi sull’economia olearia preceduti da un discorso preliminare sulla restaurazione dell’agricoltura, Genova 1808): per esempio Taggia, oggi monocoltura di ulivi a cui dà anche il nome della varietà, sul finire del Medioevo era principalmente vocata alla vite e lo stesso può essere detto del circondario di Imperia, perché allora il consumo pro capite di vino era più elevato che nei secoli successivi.
Gli estremi climatici della Piccola Era Glaciale (inondazioni, gelate e nevicate copiose alternate a siccità e calure invernali) non di rado spazzarono via raccolti e anche piantagioni (gli ulivi sono particolarmente sensibili alle gelate e gli agrumi all’aridità), ma le rese spinsero i coltivatori a persistere, anche organizzandosi in maniera collettiva con i mirabili acquedotti sanremesi, e a porre a coltura territori sempre più estesi.
Oggi la meccanizzazione ha messo fuori mercato i terrazzamenti (qui si lavorava persino senza aratro trainato dai buoi, poiché si faceva tutto con la zappa), almeno per le produzioni destinate al popolo. Infatti richiedono molta manodopera, oggi non più economica e abbondante come allora, oltre che per le operazioni agricole in sé, anche per la manutenzione, sia per la continua riparazione delle prozione franate a ogni pioggia, sia per il trasporto manuale di terra contro la gravità: per dire, nella medesima linea di prodotti, l'olio taggiasco costa il doppio di quello delle pianure pugliesi.
Restano le nicchie ad alto valore aggiunto, ma per loro bastano porzioni ridotte di territorio. È un vero peccato, anche solo in prospettiva turistica, in quanto il paesaggio agricolo (quindi artificiale) verticale, nato a cavallo tra tardo Medioevo e prima Età Moderna, stupiva e affascinava i viaggiatori del Grand Tour provenienti dalla piatta Europa Centrale. Oggi un poco alla volta sta venendo sostituito da un paesaggio mezzo urbanizzato e mezzo naturalizzato meno euclideo, più frattale e caotico, come avrò modo di osservare nel corso della camminata.
Dopo aver oltrepassato un impluvio, in un fresco versante ombroso esposto a ovest supero due signore con cani, che si sono incrociate e si stanno salutando. Quasi tutta la gente e pressoché tutti gli italiani che troverò a zonzo fuori dai paesi saranno padroni di cani, senza i quali nessuno pare avere voglia di fare due passi e girovagare per le campagne. Quello che prosegue nella mia direzione viene a verificare se ho cibo, innescando uno scambio di battute spiritose tra me e la padrona, in cui ci burliamo del viziato, prima che lei si fermi quasi subito in una casa con giardino e gran vista sulla costa.
29 banks
Raggiungo le case continue, molte parecchio ricercate con trompe l’oeil di gusto barocco, molto comune tra le case liguri, e una più sfarzosa delle altre per un loggiato sfoggiato in posizione dominante ed esibizionista sulla strada, tra palme altissime. Qui mi paiono leggermente meno fuori luogo che nelle ville alpine, in quanto già in periodi più freddi erano coltivate a Bordighera per ricavare le foglie bianche novelle, destinate agli altari romani nel periodo pasquale (i datteri non fruttificavano). Sempre e comunque alla loro apparizione nella mia testa parte in automatico un ingarbugliamento delle due strofe del ritornello di una canzone che andava per radio quando ero adolescente:
Ah ah ah
It comes kinda hard
When I hear your voice on the radio
(When I hear your voice on the radio)
Taking me back down the road that leads back to you
Oh, oh, oh
29 Palms
I feel the heat of your desert heart
(Feel the heat of your desert heart)
Taking me back down the road that leads back to you
L'accompagnamento muisicale che a breve ascolterò con le mie orecchie è invece in sintonia con alcuni muratori latinoamricani intenti al lavoro attorno a una grondaia.
Su asfalto tra case con giardini, senza oppressione di abitato ma neppure terra libera, raggiungo Pieve, con la sua chiesa sontuosamente dipinta con gusto barocco, di fronte alla quale esisteva un olmo sotto cui si tenevano i consigli degli abitanti, una funzione sacra che abbiamo mantenuto dalle nostre origini nei villaggi della savana africana, nonostante gli avvicendamenti degli dèi. Per il controluce riuscirò a fotografarla solo dal lato opposto, da cui è più simile a molte altre che vedrò oggi. Inoltre non posso accedere all'interno perché è chiusa. Alcuni cartelloni pubblicizzano la prossima sagra della mimosa, un albero originario della Tasmania naturalizzato in Liguria, il cui fiore in Italia è stato sacralizzato dalla religione consumistica come simbolo della Giornata della Donna, da noi ribattezzata impropriamente festa e fagocitata nei riti consumisti, al pari delle festività religiose, a mutuo beneficio dello svago dei cittadini e dei profitti dei produttori di pneumatici. Perse di vista le indicazioni, dalla cartina so che un sentiero FIE per Sori (mia prossima tappa) transita più a ovest, senza toccare il centro. Seguo dapprima la strada, poi con OSM del cellulare individuo una traversa che, passando a valle del campo sportivo, mi conduce ad esso, nei pressi di un’edicola dedicata al fondatore di una banca che negli anni ’90 fu salvata dalla bancarotta con soldi pubblici, citato a modello di fede nella Divina Provvidenza, perché riuscì a vivere senza redditi stabili, ma solo grazie a donazioni dei ricchi.
Con una discesa dimenticata raggiungo l’Aurelia che transita a monte di Sori, su un viadotto che opprime il paese, atterrando il campanile nonostante il suo motto trionfale, e mi ha sempre suscitato repulsione. Ricordando erroneamente che non c’è modo di risalire per vie pedonali al capo opposto, in quanto anni fa non ci feci caso, non scendo alla spiaggia, ma ne seguo il marciapiede, fino a intercettare il sentiero diretto a case Cornua. Al primo bivio sbaglio strada, interpretando distrattamente un segnavia con la coda dell’occhio, salvo accorgermi dell’errore quando non ne vedo al bivio successivo, e guadagnando così in premio la vista di una chiesetta con giardino affacciata sul mare. Il sentiero corretto si inerpica immediatamente ripidissimo per una scalinata sigillata tra due muri a secco, con tessitura irregolare che alterna blocchi di dimensione maggiore a lastre sottili senza uno schema evidente, per livellare empiricamente a dispetto della non perfetta scistosità del calcare, che non fornisce materiale ottimale per il lavoro. Non visibile è la parte interna di scaglie per drenare l’acqua piovana. I muri delle coltivazioni arboree costiere mirate alla vendita sul mercato dovevano essere molto resistenti e durevoli per evitare cadute delle piante, a differenza di quelli delle coltivazioni erbacee di sussistenza in montagna, che erano più raffazzonati e fragili. Oltre i muri dapprima vegetano olivi e querce, quindi macchia mediterranea.
Come con una sola boccata d’ossigeno raggiungo il culmine della scalinata, dove delle case sono raggiunte dall’alto da una cementata sempre ripida che risalgo, con un po’ di vista sulla valle del rio Sori e le sue borgate. Degli escrementi equini piallati dalle auto anticipano un recinto, dove un cavallo scuro e tozzo è parcheggiato assieme a scheletri di auto carbonizzate e rottami assortiti; un cartello avvisa che lo si paciocca a proprio rischio e pericolo. In salita lungo la stradina, con vista sull’obelisco di sant’Uberto a monte, con qualche cipresso a marcare la via, raggiungo la chiesa dedicata a sant’Apollinare, la cui canonica ha una vista da urlo. Mi fermo sul muretto a mangiare la mezza focaccia avanzata in panetteria e un’arancia. Scendono due escursionisti stranieri, che non mi salutano né si affacciano sul mare, ma gironzolano solo sul prato prima di proseguire.
Focaccia al formaggio o di Megli?
Dal parcheggio di fronte alla chiesa, pieno di auto e motorini, seguo le indicazioni per la chiesa dell’Ascensione, avendo già percorso il sentiero sottostante per Recco l’anno scorso. Supero due trentenni in abiti cittadini, una delle quali non vede l’ora di scendere a Recco ad abbuffarsi di focaccia al formaggio, mentre l’altra la implora di fare almeno due passi prima. Vanno ad affacciarsi su un ristorante. Il fondo di cemento termina presso l’ultima casa abitata, in questo momento solo da cani incattiviti, per diventare naturale, sempre in quota tra olivi che paiono abbandonati, ma non da molto, pure qui, perché i prati sono privi di cespugli. Caratteristico di questa zona è l’abitato diffuso, senza nuclei ma case sparpagliate tra i coltivi. Si formò nel tardo Medioevo, quando i precedenti centri aggregati di montagna e collina si dissolsero in concomitanza con il rafforzamento dei centri costieri; la precedente forma aggregativa arroccata era rimasta immutata dal tempo dei castellari dei Liguri antichi, per tutta l’epoca romana e buona parte del Medioevo, pur nel mutare delle forme architettoniche e dei materiali adoperati. Dopo uno scorcio sulla torre medievale lungo la via per Poianesi, a una casa colonica abbandonata il percorso prende a risalire la china per la massima pendenza, fortunatamente non a lungo, prima di seguire nuovamente la curva di livello. Sul versante esposto a est gli ulivi sono sostituiti da macchia mediterranea non molto matura, perché con corbezzoli, erica fiorita, roverelle e ornielli, ma senza lecci, segno che forse si è rigenerata dopo un precedente impiego del territorio a prato. Seguendo sempre le indicazioni per Ascensione e il segnavia dei tre pallini disposti a triangolo equilatero, raggiungo le case sparse di Ageno, dove mi accolgono dei cani fragorosi e un signore a spasso in infradito. Sono abbastanza in quota e pertanto il panorama sul mare è grandioso. Potrei proseguire su asfalto, ma il segnavia più avanti mi indirizza nuovamente su un sentiero in quota, dove ancora una volta ulivi nei pendii più esposti al sole si alternano a macchia in quelli più ombrosi.
Tralascio di salire a Sullagà e di scendere a Megli alla prima indicazione (sono frattanto comparsi i pali in metallo verde del parco di Portofino, con indicazioni a ogni bivio, ma tempi spesso fantasiosi o incoerenti), salvo poi rendermi finalmente conto che Ascensione e Megli sono due chiese distinte, per cui devo decidermi a puntare alla seconda o farò un giro lunghissimo. Torno perciò indietro a un sentiero che scende da sant’Uberto e scendo in maniera decisa, lungo una dorsale e su una vecchissima lastricatura abbastanza deteriorata.
Vedo finalmente il campanile di Megli tra i tralicci che vi sono a monte, ma per grazia di dio e volontà della nazione evito di immortalarlo da questa prospettiva. Nei pressi della chiesa una signora che sta severamente redarguendo il suo cane. Visto che sono le 13 (dal sentiero ho sentito i campanili sottostanti suonare ogni mezz’ora e talvolta ogni quarto d’ora), mi accomodo a finire le altre due fette di focaccia su una delle panchine tra gli olivi secolari di fronte al sagrato. Ho anche consumato buona parte dell'acqua, ma per fortuna c'è una fontanella dove rabboccare. Dentro un ulivo cavo, come spesso lo sono dopo una certa età, qualche burlone ha genialmente lasciato una bottiglia vuota di Franciacorta. A pancia piena, dopo un po’ di tentativi trovo l’angolo giusto per mostrare sia l’accecante facciata mezza barocca mezza neoclassica che un albero. Recco è subito qui sotto e ho il tempo di fotografare un arlecchinesco merci fermo sul viadotto dove c’è la stazione.
Recco fu colpita da bombardamenti mirati al viadotto, con il risultato che oggi è in buona parte moderna, edificata secondo i discutibili dettami dell'edilizia economica della ricostruzione. Anche sul pendio lungo cui calo non sempre i geometri hanno dato il meglio di sé. Prendo un buon caffè, ma meno distintivo di quello mattutino, lasciando invece perdere la focaccia al formaggio. Dopo aver trovato chiuso per lavori il lato del piazzale affacciato sul mare al fondo della discesa, vado sulla parte accessibile, intitolata a Tenco, ad ammirare un iconema tralasciato nell'elenco precedente, il ligure intabarrato nelle miti giornate di sole (io sono sempre in maglietta).
Lorsignori, villici e selvaggi
Cerco quindi la chiesa di san Francesco, da cui secondo la carta parte un sentiero segnalato che mi porterà a Ruta di Camogli. Segue una via pedonale, coperta di muschio per gli alti muri che la lasciano in ombra, tra ville anche assai sontuose, ma scarsa cura per i manufatti e il paesaggio pubblico, osservabile ad esempio nella via trasandata, nel disordine di pali e fili (che stavolta fotografo) e nel degrado in cui è lasciata una cresta. Già ad Ageno avevo avuto un assaggio di questa combinazione, ma qui è tutto più shpalmato in faccia senza ritegno. Qui non è certo imputabile alla scarsezza di risorse collettive del modello italiano della famiglia ricca e azienda/stato poveri, ma sembra piuttosto che costoro non guardino fuori delle loro cinte murarie, né che girino mai a piedi nei dintorni di casa, ma si fiondino in auto direttamente nei luoghi di lavoro o di socialità, senza vivere passo a passo quello che c'è per strada, come chi va a piedi.
Se non curano neppure gli spazi urbani di cui sono protagonisti, men che meno badano a quelli rurali, perduto ogni legame con la memoria storica dei contadini che modellarono quel paesaggio: lungo la via di accesso all'ultima villa una crésta è abbandonata al decadimento naturale, e la recinzione di tale villa costringe l'escursionista a strisciarvi contro lungo il sentiero stretto tra essa e i cespugli. Oltre il termine della strada per le auto è infatti il regno dell'oblio: manufatti vari testimoniano la passata coltivazione del pendio, ma ora tutto è ricoperto da macchia caotica. Per fortuna le segnalazioni sono frequenti, perché il sentiero è ridotto a traccia di cinghiali e con tutta probabilità non ricalca il percorso originario, ma zigzaga tra dove si può in cerca di pertugi.
Nel contesto italiano di una terra diffusamente antropizzata già dall'antichità classica e per di più in maniera pressoché ininterrotta e pervasiva dal Basso Medioevo, la naturalizzazione dei spazi rurali ha una connotazione complessivamente negativa da un punto di vista umano, perché comporta una perdita di testimonianze storiche e di culture materiali e spirituali, specie a due passi dall'urbanizzazione. Con l’abbandono delle pratiche agricole estensive, molte aree marginali, anche a due passi da una città come questa, sono state private di gestione umana e consegnate a processi spontanei, creando anche tra le popolazioni urbanizzate una diffusa mitologia sul loro statuto, poiché non pochi di costoro hanno perso ogni memoria storica delle pratiche passate e finendo con il ritenere criminali alcune di esse, quali procurarsi legna, erba o cibi animali, generando violenti conflitti ideologici con chi ancora le pratica, per le ragioni più disparate, da quelle di sostentamento a quelle rituali o aggregative.
Senz’altro apprezzano questa naturalità di ritorno le bestiole, specie quelle di stazza maggiore che con l'espansione demografica dei secoli passati avevano visto scomparire i loro habitat e si erano in gran parte estinte, mentre ora la scomparsa dell’agricoltura estensiva ha offerto loro nuove nicchie, seppur disperse e frammentate nel mare dell’Antropocene e a continuo rischio di collisione con esso: ad esempio oggi ho visto i cartelli che avvisano della peste suina africana, un’epidemia dei cinghiali che ha sollecitato azioni di sterminio della fauna veicolo, dal momento che produrrebbe irreparabili danni economici se si diffondesse nei remunerativi allevamenti per la produzione di salumi, perché i lucrosi mercati esteri potrebbero essere chiusi per ragioni sanitarie. Nella nostra ottica antropocentrica, gli altri animali hanno diritto di esistere solo finché ci sono funzionali in senso materiale o affettivo o almeno non molestano la nostra organizzazione, altrimenti vanno sterminati, perché la nostra roba prevale sulla loro vita (applichiamo questa filosofia pure agli umani considerati diversi). Azioni di coesistenza che richiedono del nostro sforzo o limitazioni alle nostre attività sono impopolari.
Molte chiacchiere ma una breve descrizione per un lungo tragitto, dove sarebbero richieste competenze da ecologo storico e archeologo rurale per decifrare i rimasugli osservabili. Un aiutino arriva dal toponimo di una casa sbrecciata di nuda pietra, ovvero Castagnola, del cui passato impiego del versante non vedo tuttavia tracce residue, in quanto la vegetazione è la macchia. La coltura del castagno, così fondamentale in una regione montuosa come la Liguria interna, dove coltivare cereali era complicato, si estinse prima di altre di sussistenza, in parte perché fu sostituita dalla patata introdotta nel XVIII secolo, in parte perché al principio del successivo si diffuse una malattia che colpiva i castagni da frutto.
Quando raggiungo una dorsale, mi imbatto in una postazione di caccia dimenticata, dove ferro e plastica si vanno decomponendo sotto l'effetto degli elementi. Frattanto la foschia sul mare è aumentata per la rotazione dei venti da sud e all'orizzonte occidentale sono apparse le velature annunciate dai bollettini regionali; invece sulle alture del promontorio stazionano dei cumuli. Poco oltre scorgo le case di Ruta e capisco che non è lontana: infatti poco dopo confluisco sul sentiero proveniente da Uscio, una possibile ultima tappa delle Vie del Sale, e la civiltà urbana fa la sua comparsa con un cartello di lavori edili e un ripetitore. Supero una prima signora, che al mio arrivo mi saluta, e ne raggiungo una seconda in uscita dal cancello di casa, da cui poi si allontana con passo frettoloso, chiedendo strada. Raggiungo l'asfalto e lo seguo, transitando da una chiesa romanica con la pietra in vista, nel Basso Medioevo un punto di ristoro dei viandanti. Documentata da metà XII secolo, è stata battezzata la Millenaria perché ha fondazioni altomedievali: con questo criterio, sarebbero millenarie gran parte delle chiese italiane, o persino bimillenarie contando dai templi italici dell'Età del Ferro e romani sulle cui rovine non di rado furono edificate, a parte quella a forma di capannone del mio quartiere edificato durante il boom economico sul sito di una zona industriale o il garage multipiano di Longarone successivo al Vajont. Approfitto di uno specchio stradale per un selfie alla Vivian Maier con il campanile, grazie al fatto che su questa stradina il traffico non è continuo. Proseguo attraverso la frazione e incrocio un gruppo di bambini reduci da una festa di carnevale (oggi è giovedì grasso), fino a raggiungere una semplice chiesa barocca, davanti a cui mi siedo su una panchina e bevo, mentre sono quasi le 16 e ho ancora strada da fare. Ho stimato i tempi dalla cartina molto spannometricamente, come dicevano i professori del Politecnico, confidando con malriposta confidenza nel mio occhio, né finora ho quasi mai trovato tempistiche sui cartelli.
Il promontorio della nebbia
Alle spalle della chiesa trovo il segnavia per Pietre Strette, che seguo nel verso errato, accorgendomi dell'errore solo quando vedo le indicazioni all'imbocco sull’Aurelia. Continuo su una stradina lastricata di pietre calcaree sull’ombroso versante settentrionale del monte di Portofino, non lontano dalla dorsale che mi separa dal versante del Paradiso. Attraverso un bosco mesofilo (il correttore propone pedofilo in vece di questo aggettivo misterioso) con carpini, querce e castagni, un habitat tipico dell'Europa Centrale, qui contiguo agli ambienti di gariga riarsa del versante marino: una delle ragioni per cui il promontorio è un'area protetta. Il bosco si è formato dopo l’abbandono della coltivazione delle fasce, oggi consumate dall’erosione. In un punto più solatio ci sono alcuni lecci monumentali, dal tronco interamente coperto di muschio, sopravvissuti alla ceduazione una volta abituale, per cui gli alberi precedenti erano per contro tutti di piccola taglia. Peccato non poterli fotografare per la luce ancora troppo secca e la caoticità dello sfondo (a casa andrò a riguardare con nostalgia gli scatti ai lecci secolari di Montallegro e Soviore). La medesima luce fa stagliare sopra il bosco ombroso un ripetitore televisivo, già scorto da Megli.
Arrivo allo sfarzoso albergo liberty, ben tenuto nella facciata ma circondato da rovi. Alle sue spalle si stanno dissolvendo le brume che avvolgono la cima e che d'estate, quando la brezza marina si addensa risalendo il versante meridionale, svolgono un ruolo ecologico fondamentale fornendo rugiada che alimenta rii nonostante la siccità estiva mediterranea. Nel deserto di Atacama l'hanno capito e la fanno addensare artificialmente con reti di nylon per procacciarsi acqua agricola e civile.
Apprezzo a momenti una discreta vista sul Tigullio tra gli alberi spogli, con il puntino bianco di Montallegro ben individuabile ma Ramaceto nascosto da un cumulo, dopo che già da Ruta avevo goduto di assaggi. Prima del bivio di sella Gaixella supero una signora a spasso con bambino e un lupo cecoslovacco, tenuto decisamente più pasciuto di quanto facciano di solito i padroni di questa razza, e quindi un gruppo di anziani che parla inglese. Al colle un cartello spiega che questo bosco si è formato solo in seguito all'abbandono delle pratiche agricole di autoconsumo, in quanto prima la zona era mantenuta a prato, come mostra una foto del primo Novecento.
Una palina del parco indica in 55’ il tempo di cammino per Toca: sono le 16.30 e decido pertanto di allungare un po' il passo per poter fare merenda a Semaforo Nuovo prima che il sole scompaia, anche perché voglio pure fare la deviazione al punto panoramico sul golfo. Incrociata una coppia di anziani con un levriero coperto da una mantellina, proseguo in salita sul versante in ombra, su fondo di fanghiglia con qualche passaggio sul nudo conglomerato, di cui è costituita la parte alta della montagna. Attraverso il bosco spoglio osservo anteprime del paesaggio che mi aspetta al punto panoramico. Gli alberi sono fitti e sottili, il terreno umidiccio e fiorito di primule. Sbuco al sole filtrato dalle velature, supero un colorato edificio diruto e lascio il sentiero in favore della traccia che scende alla piazzola, da cui, grazie all’abisso sotto i miei piedi che lascia spazio allo sguardo, ammiro con un unico sguardo la globalità del golfo Paradiso, da San Rocco di Camogli ai miei piedi a Bogliasco: ovverosia tutti gli ambienti calpestati, prima che la costa più occidentale svanisca nella caligo, la foschia portata dai venti marini. Alle spalle della costa la successione di pieghe dei dossi appenninici. Quando scoprii questo punto di vista mi ripromisi di venire a fotografare al tramonto: adesso manca ancora un'ora al tuffo del sole dietro le Alpi Marittime, ma la luce è già dorata, anche grazie alle velature e alla foschia. Non estraggo il binocolo, che farà quindi la gita come peso morto, un po' perché già vedo molti dettagli a occhio nudo, un po' perché non mi sovviene, poiché è soprattutto il complesso a essere commovente, piuttosto che l'individuazione della croce dell'Antola o della colonia Arnaldi tra le ville di Uscio.
Tra i vari segni del paesaggio che mi avevano colpito, vi erano i due grandi viadotti di Sori e Recco: da qui si vede bene come i due paesi sono costruiti allo sbocco di valli più profonde delle vallecole tra la linea di costa e i primi rilievi contornate oggi. Infatti le valli dell’Appennino Orientale hanno un andamento quasi parallelo alla linea di costa, verso cui si distaccano rii minori. In un certo senso, i due viadotti, per quanto oggetti della modernità che spiana le vie, sono un modo con cui essa marca e assorbe un dato naturale.
Quando sono soddisfatto della contemplazione faccio dietrofront, passo in cavalleria le sequoie per la mente ancora immersa nella visione e in breve arrivo a Semaforo Nuovo, dove un altro escursionista solitario si è accaparrato la panchina affacciata sul mare, lasciandomi quella retrostante. Mentre consumo la merenda di tè e bugie ripiene di purea di mele, lui manda un messaggio sulle frequenze dei radioamatori, senza ricevere risposta. Non rivolge invece la parola a me, mostrandosi persino sorpreso del mio saluto, né io cerco di attaccare bottone. In tutto il giorno non ho scambiato parole, a parte quelle per ottenere le consumazioni e per salutare, che con la padrona del cane a San Bernardo, e non sento alcun bisogno di compensare.
Ammiro il poco che si vede da qui del promontorio, la torretta di Cala dell'Oro e i torrioni di conglomerato sottostanti, mentre la Corsica non apparirà neppure al crepuscolo per l’eccessiva foschia. Il panorama sul mare è molto aperto e arioso, per cui recentemente qualche imprenditore ha pensato di trasformare gli edifici dismessi del radiofaro in un hotel di lusso, ma il parco ha opposto resistenza. Come nelle ville dei paesi, è sempre il modello dell’urbanizzazione puntuale dei punti notevoli e dell'abbandono del territorio circostante, a maggior ragione perché gli ospiti sarebbero stati calati in elicottero.
Torta di riso finita
La luce del sole arancio è ormai fioca e posso riporre gli occhiali scuri quando scompare del tutto dietro una velatura opaca. Ho anche indossato un secondo strato, che non toglierò più. Scendo con lo scopo di fotografare l'ultima luce sulle rocce. Il sentiero punta a nord attraverso un bosco con molto legno morto e caos pennellato di tenue arancio che mi attrae, anche se non riesco a trovare un'inquadratura soddisfacente. Al principio della ricrescita del bosco, su questo promontorio scosceso capita spesso che le piante, fitte, uniformi, sottili e con scarso apparato radicale, siano abbattute dal vento, selezionando gli esemplari più resistenti e creando le condizioni per la generazione di un bosco più evoluto con più ampia curva distributiva delle età degli alberi, in cui saranno presenti piante più mature assieme alle giovani che spunteranno. Sbuco quindi in ambiente di gariga più aperto, dove resterò fino alle Batterie. L'erba è secca e alta: in passato i contadini la falciavano riducendo così il carico combustibile; oggi, venuti a mancare, il parco ha liberato a mo' di napalm delle capre, che ogni tanto capita di scorgere su questi versanti. Il sole sbuca per qualche minuto in una finestra tra due stratificazioni, consentendomi qualche scatto ai caratteristici torrioni, visibili anche dal sentiero delle corde, con una luce arancio delicatissima. Il conglomerato si frantuma comunemente in blocchi, nelle cui fenditure scorre l'acqua, che poi emerge all'aperto dove incontra roccia compatta. Evito invece la foto romanticona alla scia del sole sul mare, che secondo me produce scatti dimenticabili (credo di essere riuscito nell'impresa un'unica volta a Monesteroli, ma lì il primo piano era un manufatto stratosferico), sebbene il controluce radente sia molto apprezzato nella fotografia pubblicitaria e matrimoniale.
Dei cartelli avvisano che dal maggio 2024 i sentieri dei tubi e delle corde sono interdetti in seguito a un incidente occorso nel marzo 2023, in cui un escursionista scivolò in un tratto attrezzato (il conglomerato è molto scivoloso, specie se umido) e all’inchiesta giudiziaria che ne conseguì. Dalle scarne notizie reperibili in rete, la procura sta indagando per verificare se ci fossero carenze nella sicurezza del sentiero, sebbene dai trafiletti pare di capire che la morte fu dovuta essenzialmente alla sfiga (o allo scoccare della sua ora se credete al Fato), che nei terreni scoscesi trasforma una banale perdita di equilibrio o aderenza in un dramma fatale. Tuttavia la nostra società è securitaria e tecnocratica: presume sempre che l’uomo possa controllare ogni dettaglio, per cui ci deve per forza essere un colpevole in caso di eventi avversi, mentre non ammette che possano invece capitare perché la natura non è un parco avventura con dissipatori EN 958, con i cui pericoli oggettivi dobbiamo imparare a convivere senza distopie di controllo totale. Pertanto questi eventi comportano una pressione giudiziaria sugli enti preposti alla manutenzione dei sentieri, che per timore di conseguenze anche penali finiscono con l’imporre regolamenti restrittivi.
Alle Batterie non rabbocco la borraccia di acqua sorgiva da portare al gatto, perché ricordo una fonte prima degli abitati. Proseguo lungamente in quota nel bosco in traverso lungo un ripido pendio, con numerosi passaggi sul nudo conglomerato, mentre la luce crepuscolare si fa sempre più fioca. Incrocio due trentenni in direzione opposta, che quindi torneranno alla luce della torcia. Purtroppo la sorgente non è più accessibile, perché ora il tubo versa in una vasca sigillata. Si trova in un punto in cui l'acqua che scopre tra le fessure del conglomerato trova la via sbarrata da banchi di calcare compatto e fuoriesce dal terreno. La fonte non deve essere antichissima, perché è priva di marcature religiose, magari era solo un abbeveratoio per il bestiame. Scatto qualche foto alle casette più panoramiche di Mortola e San Rocco, con lo sfondo dei puntini luminosi sui pendii blu. Un uomo e una donna invece lo adoperano come scenografia di un autoscatto in posizioni grottesche, dal cellulare appoggiato su un muretto. Questa combinazione esplosiva di luci naturali e artificiali è al solito molto instagrammabile, anche se sfortunatamente stasera le velature sono troppo spesse per colorarsi di rosso, per cui bisogna accontentarsi di quello più ristretto generato dalla foschia all'orizzonte. Mi evocano un fotografo sovietico che fece una serie di foto del genere ai suoi amici in una stazione balneare della Crimea: allora era per manifestare dissenso al sistema, stasera per alimentare Big Tech in cambio della gratificazione di apprezzamenti altrui.
Arrivo alla panetteria di San Rocco pochi minuti prima della chiusura, in tempo per accaparrarmi le fette residue di focaccia di Recco e torta di riso. Vado poi al bar per rimediare altri avanzi come una sorta di cena, ma un cartello sulla porta avvisa che la cucina ha chiuso tre ore fa, i tavolini sono accatastati e il titolare conferma di non avere nulla. Mi limito a sfruttare il bagno pubblico, anche per lavarmi le mani.
Scendo quindi a Camogli lungo una crosa cementata e interamente illuminata, rendendo inutile la frontale estratta per prudenza. Supero due genitori intenti a convincere con le buone il figlio capriccioso a scendere a casa, il lodge dove probabilmente sono diretti, rade casette e molti appezzamenti dismessi. Non vedo la colonia felina che ricordo, forse al lodge, né vedrò i cigni sul rio alla periferia di Camogli. Mentre attraverso il parcheggio a pagamento, mi arriva una telefonata dalla fidanzata, timorosa che mi sia successo un incidente, perché non accedo a WhatsApp da ora di pranzo. Per la verità a Semaforo Nuovo avevo visto la convocazione dell'assemblea condominiale che mi aveva mandato, ma evidentemente lì non c'era rete.
Vado sul piazzale affacciato sul mare, dove ormai le focaccerie hanno chiuso, a scattare la solita foto a spiaggia e chiesa dalla balaustra, dove posso appoggiare la fotocamera. La luce è pienamente notturna, ma non si vedono astri per l'intensa illuminazione costiera (l'esposimetro segna innumerevoli stop in più che in una notte di luna piena), se non fosse per Venere troppo alta per essere inclusa. A suo tempo, gli dèi mandarono sulla Terra il diluvio universale perché disturbati dal rumore del lavoro umano, mentre sul chiarore non si sono ancora pronunciati. Forse potrebbe intercedere Kant, la cui celebre metafora sul cielo stellato oggi risulta incomprensibile alle genti urbane come lui.
Quattro tofu fritti e una pepsi
Per cena ho la libera scelta se fermarmi a un rapido aperitivo sciccoso sulla terrazza di Camogli, dove magari potrei socializzare con uno degli eredi delle ville viste oggi, oppure se prendere un treno prima e cercare qualcosa più dozzinale a Brignole durante l’attesa della coincidenza. Visti i miei calzoni rattoppati, gli scarponi di cuoio da montanaro e le attitudini diversamente relazionali, opto per la seconda alternativa e mi dirigo alla stazione. I treni per il levante sono in notevole ritardo, mentre quello per Savona viaggia in orario, anche se incomprensibilmente l'altoparlante interno all’arrivo annuncerà un ritardo di 166 minuti e fornirà le istruzioni per ottenere il risarcimento previsto.
A Brignole trovo tutto chiuso tranne una catena statunitense di frittume animale, dove ordino tramite touchscreen il menù per l’amico vegano sfigato della compagnia (perché mi voglio male, sentenzierà la suocera), pure garantito fritto in un olio dedicato, per coloro che osservano un’etica dell’impurità rituale di biblica memoria. Ciononostante il panino ha l’identico sapore dell’hamburger di maiale dello schifezzaio sotto casa, gettando una luce oscura sugli ingredienti e gli aromi di entrambi. Dal momento che il caffè non è previsto, l'unico modo per drogarsi di caffeina è abusare della pepsi senza zucchero a garganella, come neanche l’acqua naturale nei ristoranti urbani, ma solo il matcha nel ramen preferito da mio fratello.
Il viaggio di ritorno sull’ultimo treno della sera scorre liscio e silenzioso nella lettura. Arrivo a casa a mezzanotte, dopo essere uscito alle 5, e mi limito a buttare l'organico e accatastare tutto il resto. Il giorno dopo concludo di non essere ancora del tutto decrepito, perché nonostante la scarpinata e la doppia deprivazione di sonno non patisco il pendolarismo in bici. Esco dal lavoro appena mi è consentito dalle esigenze, per correre a sviluppare le foto, trascurando lo zaino da svuotare e gli scarponi da lavare: grazie ai panorami marini e alle architetture sature per una volta sono buone nonostante la giornata radiosa, anche se un po’ di caligine sono riuscito a infilarla lo stesso con gioia. Per parafrasare il cantante dei Cure, non sono una persona cupa, solo non credo nelle Kodachrome.
Liguchrome
They give us those nice bright colors
Give us the greens of summers
Makes you think all the world's a sunny day, oh yeah
Per approfondire
- AAVV, Ecologia del paesaggio del Monte di Portofino, Segrate 2013
- A. Girani - S. Olivari, Guida al Monte di Portofino, Genova 1986
- A. Giustiniani, Descrittione della Lyguria, Genova 1537
- M. Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria, Savona 1973
- G. Spalla, L'architettura popolare il Italia. Liguria, Bari 1984
- A. Girani - S. Olivari, Guida al Monte di Portofino, Genova 1986
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