Vallone Grandubbione
Valle Chisone
23 ottobre
In un baleno
Per questo vallone persino la laconica Guida ai monti d'Italia del CAI spreca l'aggettivo "pittoresco"
Diario di viaggio
Una perfetta escursione per una tersa giornata autunnale, quando i boschi si accendono di colori caldi e l'aria secca non oppone ostacoli allo sguardo verso le cime lontane, che si possono ammirare dal colle del Besso, il punto culminante della gita. Per questo vallone persino la laconica Guida ai monti d'Italia del CAI spreca l'aggettivo "pittoresco". Vi sarei dovuto venire ormai diversi anni fa, per una Giornata di Primavera del FAI, ma una nevicata tardiva aveva causato l'annullamento della gita; poi era rimasto lì, nel limbo delle cose vorrei fare, ma che ho dimenticato che mi piacerebbe fare. Finalmente nel 2014 mi sono regalato un periodo di ferie a metà autunno, stagione perfetta per l'escursionismo di media montagna, e sono riuscito a venirci; nel 2015 ho ripetuto l'esperienza con gli amici. Sono particolarmente belli i tratti sul fondo della Comba dei Traversi e lungo il rio Gleisassa (Giro dei 7 ponti), ma tutto il giro ha motivi di interesse e fascino.
Attraversando la parte vecchia di Dubbione, per la via napoleonica, si arriva al ponte di Annibale, così chiamato perché sarebbe stato fatto costruire dal celebre generale cartaginese, che coi suoi elefanti era venuto a fare trekking pure qui, prima di campeggiare su quasi tutti i colli dell'Appennino toscoemiliano. Un breve tratto di strada conduce all'imbocco della mulattiera che risale il vallone Grandubbione, verso Tagliaretto. Sono quasi le 10 ma quaggiù il sole non è ancora spuntato, in questa fresca mattina di fine ottobre.
Il tracciato sale molto gradualmente tenendosi su un fianco della montagna, ben sopra il torrente, che si può solo immaginare perché i rami fitti e l'ombra buia ne celano la vista. Sul lato a monte la mulattiera è protetta da possenti muri di una strana roccia viola scuro. I muri a secco sono sempre dei condensati di geologia, per chi è così paziente e determinato da imparare gli sterminati elenchi di cristalli e rocce.
Salendo si raggiunge finalmente una zona baciata dal sole. Tolti gli strati e i guanti, la salita procede assai gradevole tra le rade ombre arancioni delle chiome, sfoltite dalla tempesta di vento del giorno precedente. Salgo in solitudine, accompagnato solo da qualche latrato dei cani dei cacciatori o della frazione soprastante. Un agrifoglio avvolto dall'edera intralcia il sentiero: dev'essere caduto da poco, forse proprio ieri, perché non si vede nessun segno di passaggio, come rami spezzati o usura della corteccia. Dopo una breve meditazione, prendo lo zaino a mano e ci passo sotto.
Un piccolo prato a valle della mulattiera consente di gettare lo sguardo indietro, verso i dossi boscosi baciati dalla luce ancora radente; sopra di loro fa capolino il Monviso. Segue un gruppo di case, raggiunte da una pista carrabile, in parte ristrutturate e frequentate, come denuncia un sacchetto dell'Eurospin steso ad asciugare. Un ramo della pista scende verso il torrente; conduce a un ponte in pietra che lo varca e può essere una via di discesa alternativa. Ad un tornante della strada si presenta un bivio. Entrambi i percorsi conducono alla cappella di Serforan: quello di sinistra sale passando per Tagliaretto (variante della fontana), che era la borgata principale del vallone, in cui per un lungo periodo ci fu anche una scuola; quello di destra scende passando per le dirute Case Gaido, dove c'era l'osteria del Gallo, chiaro segno di una passata frequentazione di viandanti e commercianti diretti ad Avigliana. Conviene percorrerne uno all'andata e uno al ritorno.
La cappella di Serforan si trova su uno sperone a picco sul torrente, in una posizione solatia. Fu fatta costruire da don Forchino, storico parroco di Tagliaretto e negli ultimi anni è stata restaurata varie volte. È stato anche aggiunto un affresco che raffigura la Madonna della Neve, a cui è dedicata. Un bel posto per una pausa. Subito oltre, il percorso si biforca: a sinistra si risale il vallone del rio Gleisassa, a destra la Comba dei Traversi. I percorsi si riuniscono più a monte, a Traversi, ed è perciò raccomandabile salire da uno e scendere dall'altro, perché sono entrambi assai interessanti. Tirando a sorte mentalmente decido di salire per la Comba dei Traversi.
Il sentiero, invaso dalle foglie secche, scende gradualmente verso il torrente, dove si prende a sinistra e si raggiunge un ponte in legno che consente di valicarlo. Il vallone si fa subito stretto e assai suggestivo: si cammina tra i massi in un bosco fitto, sovrastati da picchi rocciosi. Il ruscello alterna rapide, cascate e pozze, dove si accumulano e vorticano le foglie cadute dagli alberi. Per un tratto ci si innalza su un fianco della montagna, dove crescono alcuni maestosi castagni da frutto. Persino questa zona impervia veniva sfruttata per produrre cibo, in un'economia stentata dove ogni risorsa era necessaria per sopravvivere. Ad un bivio, non segnalato da cartelli, si vede una traccia, di cui è segnato l'imbocco, piegare a destra; sulla cartina si legge che sale a una strada diretta a Crò. Si supera il torrente su un bel ponte a schiena d'asino in pietra e malta. Un ultimo tratto di salita tra i faggi e i massi porta alla strada asfaltata che sale dal fondovalle, nei pressi della borgata Traversi.
Da qui decido di salire ancora fino al colle del Besso. Se invece si vuole cominciare la discesa proseguendo per Serremoretto, dallo sbocco sull'asfalto bisogna salire ancora un tratto sulla strada e poi prendere a sinistra una pista che passa tra le case. Il cartello fa credere che si debba scendere per la strada, ma si riferisce a un giro ad anello per le carbonaie della zona. Per il colle si prosegue invece su asfalto fino a un ponte di legno, che il sentiero sfrutta per varcare il torrente e cominciare a risalire la valle.
Si superano delle baite in rovina e si sale tra faggi e rocce chiare, in un mare di foglie secche. Si oltrepassa una colonia del CAI di Pianasca e si continua a guadagnare quota, restando più o meno nei pressi del fondovalle. Si guada poi il ruscello e si risale un pendio, dove al mio passaggio sono in corso dei lavori di esbosco, oggi interrotti probabilmente per il vento, che hanno lasciato un bosco molto diradato, composto da sparuti alberi dai tronchi esili. Il vento di ieri poi ha fatto il resto, strappando quasi tutte le foglie dai rami; il bosco ha un aspetto ormai invernale. Le foglie a terra sono tutte rinsecchite e accartocciate, come se fossero cadute due mesi fa e da allora non avesse più piovuto. Si accumulano nelle zone incavate del sentiero, dove tocca "guadare" il lago di foglie, sprofondando fin oltre le ginocchia. Per fortuna il fondo è terroso e regolare, per cui il rischio di poggiare male i piedi è ridotto. Mi capita solo un paio di volte di incastrarmi in rami sommersi.
Il rado bosco consente di ammirare i curiosi fianchi della valle, che alternano pareti bianche a zone boscate accese dai colori autunnali. Il sentiero prosegue con tornanti graduali fino al colle, dove si apre un grandioso panorama.
Verso ovest il crinale erboso sale verso la Punta dell'Aquila, per una serie di cime verdi. Secondo il cartello ci vogliono meno di due ore per la cima: può essere una via di cresta molto più interessante di quella solita dall'alpe Colombino, che segue gli impianti di risalita dismessi. Verso est si apre la vista sulle basse valli di Susa e Sangone (si riconosce la striscia blu del Lago Grande di Avigliana), sovrastate dalla bianca mole del Rosa, che ha già ricevuto le prime nevicate. Più lontana c'è Torino, dove il grattacielo Sanpaolo è molto più riconoscibile della Mole, pur essendo ufficialmente più basso. A sud la catena del Monviso svetta sui dossi delle valli pinerolesi.
Al colle alcuni cartelli avvisano che le pecore della zona sono sorvegliate da pastori maremmano-abruzzesi e forniscono alcuni consigli di comportamento: questi cani, indispensabili per proteggere le greggi dai lupi, possono diventare pericolosi per l'uomo, che riconoscono come nemico. «Se vedi un gregge, non andargli incontro.» «Se un cane si avvicina, non correre.» «Se hai fede, prega» ha aggiunto a pennarello un mattacchione. Sul colle ci sono un paio di abbeveratoi, per cui la probabilità di trovarvi le pecore con i cani non sono certo remote.
Fino a Traversi seguo la via di salita. Lì, come detto non bisogna fidarsi dei cartelli, che fanno percorrere un tratto su asfalto. Invece si attraversa il gruppo di case, si supera il torrente su un ponte in pietra e si prosegue in lieve salita fino a Serremoretto tra i castagni. Qui trovo un paio di operai al lavoro. La posizione della frazione è molto felice: aerea, soleggiata, panoramica. Il toponimo Serre d'altronde indica proprio un luogo elevato. Per la mulattiera scendo a Rocceria.
Da qui c'è la possibilità di allungare un po' e percorrere il bellissimo sentiero (non presente sulla cartina Fraternali) delle Roche dle Miane (rocce della paura), un sentiero dei carbonai che attraversa le dirupate pendici del monte Cucetto, dove a prima vista sembra impossibile passare. Si attraversa infatti una zona di aguzzi picchi rocciosi, dove i carbonai si erano ritagliati una sottile traccia e alcune piazzole, che consentivano di rendere produttiva persino questa zona ostile. Conviene percorrere questo sentiero nella prima parte della giornata, perché le rocche più bele sono esposte ad est, per cui nel tardo pomeriggio sono in ombra. Il sentiero sfocia nella stradina che sale da Serre Marchetto al Cucetto. La si prende in discesa fino alla strada asfaltata, dove si va a sinistra e si torna a Rocceria; poco prima dell'asfalto si può imboccare un sentiero diretto a Serdivola, che consente di evitare un breve tratto di strada.
Prima di Rocceria ha inizio il sentiero dei sette ponti, che segue il corso del rio Gleisassa. Non so a chi sia venuto in mente di usare questa attrattiva per battezzare il tracciato. Certo è un po' ingannevole, perché i ponti in sé non hanno nulla di speciale: sono normalissimi ponti in legno; era molto più interessante quello in pietra visto nella Comba dei Traversi. Tra l'altro due sono stati trascinati a valle dall'alluvione del 2000 e sono stati sostituiti da moderne passerelle in metallo, peraltro costruite a prova di attacco nucleare.
Il paesaggio è in compenso un'attrattiva più che sufficiente. Il verde torrente scorre tra cascate e pozze alla base di una profonda gola. Ad un certo punto l'angusto vallone si apre in un prato, sovrastato da una parete strapiombante usata come palestra di roccia. Da qui parte anche un sentiero attrezzato che raggiunge la Gleiza di Barbet (chiesa dei valdesi), una grotta invisibile dal basso dove si dice si radunassero a pregare di nascosto i valdesi, nei periodi in cui erano perseguitati a causa della loro religione. Il termine occitano barbet per designarli deriva da barba (zio materno), l'appellativo dei loro predicatori erranti clandestini.
Proseguendo invece in discesa si arriva in breve a una pista erbosa che risale alla cappella di Serforan, baciata dall'ultima luce del pomeriggio, dove mi fermo a fare merenda finché c'è il sole. Infatti, nonostante ci sia ancora l'ora legale, alle 16 il sole è già quasi calato dietro la montagna. La pace della natura è rotta dal rombo di due moto da cross, che si fermano brevemente e poi proseguono.
Scendo dal sentiero che ho evitato in salita e che attraversa Tagliaretto. Alcuni cartelli ricordano un passato vitale, in cui nel paese c'erano ben due osterie. Oggi non vi abita più nessuno stabilmente, ma le seconde case sono ben curate. Il declino qui è cominciato già nel XVIII secolo, molto prima del massiccio spopolamento della montagna. Tuttavia ancora nel secolo successivo c'erano sufficienti risorse per mantenere una scuola elementare e avviare una tradizione di decorazione delle facciate con le meridiane, che gli attuali propietrari tengono viva.
Un ripido sentiero a zig-zag, che bordeggia un imponente castagno, mi porta al bivio col 347 e sulla strada dell'andata. Dal bivio della pista si può percorrere una via alternativa sull'altro versante. Si scende a case Peyrot e lì si trova un sentiero che va a superare il torrente su un ponte a schiena d'asino. Il sentiero si arrampica poi faticosamente per il versante. Un guado scivoloso è facilitato da una corda a cui tenersi. Nei pressi di una casa diruta, non segnalata sulla carta Fraternali, si confluisce in un sentiero che un cartello scritto a mano chiama "Dei colori del bosco". Da qui si procede più o meno in quota; il percorso non è sempre molto tracciato, ma le segnalazioni sono sufficienti.
Molto bello un pianoro prima dell'abbandonata borgata Turma o Badola, termine piemontese che significa fannullone. Qui campeggiano alcuni enormi castagni secolari. Peccato che la scarsa luce velata sia qualitativamente pessima e quantitativamente insufficiente a farmeli fotografare senza cavalletto. Dalla borgata si segue la strada, che ben presto si lascia per un sentiero che scende dapprima dolcemente. Quindi piega bruscamente per la linea di massima pendenza, per evitare un dirupo, e scende diritto perdendosi un po', fino a confluire su una pista sottostante. La si segue fino alla strada, dove si prosegue in discesa. Alla borgata Anselm ci dovrebbe essente un sentiero che scende a Dubbione, ma ormai la luna è l'oggetto più luminoso, per cui è meglio percorrere la strada, che non fa un giro troppo lungo.
Al ponte di Annibale termina così uno dei più bei giri di bassa montagna che conosco.