I massi erratici della collina morenica di Rivoli

Val di Susa/Val Sangone

17 marzo


In un baleno

La collina morenica di Rivoli offre ampio spazio all'escursionista curioso e interessato agli aspetti naturalistici e antropologici delle Terre Alte, pur essendo alla quota dell'outlet di Serravalle Scrivia o poco più.

Pera Sgaroira
Pera Sgaroira

Diario di viaggio

La collina morenica tra Rivoli e Avigliana e i comuni su essa adagiati sono maggiormente noti ai torinesi per le villette in perenne proliferazione della classe benestante, per le passeggiate domenicali con o senza cane o cavallo dei suddetti benestanti, per i picnic a chilometro zero dei poveracci oppure per le scorribande in MTB degli sportivi.
È meno noto che, pur con qualche cautela per non venire travolti dalle suddette MTB, offrono ampio spazio anche all'escursionista curioso e interessato agli aspetti naturalistici e antropologici delle Terre Alte, pur essendo alla quota dell'outlet di Serravalle Scrivia o poco più. Ne sono l'aspetto più evidente e peculiare i massi erratici ed è a loro che è dedicato questo itinerario. Risalgono dall'ultima glaciazione pleistocenica, perché quelli delle precedenti sono stati abbondantemente disintegrati dai processi di degrado, di cui incontrerò numerosi segni: su tempi geologici, la roccia non è più salda della sabbia. Tuttavia, leggendo scoprirete che c'è anche dell'altro.
Dal momento che mio padre, quando aveva pressappoco la mia età attuale, contribuì all'edificazione di una delle villette a beneficio di un suo collega della FIAT, mi sento in dovere morale di bilanciare il karma con questa proposta.

Dal culto alla scoperta dei massi, passando per la distruzione

L'idea che i massi, di natura completamente diversa rispetto al substrato su cui si trovano o in posizione isolata, giunti chissà come, siano una stranezza da spiegare è relativamente recente e risale grosso modo a fine Settecento. Prima infatti non avevano colpito l'immaginazione degli studiosi.
Plinio il Vecchio, ad esempio, conosce una miriade di rocce diverse e il loro usi, non solo meccanici, ma anche chimici (per qualche ragione quasi ogni pietra sciolta nel vino cura qualche genere di malanno), conosce i sassi piovuti dal cielo, ma non cita mai massi fuori contesto; ciò nonostante abbia il concetto di masso che si muove da solo come stranezza, perché cita un lapis fugitivus, in perenne movimento, che deve essere tenuto incatenato al suolo.
Il primo libro dedicato specificatamente alle Alpi, il De Alpibus Commentarius, scritto dall'umanista zurighese Iosia Simmler nel 1574, contiene una miriade di primizie alpine sconosciute al mondo classico, come la maggiore importanza del saltus rispetto all'ager, il larice e lo stambecco pressoché sconosciuti nell'antichità, la prima descrizione dell'ardito Ponte del Diavolo che nel Medioevo aprì la via del San Gottardo e sarebbe stato instagrammato alla nausea dai viaggiatori romantici, o anche la prima versione delle leggenda viva tutt'oggi secondo cui la valanga sarebbe generata da una palla di neve che rotolando s'ingrandisce. Manca invece ogni riferimento agli erratici.
Nei viaggi di Goethe sulle Alpi svizzere e in Italia, svolti a fine Settecento, vi sono numerosissime osservazioni geologiche e riferimenti ai dibattiti scientifici dell'epoca, ma manca ogni osservazione di massi erratici.

Tuttavia già prima della nascita dell'indagine empirica sul mondo, le persone comuni erano rimaste colpite da questi elementi alieni rispetto al territorio circostante, sfacciata violazione del bisogno di normalità. Lo prova il riferimento a esseri leggendari o personaggi della tradizione, in storie che li coinvolgevano. Del Roc dla Dora di Alpignano si diceva che il giorno dell'Epifania ruotasse su sé stesso tre volte, in ricordo di un episodio che coinvolge i Magi in persona, a cui aveva indicato la via smarrita. Altri fanno pensare a qualche forma di culto, come i massi coppellati o le rocce scivolo.
I concili cristiani dell'Alto Medioevo fanno spesso riferimento alla persistenza di culti litici da combattere. Su alcuni massi non visitati in questo giro, sul Truc Monsagnasco nei pressi dell'attuale ospedale di Rivoli, sono incise delle coppelle. Gli archeologi ritengono che, tra Età del Bronzo e Età del Ferro, ma ancora in periodo romano, come prova il sito rupestre di Panoias nell'attuale Portogallo, fossero sede di riti associati a patti territoriali, in zone di confine, con versamento di liquidi alimentari sui massi (una qualche reminiscenza di queste pratiche, in un altro contesto culturale, fa capolino anche nella Genesi, in un episodio con protagonista Giacobbe). Anche a Torino, il vescovo san Massimo sul principio del V secolo esecrava la fitta persistenza di idoli di pietra (simulacra lapidea, sermone 107) e pratiche animiste nelle campagne, con offerte di prodotti agricoli (sermone 91), quando la classe ricca cittadina aveva invece ormai abbracciato la nuova fede. La politica della Chiesa, tuttavia, non fu sempre di estirpazione, ma anche di inclusione nel culto e cristianizzazione dei siti sacri, come testimoniato dalla presenza di chiese, piloni e croci sui massi. Uscendo un po' dal seminato, in questo senso l’esempio più famoso in Piemonte è forse quello di san Besso, un caso ben documentato da Hertz di trasformazione di un culto pastorale in martire cristiano, con associata roccia taumaturgica dall'aspetto singolare. Tuttavia anche la cappella di san Pancrazio sul grande Roc di Pianezza, ne è un esempio in questo anfiteatro morenico.

Quando sul principio dell'Ottocento fu abbandonato il mito biblico del diluvio, una prima ipotesi formulata da alcuni scienziati, detti poi torrentisti, fu che tali grandi massi fossero stati trasportati da catastrofici eventi alluvionali, dovuti al sollevamento improvviso della catena. Già prima de Saussure, il celebre naturalista svizzero del Settecento, pur riconoscendo la capacità di trasporto dei ghiacciai, dopo aver assistito al collasso di un lago glaciale effimero, aveva ipotizzato che i massi erratici delle pianure fossero trasportati da eventi come questi. Tuttavia altri constatarono che l'acqua non è in grado di trasportare blocchi tanto grandi su così lunghe distanze e che i depositi non presentavano alcun tipo di stratificazione sedimentaria, perché blocchi delle più disparate dimensioni, dalla sabbia fine ai grandi massi, erano tutti mischiati.
Inoltre, anche grazie al fatto che l'espansione dei ghiacciai della Piccola Era Glaciale moderna era un evento che da poco aveva raggiunto il culmine e di cui si conservava memoria tra i montanari, emerse carsicamente l'idea che fossero stati trasportati da passate e grandiose espansioni glaciali. Ad esempio, nel testamento spirituale di Goethe, I vagabondaggi di Wilhelm Meister (1829), un capitolo centrale esplicita la sua visione sul ruolo dell'intellettuale nella società ed è significativamente ambientato in montagna, per l'importanza che questa aveva avuto nella sua formazione e nella sua poetica. Del capitolo è generalmente nota agli alpinisti la citazione secondo cui «la montagna è una maestra muta che fa discepoli silenziosi». In esso alcuni personaggi, che si comportano in ossequio alle convinzioni di Goethe, esprimono l'idea che i massi erratici delle pianure del nord Europa siano stati trasportati da ghiacciai durante passate espansioni.
Infine nel 1834 De Charpentier (svizzero direttore di un distretto minerario e appassionato escursionista), quando, dopo anni di studio sul campo, ebbe raccolto una quantità sufficiente di osservazioni a favore di questa tesi, riuscì a farla accettare alla Società elvetica di scienze naturali e quindi alla comunità scientifica del tempo. Tra le prove portate, la disposizione dei massi lungo morene analoghe a quelle dei ghiacciai in quota, la presenza di massi solitari, lontano da depositi alluvionali, le superfici levigate simili a quelle accanto ai ghiacciai e lungo i fianchi delle valli, la presenza stessa di tali depositi sui fianchi delle valli, dove il livello delle acque non avrebbe potuto arrivare, il fatto che fenomeni del genere sono più pronunciati a monte, mentre un'alluvione avrebbe più forza a valle. Come causa dell'espansione, De Charpentier non pensò tuttavia a cambiamenti climatici a grande scala, come i geologi e i climatologi ritengono oggi, ma ipotizzò un passato maggior sollevamento della catena: la teoria delle glaciazioni sarebbe giunta pochi anni più tardi a opera di Agassiz, amico di De Charpentier e suo compagno di escursioni.

Nei decenni successivi, fu Bartolomeo Gastaldi a importare tali idee in Piemonte, grazie ai suoi studi proprio su questo anfiteatro morenico oltre che su quello più esteso di Ivrea. Oggi gli è dedicato il più grande di tali massi, il Roc di Pianezza, a proposito del quale ebbe una lunga discussione con il professor Sismonda, di scuola torrentista, che lo vedeva come una propaggine del Musinè, un po’ come il Moncuni, culmine della collina morenica di Rivoli, è un blocco di roccia alpina. Gastaldi si procurò i dati dei pozzi nelle vicinanze del masso, mostrando come alcuni fossero molto profondi, per cui avrebbe dovuto essere una propaggine ben singolare, altissima e aguzzissima. Il masso purtroppo è ormai inglobato nell'espansione edilizia moderna.
A cavallo con il secolo successivo fu il geologo Federico Sacco a promuovere la conoscenza e la frequentazione della zona, organizzando escursioni e scrivendo su varie riviste divulgative, tra le quali i periodici CAI e Le vie d'Italia del Touring Club Italiano. Contemporaneamente, proprio in quel periodo di sviluppo industriale, razionalizzazione ed esplosione demografica, molti massi furono fatti brillare, per ricavarne materiale da costruzione, oppure per far spazio a coltivazioni ed edifici. Il processo del resto era già cominciato su scala ridotta da tempo immemore, con l'opera dei picapera (spaccapietre), che vi ricavano materiale per costruzioni e oggetti. Nel passato la difficoltà di trasporto dalle cave alpine era un severo limite, per cui la vicinanza alla città li fece eleggere a fonti preferite di materiale.
Tra i massi distrutti allora spicca il già citato Roc dla Dora di Alpignano, demolito per costruire una centrale idroelettrica, una vittima incolpevole del progresso, come Filemone e bauci dnel V atto del Faust di Goethe. Presso Pianezza un altro grande masso fu demolito un poco alla volta. Uno da cui passerò, la Pera grossa di Rosta, così grande da essere riportato sulla carta IGM del 1871, ha smarrito il significato del suo nome, perché è ormai ridotto a pochi metri di diametro a furia di essere scavato. Della loro gloria passata ci resta solo qualche veduta del Cignaroli o dagherrotipo.
Già Gastaldi perorò sui bollettini CAI, di cui fu presidente, la causa dei massi, chiedendo che fossero preservati dal progresso, nel nome dell'amore per la scienza e prospettando un futuro turistico. IL CAI stanziò dei fondi per acquistarne alcuni e preservarli: ancora nei primi anni Duemila, si trovò ad affrontare una causa di usucapione da parte dei un vicino, che presso Alpignano aveva fatto l'orto appoggiandosi a un masso di proprietà della sezione di Torino. Nel 1922 fu promulgata una legge per proteggerli, ma nel 1939 fu abolita. Nel decennio scorso, la Regione Piemonte approvò una legge (n. 23 del 21.10.2010) che si proponeva di censire e valorizzare i massi di particolare interesse naturalistico, antropologico, storico o sportivo. Fu finanziata con 70.000 € nei primi due anni di validità, che immagino siano serviti tra l'altro a realizzare i cartelli che illustrano le caratteristiche di alcuni di tali massi, oltre che di altri elementi dell'anfiteatro morenico di Rivoli e la rete sentieristica.
Negli anni ‘70 del Novecento, i massi hanno attratto Gian Carlo Grassi. Il famoso alpinista del “Nuovo mattino” trascorse quattro inverni «come pirata alla ricerca di tesori sepolti», a scovare sempre nuovi massi tra questi boschi per scalarli, anelando esperienze nuove che allargassero l'orizzonte dell'alpinismo. Tracciò così un'enorme quantità di vie dalle difficoltà più disparate. Nella guida che ne trasse nel 1982, emerge un rapporto introspettivo con l'attività, in cui li apprezza per confrontarsi con la propria fisicità e il proprio desiderio di avventura. Tutto l'opposto del mio modo di camminare, in cui invece cerco di assorbire il genius loci e ascoltare me stesso più che altro per scoprire il racconto del territorio. A trent'anni dalla sua morte, la sua presenza è ancora viva nei bolli rossi che marcano l'attacco delle vie di arrampicata.

Pera Majana

Veniamo al mio giro. Dopo aver dribblato una coda per lavori dalla lunghezza indefinita, oltre che vari ingressi a scuola e i relativi vigili, lascio l'auto al campo sportivo di Villarbasse. È il punto di partenza più comodo, ma, pur essendo a due passi dalla città, richiede necessariamente un mezzo privato, perché qui i trasporti pubblici sono rari e pellegrini: da casa mia, che pure non dista molto, sarebbero fruibili solo con spirito di abnegazione. D'altronde questi centri si sono sviluppati presupponendo l'impiego generalizzato dell'automobile, anche se non siamo ancora giunti al livello di Los Angeles, dove il semplice girare a piedi suscita il sospetto dell'autorità preposta all'ordine pubblico.
Per prima cosa, prendo la scossa dalla carrozzeria, per l'aria secca a causa della perdurante siccità: domani saranno tre mesi che non piove, né si vedono perturbazioni all'orizzonte. In tutto il giro, troverò giusto un breve tratto ombroso lievemente umidiccio, mentre per il resto non pesterò che polvere e terreno duro, manco fossi nei dintorni di Khartoum. Volto le spalle al Pietraborga e al San Giorgio, ma non alle cime dell'Orsiera, in quanto pressoché invisibili a causa della foschia, e mi dirigo verso il cimitero, prima del quale supero un pilone votivo dipinto di recente. Tra le raffigurazioni, riconosco Longino e don Bosco.
Fra varia gente a spasso, con o senza cane, raggiungo il primo masso erratico, la Pera majana, detta mariana dal Sacco, dove Pera è il piemontese per pietra. È anche dedicato a Ugo Ciampagna di Pro Natura, un'associazione che si batte per la salvaguardia e la valorizzazione culturale degli erratici e della collina morenica, a cui va il merito della legge regionale. Il masso è abbondantemente colonizzato da bagolari e querce, che vegetando nelle fessure, contribuiscono allo sfaldamento della roccia (bioclastismo). Dal lato della strada è strapiombante, mentre dal lato opposto presenta un piano inclinato, come le montagne a franapoggio e reggipoggio. Da quest'ultimo, nonostante le solite pietre verdi scivolose frappongano un po' di resistenza, pur essendo diversamente alpinista, riesco a salire in cima senza eccessive incertezze. Inoltre Grassi avverte che i periodi secchi sono i peggiori per salire, perché una patina di pulviscolo si deposita sulla superficie rendendoli ancora più scivolosi. Attorno alla base vi sono delle immondizie, da scatole di caramelle ai fazzolettini da pisciata. Peggio andava ai tempi di Grassi, quando nei pressi venivano scaricate delle macerie (mi auguro non fosse mio padre…).
Superata la circonvallazione, dove una scatola vuota apotropaica per autovelox vorrebbe limitare la velocità dei pendolari in ritardo, mi inoltro tra le villette, percorrendo un viaggio a ritroso nella storia recente, dalle più moderne agli antesignani anni '60 o '70 (rispetto ad allora la popolazione del comune è triplicata). Vista così, Villarbasse sembrerebbe un paese sonnacchioso senza storia, quando invece passò alla Storia per l'ultimo delitto punito in Italia con la pena capitale: nell'autunno 1945 qui fu infatti commessa un'orrenda strage per rapina, di cui vi risparmio i dettagli raccapriccianti, ma sui giornali del tempo e sulla Wikipedia li trovate tutti. Nonostante fosse già stato deciso di abolire la pena di morte, la crudeltà e la gratuità del delitto spinsero le autorità a non commutare la pena. A ricordare il prepotente ingresso della Storia nelle nostre vite, sulla cinta della scuola elementare sono poi appese una bandiera arcobaleno della pace di Capitini e dei disegni a tema dei bambini.
In centro incontro una vecchia conoscenza. Mi riconosce lui, perché è appena uscito da un negozio e indossa ancora la mascherina. Mi chiede ragguagli su un'associazione per cui facevamo i volontari, ricordando i bei tempi in cui aveva organizzato la prima camminata sui carboni ardenti a casa sua. Allorché gli spiego i miei propositi, mi racconta poi di aver arrampicato sui massi negli anni '80, quando ancora non li filava nessuno, mentre oggi gli appigli sono consunti. Mi indica anche la sua guida, appunto il libro di Gian Carlo Grassi del 1982, che scopro qui e conto senz'altro di reperire nella biblioteca CAI.

Pera Grossa

Lascio l'abitato, dove i manufatti più pregevoli che vedo sono un lavatoio, ora asciutto per la siccità, e un palazzo nobiliare affrescato. Quest'ultimo, palazzo Mistrot, fu in origine possedimento di un'abbazia torinese distrutta a colpi di cannone dai francesi durante l'occupazione del 1563. Successivamente passò in enfiteusi a dei nobili e fu trasmesso quindi per vari mani, fino al recente restauro delle decorazioni dei trompe-l'oeuil, che lo rende pregevole. Prendo a salire dolcemente tra case sparse, radure e boschi, dove fa capolino la primavera sotto forma di primule e Hepatica nobilis. Una 600 impolverata è arrivata sin qui nonostante sembri più larga del sentiero. Raggiungo i campi sommitali della morena, dove transita anche una linea ad alta tensione.
Sulla cresta della collina il ghiacciaio ha depositato la Pera grossa, il cui nome ha oggi un po' perso significato, in quanto in passato fu utilizzata come fonte di pietrame, anche per i blocchi del monumento ai caduti del tunnel del Frejus in piazza Statuto a Torino: sono ben visibili i fori dei candelotti di dinamite. Esattamente un secolo fa Sacco la valutava lunga ancora 20 m e alta 7, oggi è ridotta a una manciata di metri di diametro e altezza. Più recentemente vari imbrattamuri l'hanno marcata, in aggiunta ai bolli rossi con cui Grassi marcava l'attacco delle vie, che sono stati rinfrescati. A conferma di quanto mi raccontava il vecchio contatto di Villarbasse, noto che buona parte del masso ha il tipico colore delle serpentiniti quando si spaccano, segno di abrasione recente per il sassismo, la scalata su massi più conosciuta con il termine americano di bouldering. C'è pure un guanto da arrampicata dimenticato su un ripiano e tenuto fermo da un sasso.
Mentre mi allontano, una cagnetta di nome Luce passa a salutarmi e prendere un po' di coccole, come se la mamma non gliene desse abbastanza. Rimango sulla pianeggiante cresta, dove mi imbatto in un cippo litico confinale con incisa la data del 1740, la B di Buttigliera su un lato e la R di Reano sull'altro. Secondo la guida ce ne sono altri così, ma non sono i più antichi, perché sul Truc Monsagnasco, la collina dove ci sono anche le rocce coppellate, è incisa una croce risalente al 1330 su un masso, detto appunto Pera Crosà; la data risulta da un documento conservato nell'Archivio Storico di Torino, scovato da un socio di Pro Natura.
Proseguo tra boschi di castagno ceduo e radure coltivate. Certe zone sono appena state ceduate. In corrispondenza di una linea elettrica, uno squarcio nella vegetazione arborea mi concede uno sguardo sullo sbocco della valle di Susa e sul Musiné. Secondo alcuni geologi, verso la fine dell'era glaciale qui avrei visto un grande lago, formato dallo sbarramento morenico frontale. Passo accanto a un masso azzurrino molto desaturato su cui sono incise delle croci, una firma che non riesco a decifrare e che presenta fratture a reticolo e nicchie di distacco, detto Roc Pomeri.

Pera Sgaroira e le rocce scivolo

Più avanti, sempre procedendo sul margine del culmine morenico, arrivo a un campo coltivato a mais, ancora nel riposo invernale, al cui centro spunta un curioso masso erratico con un piano inclinato sul lato occidentale. Già osservando da lontano noto che lo scivolo è lucido. Andando più vicino (il campo è ancora nel riposo invernale e quindi posso entrarci), noto chiaramente come la maggior parte del masso sia rossiccia, mentre al centro c'è una striscia leggermente incavata e di colore verde, a indicare una forma di erosione recente. Queste rocce sono infatti di colore verde azzurro quando si fratturano, per poi divenire rossicce con il tempo, per l'ossidazione del ferro che contengono. Prendono il nome proprio dal colore al momento della frattura, colloquialmente pietre verdi o rocce ofiolitiche se volete tirarvela (da όφιος, serpente in greco). Il Monviso è formato proprio da loro: osservandolo da vicino quando è illuminato dal sole, si vedono bene i diversi colori.
Un cartello indica la causa dell'abrasione nel gioco di scivolamento delle masche: mi è capitato di vedere bambini giocare scivolando sui massi, ma in un passato neanche remoto sulle nostre montagne lo si faceva per motivi ben più impellenti che un semplice gioco. Una testimonianza ce la offre il maestro Roggia di Varzo, ai piedi del Sempione, che, il 17 agosto 1884, all'inaugurazione del rifugio dell'alpe Veglia, nel corso del suo discorso disse: «Quei poveri tapini che hanno il "mulino" impotente e quelle povere donne che stentano a vedere la "luna rossa" o che non hanno la buona sorte di avere eredi, invece di andare in pellegrinaggio da una Madonna all'altra e sfregarsi li sedere sulle pietre miracolose cercando grazie, sappiano che con l'acqua minerale che abbiamo qua vicino, si potrà rinvigorire da capo a piedi e far loro avere figli in abbondanza». Allora avere figli non era una mera necessità di realizzazione personale, ma una necessità fisiologica dell'attività agricola familiare, per avere manodopera indispensabile a costo quasi zero. Vi era inoltre una sanzione anche religiosa: ad esempio Tommaso d'Aquino, il più importante teologo cattolico, nella Summa theologiae, scrive che dove la Genesi dice che la donna fu creata come aiuto per l'uomo, va inteso essenzialmente per generare figli.
Il culto dei massi a fini di fecondità è ben documentato in epoca classica, quando il culto di Cibele, ermafrodita nata da una roccia fecondata da Zeus, si diffuse dalla Grecia a Roma. A fini goliardici, a Torino gli studenti usano toccare il mignolo di una statua in piazza Castello come rito propiziatorio prima di un esame. L'usanza potrebbe non essere non antichissima, nel senso di non preistorica, perché in alcuni luoghi lo scivolo ha eroso dei petroglifi come coppelle o guerrieri, risalenti all'Età del Ferro.
Soprattutto gli studi sul folklore francese hanno portato alla luce numerosi e variegati riti di scivolamento a fini di fecondità, ma anche un'indagine sistematica condotta in Ossola ha svelato la diffusa presenza di rocce scivolo. «Mi immaginavo chissà quale spiegazione geologica e invece culi di gente», ha commentato un'anonima quando le ho mostrato per la prima volta il masso.
Per quanto riguarda questa pietra, l'attribuzione non è certa: la memoria della funzione della scivolata pare essersi persa, o magari la modalità era troppo oscena e nessuno osa raccontarla, perché i testimoni fanno riferimento a scivolate delle masche, non riuscendo a spiegarsi l'origine dell'erosione. Il geologo e sassista Michele Motta, che si è interessato ai massi e ne ha scritto su pubblicazioni sia scientifiche che divulgative, ritiene tuttavia che lo scivolo fosse troppo irregolare per essere usato a questo scopo. La zona glabra sarebbe piuttosto dovuta a un fenomeno chimico naturale di scambio di ioni tra l’acqua meteorica e la roccia, noto per produrre scanalature. Effettivamente posso notare erosione dell'ossido e scanalature verdi secondarie anche al di fuori dello scivolo principale. Il nome originale della pietra non farebbe riferimento a scivolate: il termine Sgaroira indicato sui cartelli recenti sembra richiamare il piemontese sghijè (scivolare), mentre siti di misteri fanno riferimento a gare tra masche. Motta invece la chiama Garoira, che deriverebbe prosaicamente dalla voce mediterranea carra (pietra), simile al termine francese e inglese per cava e diffuso anche in Piemonte nei nomi di montagne (Carra Saettiva, Cima del Cars). Per mettere alla prova la sua ipotesi ho convinto l'anonima ad arrampicarsi in cima e scivolare lungo la scanalatura e ho constatato che è effettivamente possibile scivolare di sedere. Seguitemi sui canali social e saprete pure se i suoi poteri sono efficaci.
Per capire quale sia il nesso logico tra scivolare su un masso e divenire fecondi ci viene in aiuto Goethe, il quale tentò di formulare una scienza al contempo empirica e magica, in cui la natura non era morta come la ritengono gli scienziati odierni, ma un tutto vivo. Egli rigettava il concetto di modello, in genere matematico, alla base della moderna scienza, cercando piuttosto di scovare un fenomeno astratto (da lui definito originario), da comprendere mediante l'intuizione da cui far discendere tutti gli altri. In questo caso il fenomeno è la capacità generatrice della Terra, ben presente nella mentalità contadina: un esempio ancora attuale è la consuetudine di piantare un albero alla nascita di un bambino, affinché cresca forte e fecondo come lui, secondo il principio magico per cui agendo sui simboli si agisce sulla realtà. Tra l'altro un boschetto del genere è presente accanto a Pera Grossa. Pertanto sfregandosi sulla pietra si acquisisce il potere fecondante delle Terra. Questo potrebbe anche spiegare perché per tanti secoli nessuno studioso avesse fatto caso ai massi erratici, perché semplicemente prima del pensiero meccanicistico erano considerati frutti della Terra e non come oggetti trasportati.

Roc Müfi

Con oruxmaps mi districo tra le varie piste e vado ad attraversare la strada tra Buttigliera e Reano sul colle (con qualche cautela per il traffico), in modo da intercettare la Via dei Pellegrini, un percorso escursionistico tra Rivoli e la Sacra di San Michele, che seguirò per un tratto. Su una pista in quota, sul lato nord della collina, attraverso un bosco giovane, dove c'è qualche relitto di grandi alberi del passato, tra villette ai suoi margini e zone disboscate. Disturbo un paio di caprioli intenti a brucare. Nel fitto bosco raggiungo il Roc Bufì o Müfì, il cui doppio nome parrebbe derivare rispettivamente dal francoprovenzale per la forma a vescica, oppure dal fatto di essere ricoperto di licheni per l'esposizione settentrionale (la prima etimologia mi pare più fantasiosa). Grassi ne era affascinato. Scrive: «La mole del masso ha permesso di tracciare oltre una trentina di vie con passaggi ricchi di movimenti estremamente fini e delicati come appunto è usuale dell'arrampicata su placca; una mezza dozzina sono estreme e spesso inosabili».
Con una breve salita, valico un colletto ed entro in una magnifica radura dalla forma allungata, chiaramente un laghetto o una palude interrata, per via della sua perfetta piattezza. Sulla carta tecnica regionale non ha nome, mentre su openstreetmap è indicato come Arpiol, Arpiat sui cartelli, ovverosia alpeggio. In effetti c'è una rete da pecore al margine. Mentre la campana di Buttigliera suona il mezzogiorno, la costeggio lungo la sponda meridionale, dove un vecchio erpice giace sul margine, e mi faccio rapire dalle ombre degli alberi nudi sul prato rasato. Nei dintorni dovevano esistere molti laghetti, come ce ne sono tuttora tra le morene del ghiacciaio balteo. Non lontano da qui c'è la località Case Mareschi, un toponimo che indica un acquitrino. Presso la Pera Grossa ho sfiorato uno stagno tutt'ora esistente, alimentato unicamente dalle precipitazioni, ma che sarà stato secco a causa della loro carenza. Essendo raggiunto da una carrozzabile, è adibito a paradiso dei merenderos, come sono spregiativamente definiti da chi cammina coloro che vanno nella natura per fare un picnic accanto all'automobile. Sono talmente più numerosi dei primi, che gli autori tedeschi della guida al principale trek piemontese, la Grande Traversata delle Alpi, li hanno elevati a emblema dell'italiano in montagna.

Pera Luvera e i suoi variegati miti

Riagganciata la Via dei Pellegrini, che è transitata sulla riva opposta, la lascio nuovamente imboccando un sentiero che corre su una dorsale morenica solatia e panoramica, che ha conservato una sezione ben riconoscibile a V rovesciata, a gianduiotto, mentre il percorso segnalato corre sul lato ombroso. A nord il pendio cala su Avigliana, mentre a sinistra una vallecola costellata di massi erratici mi separa da un'altra collina. Questo complesso è collettivamente detto il Forte. Sulla morena sono evidenti forme di alterazione e disgregazione di alcuni massi erratici, ormai ridotti in frantumi, come se fossero precipitati dal cielo e fossero esplosi. Con qualche vista su Musiné e Sacra di San Michele (i monti della valle di Susa interna sono invece molto eterei per la foschia), continuo a seguirla, lasciando sulla destra dei sentieri in ripida discesa verso Avigliana, attrezzati per il downhill, la discesa a rotta di collo in MTB.
Ad un certo punto, trovo un’indicazione per la Pera Luvera (da luv, lupo), che raggiungo con una breve ma molto ripida discesa. È un tipico blocco di serpentino lucido. Nel 1921 fu visitata dalla Società Urania, che vi pose una targa lapidea. Il gruppo era nato come astrofilo, ma sotto la presidenza di Sacco si era dedicato anche ad altre scienze naturali. La targa e l'aspetto lucido sono forse l'origine dell'ipotesi, che Grassi trovò in alcune riviste, secondo cui sia un meteorite. Visto che il Musiné è proprio dirimpetto, ho provato a sondare alcuni classici, come Kolosimo e la Dembech, ma se la sono lasciata sfuggire, sebbene Barabaroro faccia preciptare in zona un meteorite d'oro, in una delle infinite rielaborazioni immaginifiche di miti antichi attribuiti alla montagna.
Facendo il giro, sul lato nord noto una buca simile a quelle adoperate come tane dai mammiferi «di rapina» come le volpi, i lupi o i tassi, segno magari una volta ci vissero davvero. Vista la presenza di caprioli, può darsi che vengano a cacciare qui i lupi, anche se fatte papabili non ne ho mai viste.
Un cartello riferisce quella che viene spacciata come leggenda locale, secondo cui il lupo che vi abitava rapì Caterina, la pecora preferita di un pastore, che per vendetta lo scovò e lo incatenò. La pecora propose però un compromesso: il lupo liberato non avrebbe più cacciato, ma il pastore in compenso l'avrebbe nutrito.
A parte il fatto che è un evidente rielaborazione della storia del lupo di Gubbio dei Fioretti di san Francesco, propone una visione di coesistenza con la natura selvaggia che non è per nulla in consonanza con quella dei secoli passati, ma piuttosto simile a quella degli ecologisti moderni.
Un esempio di questa è fornito dall'epico anime di Miyazaki Nausicaa nella valle del vento, in cui una foresta apparentemente minacciosa, che l'umanità vorrebbe estirpare, sta in realtà lavorando sottotraccia a beneficio dell'uomo. Invece in Cappuccetto Rosso dei fratelli Grimm il lupo è il cattivo a una dimensione, che fa il male senza ragioni plausibili, ma solo perché la sua natura ineludibile farlo, né c'è modo di conviverci, ma solo può solo essere eliminato fisicamente. Andando più indietro del tempo ma più vicino nello spazio, nell'ambito dei fenomeni devozionali che portarono all'edificazione del santuario di Sant'Ignazio nelle valli di Lanzo nel XVII secolo, ci sono miracoli in cui lupi rapiscono bambini e li lasciano per poi dileguarsi quando qualcuno fa voto di devozione al santo: anche qui non c'è convivenza, perché il lupo deve sparire e basta. Continuando l'analisi stratigrafica, una diffusa narrazione medievale è il santo addomesticatore, che sottomette un animale selvaggio (lupo o orso) e lo costringe a lavorare per sé, dopo che questi ha ucciso un suo animale da soma: il santo, in virtù del suo accesso al divino, ha il dominio sulla natura. In effetti i bestiari cristiani, quei libri in cui la natura è vista come metafora dell'esperienza religiosa, sono concordi nella perfetta identificazione tra lupo e diavolo. In questo non ha aiutato la Bibbia, che spesso identifica il popolo di dio con un gregge di agnelli: girando per le nostre montagne vediamo come i vitelli se la cavano da soli contro i lupi, mentre le pecore hanno bisogno di una protezione attiva. Tuttavia non è tutto qui: infatti procedendo nell'Alto Medioevo, vediamo san Colombano convivere con orsi e dividere con loro le bacche con cui si sostiene durante l'eremitaggio. Questo perché allora il villico era più foraggiatore che coltivatore, per cui condivideva le fonti della natura con altri animali. Infatti in mezzo c'è il periodo carolingio, in cui l'espansione delle colture ridusse gli spazi di caccia dei sovrani nei boschi, spingendoli a leggi draconiane contro i predatori ridotti in spazi sempre più risicati e più affamati di cacciagione. Fu questo il punto di svolta nella cultura europea, che ci avrebbe consegnato l'immagine demoniaca del lupo.
Come si vede la storia del lupo di Gubbio, affamato di carne umana con cui Francesco scende a patti, promettendo di nutrirlo in cambio della sua astensione dall'antropofagia, non ha nulla a che vedere con l'immagine di allora di questi predatori, intesi come creature selvagge che sfuggono al controllo umano. Gli storici pensano che la storia sia stata elaborata in ambienti pauperistici cappuccini, come metafora dell'ascesa dei signori, che di lì a poco avrebbero esautorato i poteri collettivi comunali.
Quindi la storia della pecora Carolina, con tutta probabilità non è un'antica leggenda locale, ma una storia che qualcuno ha ripescato dalla memoria per connotare positivamente il masso e tutto ciò che rappresenta con una visione del mondo tipica dei nostri giorni: ancora oggi i massi sono in grado di alimentare le storie con cui diamo senso alla nostra vita e che ci rendono umani.

Picapera e masche

Tornato sui miei passi, proseguo sulla cresta, che piega verso sud e dove una coppia sta pranzando su una panchina di legno; una pietra confinale stavolta ha la A di Avigliana, come altre già prima. Transito accanto a un masso di granito molto rugoso, per l'erosione differenziale dell'acqua, che lascia in rilievo i cristalli di feldspato. È spezzato in due e in alto si vedono degli incavi, di cui troverò una spiegazione in un cartello al masso successivo. Per saliscendi transito tra querce, generalmente giovani e fitte, sottili e con tronchi rettilinei. Qui per il legname erano prediletti i castagni cedui, mentre quegli alberi rivestivano una notevole importanza nella Repubblica di Venezia, perché erano il legname più resistente alla corrosione marina. Per questo la Serenissima emanò leggi draconiane per preservare dall'espansione antropica le sue fonti di approvvigionamento, creando una gran quantità di bandite invise alla popolazione. Alberi di questa forma però non sarebbero andati bene, perché dai rami troppo dritti a causa della densità arborea: per il fasciame servivano invece rami curvi, che si ottengono con alberi diradati dal pascolo del bestiame.

Per saliscendi arrivo al Roc del Picapera, così chiamato perché uno spaccapietre aveva tentato di spezzarlo per ricavare lastre, ma l'operazione non riuscì e i suoi segni sono ancora visibili. Arrampicandomi sulla piatta cima, infatti, posso vedere i fori disposti su una retta nei quali erano posti dei paletti di cotogno, che, bagnati, si dilatavano favorendo la rottura. Il cartello esplicativo anche stavolta costruisce un mito, nella forma di uno spaccapietre quasi taumaturgo nel costruire ogni tipo di oggetto, dal nomen omen di Cricca. Il loro lavoro divenne obsoleto dopo la fondazione del dinamitificio Nobel di Avigliana (1872), noto perché nel secondo dopoguerra vi lavorò Primo Levi, il quale narrò un episodio di chimica ambientato lì ne Il sistema periodico.
Poco più in basso, fuori sentiero e raggiungibile per tracce nel rado ceduo, c'è la Pera dle masche, nome moderno, uno dei luoghi preferiti di Grassi, che scrisse: «Giace in un sito tra i più graziosi ed e idilliaci della costiera Moncuni-Forte[&hellip] Da questa prospettiva si scopre inedito il sottostante lago Piccolo di Avigliana che contribuisce ad aumentare la suggestività dei luoghi circostanti[&hellip] L'ambiente solitario, permeato da una strana calma di magia, predispone lo spirito per materializzare un'azione bella sulla roccia.» Il lago per la verità oggi si può solo intuire, per il fitto bosco e sul sentiero sottostante c'è spesso un certo viavai di ciclisti che sfrecciano a tutta birra, mentre ai tempi di Grassi le MTB ancora non esistevano. Sul lato a valle, posso osservare le circonlocuzioni del metamorfismo della roccia, oltre a un nicchia di distacco, in cui l'azione del gelo ha fatto staccare un pezzo di roccia, riconoscibile perché nell'incavo il colore è ancora azzurrino. In cima c’è una specie di rozza capannina.
Con una ripida discesa su fondo un po' eroso sono al Bal di Maschi, un piccolo pianoro spoglio di forma circolare. Segna il confine tra il fertile deposito morenico e il substrato più povero del Moncuni. Come già accennato, il Moncuni è un affioramento di roccia alpina di pietre verdi, provenienti dal mantello terrestre, ricche di metalli pesanti, che in tali concentrazioni sono tossici per molte specie e producono perciò terreni molto magri. A riprova di ciò, il pianoro segna anche il confine tra la vegetazione di latifoglie e i pini silvestri, più adattabili. Le genti del posto non conoscevano questa spiegazione, ma, colpiti dall'improvvisa nudità del terreno, ne avevano colto stranezza e irregolarità, che in quanto tali erano classificate come diaboliche. Un'ulteriore spiegazione, da mitologia razionalista, vuole che nei giorni caldi l'aria appaia tremolante per effetto del riscaldamento e della turbolenza innescata dai moti convettivi, un miraggio interpretato come figure di streghe danzanti.
Seguendo le indicazioni per il lago Piccolo, dopo circa un quarto d'ora di saliscendi arrivo al punto panoramico che ho prescelto per il pranzo, poco oltre il primo cippo in cui compare la T di Trana. Il sentiero che percorro dal Bal a Trana compare sulle carte dell'Ottocento a differenza di quello per la cima del Moncuni, che dal Bal segue la dorsale. Mi sistemo su un masso lichenizzato proteso su un salto, proteggendomi con un pile dalla fresca brezza. Oggi il cielo è terso, ma la foschia lascia a malapena intravedere le cime dal val Sangone. Meglio, così non vedo che sono già spoglie di neve. Dell'Argentera, che farebbe capolino dietro la colletta di Cumiana, neanche a parlarne, ovviamente. Sulle sponde del lago qualche albero sta già fiorendo, mentre quello bianco brillante che si vede quasi sull'angolo tra sponda occidentale e settentrionale non è fiorito, ma gronda di guano dei cormorani, che l'hanno eletto come posatoio durante lo svernamento. Intorno al parcheggio della spiaggetta fervono grandi lavori per l'ennesima nuova rotonda.
Il lago Piccolo, così come la torbiera di Trana a monte di esso, è il risultato dell'escavazione di un ramo del ghiacciaio, che, trovandosi sbarrata la via verso la pianura dalle morene frontali dei cicli freddi precedenti più intensi, fu deviato in questo vicolo cieco.

I massi del Moncuni

Terminata la pausa, proseguo in quota tralasciando il sentiero in discesa verso il lago Piccolo e quello in salita verso il col Buchet, dirigendomi invece verso Trana (indicazioni per la Pietra di Salomone). Scendo tra radure e un bosco molto selvatico, con molti alberi caduti, anche divelti alle radici da qualche tempesta di vento. Oltrepasso numerosi massi erratici, che presentano varie forme interessanti, dalle fratture poligonali all'esfoliazione. Al margine destro del sentiero, sul masso 16 (numero dipinto a vernice sul lato non visibile), su un lato strapiombante, sono ben evidenti le strie glaciali, delle sottili incisioni parallele dovute all'abrasione dei detriti trascinati dal ghiacciaio. Gastaldi osservò quella di Pera Piana, una roccia dei pressi di Avigliana, per la sua descrizione dei movimenti del ghiacciaio valsusino. Sulle Alpi sono molto più rare da incontrare rispetto ai massi erratici o alle rocce montonate, ma ogni tanto su rocce molto resistenti capita di vederne. Sul masso di fronte, dall'altro lato del sentiero, sul lato nord è visibile un incavo in cui erano appoggiati i pali delle vigne, indicate sulla carta IGM del 1871, di cui oggi non c'è invece più traccia.
Attraverso quindi una zona con radi alberi e affioramenti rocciosi, alcuni dei quali sono sfruttati per l'arrampicata, per arrivare infine ai margini di Trana, dove c'è il masso più imponente della zona: la Pietra di Salomone. Merita senz'altro un nome glorioso, viste le ciclopiche dimensioni e l'epica spaccatura per crioclastismo (per dilatazione dell'acqua ghiacciata), dove mi infilo anche, sulle tracce di varia gente che l'ha usata come WC e discarica. Va detto che ai tempi di Grassi la situazione ambientale di molti massi erratici era ben peggiore, in quanto depositi abusivi di immondizia erano relativamente comuni. Prima che da Grassi, pare che il masso fosse già stato scalato negli anni '30 e '40. L'affollamento non era gradito ai proprietari dei terreni, che lo cosparsero di vernice per impedire l'arrampicata. Nei pressi della pietra sono fioriti dei dente di cane.
L'orgine del nome rievoca proprio il Salomone biblico. Una storia contenuta nel Talmud per spiegare un passo del Primo Libro dei Re, secondo cui non si udivano strumenti di ferro nella costruzione del Tempio, vuole che il re si fosse messo alla ricerca di una successione di demoni, fino a trovare quello che gli avrebbe tagliato le pietre. Il racconto è assai articolato ed è un bell'esempio di midrash, un genere letterario ebraico, ampiamente rappresentato anche nei vangeli, in cui gli eventi sono narrati come realizzazioni di versetti biblici. La storia è ulteriormente elaborata nel Corano, dove Salomone ha a disposizione schiere di demoni che lavorano per lui: il masso sarebbe sfuggito loro mentre lo trasportavano verso il sito di costruzione e si sarebbe frantumato nella caduta. Non sono riuscito a scoprire chi avesse un cultura così esotica per chi ha frequentato la scuola italiana (di solito nei bollettini CAI antichi si trovano più convenzionali citazioni latine), ma da Google si desume che esistano altri massi con nomi analoghi in Italia.
Questi ultimi massi non sono molto valorizzati: non ci sono cartelli che ne raccontino gli aspetti naturalistici e antropologici e spesso sono scomodi da raggiungere per l'orografia o la vegetazione invasiva, persino in inverno.
Sbuco sulla strada, che ha conservato il nome di via Monte Cuneo (la traduzione italiana di Moncuni), dove c'è una cartina approssimativa della zona. Tra villette con cani e palme nei giardini e massi erratici sparpagliati nelle aiuole, attraverso una zona mai vista di Trana, di cui conoscevo solo la 589. Il senso delle palme in una zona piovosa prealpina mi risulta misterioso. Tra molti cani che abbaiano, un labrador dietro un cancello viene invece a leccarmi la mano con entusiasmo. Non fotografo però niente di tutto questo, concentrandomi invece su uno scheletro di cemento e un fuoristrada vistoso.
Superato un ponticello su un rio asciutto, imbocco un sentiero per un bosco impenetrabile, dove una volta c'erano terrazzamenti coltivati a vite. Il toponimo dell'altopiano in cima era appunto Nebiolo, che può indicare sia il vitigno da cui tra l'altro si ricava il Barolo, o più probabilmente un altro omonimo adattato alle zone prealpine piovose, ancora coltivato ad esempio nel cuneese e in val Germanasca. Il Dizionario del Casalis ci offre una testimonianza di come fossero questi vini nell'Ottocento. Del ramie di Pomaretto scrive: «Fra i prodotti territoriali è da notarsi quello delle viti che forniscono in copia vini sulfurei i quali smerciansi principalmente nelle valli di s Martino e di Pragelato, il vino di Pomaretto ha per lo più una singolare particolarità: bevuto eziandio con qualche intemperanza lascia libera la testa ma vacillano le gambe a chi ne fa un uso alquanto smodato». Meno entusiasmo profonde per il nebbiolo di Dronero, oggi commercializzato come Drôné: «Nelle positure più felici che più non si trovano superiormente a Stroppo vi alligna la vite ma essa produce uve di sugo tanto acerbo che il vino riesce di gusto intollerabile». Sono solito vedere abbandono nelle zone marginali delle Alpi, ma qui, a due passi dalle villette che hanno fagocitato i massi, la cosa mi impressiona molto più del solito. Verso la cima della collina, costeggio una recinzione di un prato sormontato da ville. Il percorso è storico, perché compare nella Carta degli Stati Sardi del 1852 e in un punto conserva una lastricatura in ciottoli di fiume. A ulteriore riprova, al crocicchio sulla dorsale c'è un pilone votivo rifatto in anni recenti, ma riportato sulla già citata IGM del 1871, dove mi fermo a fare merenda, anche se è un po presto, perché erroneamente non prevedo di trovare altri punti buoni.

La sfera di Reano e la Pera dle Sacoce

Continuando in quota lungo la morena, transito accanto alla Sfera di Reano, le cui energie cosmiche sono amplificate dall'adiacente ripetitore per cellulari. Grassi si lamentava dei fitti alberi che ostacolavano l'arrampicata. Costeggio quindi dall'alto un vigneto: i cartelli lungo la principale strada di transito la qualificano come “Strada reale di vini torinesi”. Non conosco nessun vitigno prestigioso di questa zona, ma il Casalis annotava che qui la produzione era abbondante, come conferma la cartina di qualche decennio posteriore o il toponimo di Vigna nei pressi di Villarbasse. Per il resto, il paesaggio non doveva essere troppo diverso da oggi, perché parla di meliga, castagni e querce: legno e vino erano i principali prodotti smerciati nei dintorni. Oggi si sono aggiunte in gran copia le villette, con il risultato, riferitomi da un residente anni fa, che per la mancanza di sorgenti in estate l'acqua è scarsa. Tutto questo perché il terreno morenico è assai poroso e quindi in superficie resta poca acqua, per cui le colture diverse dal vigneto sono possibili solo nelle conche dove il vento accumula terra più compatta.
Proseguendo dritto, imbocco un sentiero confinale sulla cresta della valletta di Pra Basse, dove in passato c'erano mulini, oggi scomparsi. Ci trovo un copiosa fioritura di dente di cane, mentre più avanti nella stagione è l’anemone dei boschi a tappezzare il terreno. Un trattore sta rimuovendo dei tronchi abbattuti dai boscaioli. Giunto sotto una linea ad alta tensione, perdo un po' di tempo in vagabondaggi per trovare la Pera d'le Sacoce (Pietra delle tasche), perché devo aver sbagliato ad annotare le sue coordinate e dapprima lo cerco più in alto di quanto sia realmente. È un masso erratico, sul cui lato verticale verso valle ci sono cavità dette tafoni (termine in dialetto corso adoperato anche in inglese), simili a grosse coppelle molto incavate. Sono dovuti all'erosione chimica dell'acqua su alcuni minerali della prasinite (una pietra verde metamorfica), legati a fenomeni di cristallizzazione (il loro processo di formazione è dibattuto). In passato queste cavità hanno portato a ipotizzare che fossero usate da sacerdoti dell'epoca neolitica per deporvi offerte, generando un mito moderno: come le storie del Musiné a proposito della Pera Luvera, le masche della Sgaroira anche qui i massi sono ancora oggi in grado di generare miti capaci di attivare la fantasia delle persone. Pare che le meraviglie della natura siano percepite come «tristemente naturali», come chiosa l’anonima, e abbiano bisogno di essere associate storie dotate di senso umano, per essere apprezzate e difese.

Millennial centauri

Tornato sulla cresta, transito accanto a dei modesti resti di edifici, che erano anche stavolta di servizio ai vigneti sulla scoscesa ripa del Sangone, e quindi a un'edicola votiva di legno curata da cattolici molto tradizionalisti. Seguo il ripido toboga dei ciclisti (il sentiero tradizionale, ancora presente quando ero ragazzo, è un po' ostruito ed è scomparso del tutto nel prato sottostante), fino alla strada asfaltata tra Villarbasse e Sangano, nei pressi del Sangone. Tralascio una puntata, perché probabilmente non ha neppure un rivolo d'acqua, ma solo stagni putridi e maleodoranti. Alla mia sinistra c'è una valletta in parte prativa e in parte boschiva, che era uno scaricatore glaciale, ovvero dove il flusso di acqua di fusione fuoriusciva dalle porosità della morena. Una altro esempio in zona è il torrente Garosso nel villaggio Aurora di Rivalta, ma torrenti che fuoriescono dalle morene possono essere osservati qua e là sulle Alpi (un esempio accessibile è l'emissario del lago Chiaretto alle falde del Monviso).
Proseguendo sulla sterrata ai piedi della collina, transito accanto a una zona di captazione dell'acquedotto di Torino, che esisteva già un secolo fa, come risulta da un articolo di Sacco sulla collina. Tra ciclisti raggiungo lo sbocco dell'antica strada tra Villarbasse e Bruino, invisibile a chi non conosce il posto, in corrispondenza di un rio dove non ricordo di avere mai visto acqua. A differenza di quella per Sangano, non è stata adattata alle automobili, ma è rimasta stretta com'era, con qualche residuo di lastricato in ciottoli di fiume. Sarebbe interdetta alle moto, ma il divieto non è rispettato.
Una ragazza dai capelli corvini, seduta sul suo cavallo mezzo argentino e mezzo merens, sta chiacchierando con due ciclisti. Mi apposto dove la traccia varca il letto, per scattarle una foto mentre passa. Un materasso sbrecciato fa da fondale. Ogni volta mi domando chi mai abbia la voglia di andare in luoghi remoti a scaricare rifiuti domestici, quando basta telefonare al servizio apposito per farli passare sotto casa. Mentre la risposta soffia nel vento, transita la cavallerizza un po' imbarazzata dalle mie timide attenzioni (anche se avrà sui vent'anni le do del lei).
Prosegue quindi innanzi a me, cercando invano dal trattenere il cavallo dal fermarsi a brucare la scarsa erba verde e ascoltando della musica indicativamente new-age. In basso attraverso un bosco fitto, a monte di un tratto che conserva il lastricato in una zona recentemente disboscata. In cima, vado a fotografare un vigneto con lo sfondo del monte San Giorgio, mentre un'automobile fa dietrofront al cartello di divieto. Quando sono quasi di ritorno al campo sportivo di Villarbasse, sono accolto dal frastuono e dalla puzza emanate da due ragazzi, che fanno impennare e sgasare moto da cross. Un degno rientro dal mondo delle bellezze naturalistiche e dell'attività fisica ammanatata di misticismo di Grassi alla civiltà degli mutanti, incapaci di pensarsi senza un mezzo motorizzato anche per divertirsi.

Per approfondire

M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Bari 2018
P. Barillà - M. Blatto, Geologia e forme del paesaggio per escursionisti, Rimini 2007
F. Copiatti- A. De Giuli, “Sfregiarsi sulle pietre miracolose cercando grazie”: gli scivoli della fecondità, usanza femminile di origine preistorica, Domina et madonna: la figura femminile tra Ossola e Lago Maggiore dall'antichità all’ottocento, Mergozzo 1997
G.P. Cupia, Alpignano com'era, Torino 1970
M. J. De Charpentier, NOTICE Sur la cause probable du transport des blocs erratiques de la Suisse, Annales des Mines, 3a serie, Tomo VIII, 1835
P. Fiorno, Musiné. Una montagna di folklore, Torino 2023
G. C. Grassi, Sassismo spazio per la fantasia, Torino 1982
L. Motta-M. Motta, Erratic blocks: from protector beings to geosites to be protected, Geological Society London Special Publications - January 2007
L. Motta-M. Motta-O. Ferrero, Massi erratici, singolari testimonianze glaciali nel pasaggio piemontese, Torino 2013
M. Motta-L. Motta, Il ruolo dei massi erratici nella nascita della geomorfologia, Le rocce della scoperta, Genova 2009
San Massimo di Torino, Sermoni, Roma 1991
Traccia GPS dei massi erratici

Galleria fotografica

Il noce di Villarbasse
Il noce di Villarbasse
Pera Majana
Pera Majana


Primule
Primule
Pera Grossa
Pera Grossa
Cippo di confine
Cippo di confine
Pera Sgaroira
Pera Sgaroira
Erpice
Erpice
Arpiol
Arpiol
Bioclastismo
Bioclastismo
Pera Luvera
Pera Luvera
Pera dle Masche
Pera dle Masche
Lago Piccolo di Avigliana
Lago Piccolo di Avigliana
Massi del Moncuni
Massi del Moncuni
Strie glaciali
Strie glaciali
Pietra di Salomone
Pietra di Salomone
Crioclastismo
Crioclastismo
Dente di cane
Dente di cane
Reano - regione Nebiolo
Reano - regione Nebiolo
Pera dle Sacoce e anemone dei boschi
Pera dle Sacoce e anemone dei boschi

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