Alpe Fornalino 2114 m
Valle di Bognanco
6 luglio
In un baleno
Ho rimosso il ragionamento elaborato per giustificare la scelta dissennata, come quei traumatizzati da una violenza, che hanno rimosso l'evento, ma provano angoscia quando si evoca un dettaglio della scena. Nel nostro caso, questo dettaglio potrebbero senz'altro essere gli ontani
Diario di viaggio
Escursione ad anello indicata per abbreviare il soggiorno in Purgatorio, espiando già qui molte pene (in salita), lavorando quindi alacremente per raggiungerlo quanto prima (in discesa).
Risalita la val Bognanco, con i suoi alberghi in rovina, ricordo di una terminata stagione termale, raggiungiamo non senza tribolazione automobilistica una piazzola di una scassata sterrata a valle di Picciola, frazione che ci resterà invisibile per tutta l'escursione. Attraversiamo il torrente sul ponte pedonale e lo costeggiamo, tra fragoline di bosco mature. Rientrati sulla sterrata, che abbiamo evitato per restare nell'ombra del bosco, la seguiamo fino al suo termine, poco a valle dell'alpe Forno, nei pressi di una cascata. Il sentiero sale costeggiando un'altra cascata, attraversa una piccola alpe in rovina, per sbucare quindi nel grande prato dell'alpe Pezza Lunga, che sembra prendere il nome dalla sua forma a farfallino di Mercalli.
Raggiunte le baite, che sembrano restaurate in tempi ancora recenti, anche se non ci sono fatte di bestiame nel prato, seguiamo le tacche biancorosse a monte delle costruzioni. Dopo un breve lariceto rado, ultimo lembo del pascolo, ci portano nel fitto della faggeta buia e fresca. Il sentiero è evidente il minimo, sul suolo senza un filo d'erba, ma almeno è unico. Le tacche scompaiono, ma ogni tanto dei vecchi cartelli metallici ci ricordano che siamo sulla strada giusta. Uno di essi è stato nel frattempo in parte fagocitato dalla corteccia di un faggio in crescita. Raggiunta una spalla, ancora un breve tratto in faggeta e poi sbuchiamo in ambiente più aperto di ontani. Il pendio, stretto tra canaloni di slavina, è ripido quanto l'angolo di attrito lo consente a un costone terroso senza franare. Il sentiero lo affronta più o meno per la massima pendenza, senza accenni di tornante, restando sommerso nell'alneto. Aggiunto all'aria umida tipica di questi pendii nord cosparsi di ontani, che sguazzano nel fradicio ancor più di una rana, rende la salita una purga. La valle qui è molto stretta, perché anche il versante opposto sale più o meno allo stesso modo, solo con una vegetazione diversa a causa della opposta esposizione, formata stavolta da conifere, disposte in strisce verticali, separate dai glabri canaloni di slavina. Peraltro non è che vediamo un granché di panorama, perché gli ontani non fanno ombra ma occludono, la vista con i loro rami protesi mezzo metro sopra le nostre teste. Alcuni grandi larici di un'alpe dimenticata ci illudono fugacemente di poter accarezzare un paesaggio più gradevole. Una croce metallica in uno spiazzo, con un nome e una data di morte risalente agli Anni Venti del Novecento, ci lascia incerti sulla sua ragione (la stampa locale dell'epoca non viene in soccorso a illuminarci).
L'unica nota positiva di questa situazione è che il mio altimetro segna una quota di 200 m inferiore al reale, per ragioni che mi resteranno oscure, avendolo tarato all'alpe Pezza Lunga e con il tempo in peggioramento. Pertanto, quando raggiungiamo una spalla e ci affacciamo sull'alpe Fornalino, alla meraviglia per il paesaggio finalmente ameno si aggiunge il sollievo per la fine prematura della sofferenza. Il piccolo alpeggio è in una conca chiusa a valle da un dosso, su cui sorge la vecchia baita del pastore, restaurata con un tetto in lamiera anziché a piode e trasformata in bivacco dedicato all'esploratore Ambrogio Fogar, che era originario di qui e restò sempre legato alla valle e alla sua gente, fino alla morte. Invece a monte è chiuso dalle verticali pareti rocciose del Pizzo omonimo. Dal fondo della conca parte un poco invitante canale di sfasciumi, che culmina in un colle affacciato sulla valle Antrona, in corrispondenza di Cheggio e del lago artificiale, detto dell'Alpe Cavalli.
Ci dirigiamo verso il bivacco, tra qualche fioritura, tra cui spiccano alcuni vistosi gigli di san Giovanni. Nel pascolo sono ancora ben visibili le canalizzazioni per l'irrigazione e il lavaggio della stalla, oltre a basamenti di muri, che corrono in mezzo al prato, come a suddividere il già piccolo prato tra più proprietari. Lungo questi ci sono delle aperture a mo' di cancelletto. Il bivacco è rustico ma funzionale, con due sale al piano terra con attrezzatura da cucina, mentre al primo c'è una camerata con letti a castello, accessibile tramite una scala a pioli e una pesante botola di metallo. Non ho visto sorgenti nei dintorni.
Ci fermiamo a pranzare sulle panche di pietra affacciate a valle, alcune delle quali sono state incise con nomi di pastori e visitatori recenti. Il cielo, limpido al mattino, da quando siamo sbucati nell'alneto si è man mano popolato di nuvoloni e ora non filtra più il sole. Durante la pausa, ci viene il prurito di scendere dal sentiero diretto all'alpe Garione, indicato sulla cartina come difficile, che però ci abbrevierebbe il tratto purgoso, in quanto dall'alpe, più alta della Pezza Lunga, è poi buono (due di noi l'hanno già percorso e hanno anche conosciuto l'originale pastore, che alcuni anni fa è stato vittima di un servizio sensazionalistico di Striscia la Notizia). Ne vediamo chiaramente la traccia tra i rododendri proseguire in quota e raggiungere un costone, oltrepassato il quale dovrebbe precipitare sull'alpe. Poco dopo la partenza attraversa un ripido nevaio, dove non ci fidiamo a poggiare piede, memori di un incidente occorso a una nostra conoscente qualche anno fa, ma scorgiamo delle tracce per aggirarlo dal basso. A casa ci chiederemo come facevano a superarlo una volta, quando la neve persisteva sino a stagione inoltrata: a volte scavavano con le pale un passaggio nella neve per il bestiame. Mentre ci accingiamo a partire, un nuvolone più nero degli altri scarica un breve rovescio, che ci consiglia di cercare riparo sotto il tetto ancora per un quarto d'ora. Al termine ci mettiamo in moto, ma riprende quasi subito a gocciolare. Io mi limito a coprire lo zaino, mentre gli altri due indossano anche la mantella. Il sentiero non ha segnavia, ma la traccia è chiara. Ci affacciamo sul nevaio dall'alto di un costone, a una quota a cui si separa in due lingue. La base è molto più in basso di noi, per cui per prima cosa proviamo ad aggirarlo dall'alto, dove la fusione sembra aver lasciato un varco tra la testa e la parete soprastante. Due mamme camoscio con i rispettivi cuccioli si danno alla fuga, risalendo con qualche incertezza una parete bagnata. Ci portiamo a monte del nevaio, superando anche una piccola frana, ma a metà del guado ci rendiamo conto che non è possibile procedere oltre, perché il varco si chiude, né è possibile salire ancora, a causa di una parete rocciosa. Dall'alto vedo chiaramente una traccia che costeggia il nevaio in basso, dove ci sono una mamma capriolo con il cucciolo, che si allertano e si mettono al sicuro. Tornati sul costone, che è cespuglioso, riusciamo a trovare una traccia tra la fitta vegetazione, che ci consente di scendere, senza tornare al precedente canalino di slavina sgombro di vegetazione.
Quando arriviamo alla base del nevaio, anziché risalire per un ripido canalino erboso a recuperare il sentiero, ci mettiamo a seguire le marcate tracce di bestie che vanno nella direzione giusta, ma perdendo quota. Ho rimosso il ragionamento elaborato per giustificare la scelta dissennata, come quei traumatizzati da una violenza, che hanno rimosso l'evento, ma provano angoscia quando si evoca un dettaglio della scena. Nel nostro caso, questo dettaglio potrebbero senz'altro essere gli ontani o meglio i loro rami penduli sul terreno, che mi abbrancano lo zaino alle spalle come zombi di Romero, quando mi chino per superarli. Infatti cominciamo una ripida discesa, cercando a più riprese la traccia più marcata, dove comunque questi cespugli, che si piegano sotto il peso della neve e fanno sparire i sentieri, invadono continuamente la via, costringendoci ripetutamente a posizioni da yogi consumati.
Ad un certo punto, ci accorgiamo di essere isolati su un costone, che si fa facendo sempre più ripido, tra orridi impluvi di slavina, alcuni anche con nevai. A ovest vediamo una traccia più marcata, ma gli impluvi in quella direzione sembrano inaccessibili, per cui proviamo a analizzare quelli a est, verso l'alpe Garione, nella cui direzione vediamo un allettante lariceto, dove sarebbe senz'altro più agevole muoversi. Nel primo c'è un ripido nevaio, per cui inizialmente continuiamo a calare di quota. È da queste parti che dobbiamo aver pensato in muta sintonia che saremmo finiti in un posto da cui non avremmo più saputo andare né su né giù, costretti a chiamare il Soccorso Alpino e a beneficiare ignominosamente dell'assicurazione CAI, per non dover pagare la chiamata improvvida. Finiamo con l'intercettare una traccia, che supera il canalone proprio alla base della lingua di neve. A questo ne segue un'infinità di ordine almeno ℝ, tutti superati con la medesima tecnica. Vediamo intanto altri caprioli, che si danno prontamente alla fuga. Ad un certo punto finiamo in un prato meno invaso, dove confluiamo su una traccia più marcata, lungo cui giacciono ossa prontamente o ottimisticamente identificate come di bovino. Qualcuno si convince allora illusoriamente che siamo sul sentiero diretto all'alpe Garione, nonostante la carta lo riporti molto più in alto, ma il sogno dura poco. Vediamo in basso l'alpe Pezza Lunga, ma per raggiungerla dovremmo oltrepassare di nuovo tutti gli impluvi. Intanto il terreno è divenuto più erboso, con bosco rado e finalmente raggiungiamo una traccia che taglia in quota e ci conduce dentro la sgombra faggeta. Abbiamo intanto preso un paio di temporali, visto fulmini per fortuna a distanza di sicurezza e anche la magnifica luce che compare quando schiarisce dopo un acquazzone. Qualcuno ha indossato la manetlla e fatto la sauna, altri la maglietta, tanto l'acqua piovana si vaporizzava al contatto con la nostra pelle come fosse una colata lavica.
La tensione fra di noi nel frattempo è salita e gli screzi si fanno più continui. Raggiunta una radura, io che sono stato in coda a soffrire passivamente, aggrappandomi all'abilità degli altri nel trovare vie di fuga, ho l'illuminazione di estrarre il cellulare per verificare sul GPS dove siamo. Avevo già notato all'alpe Fornalino che OpenStreetMap riportava il solo sentiero di salita, ma per fortuna nella mappa c'è anche la radura dell'alpe Garione. Confrontando la sua mappa con la cartina, riesco a capire che non dobbiamo essere tanto lontani dal sentiero che scende da quest'alpe. Decidiamo allora di procedere verso di lui, e una manciata di minuti dopo vediamo una tacca biancorossa su un albero. Neanche stavolta ci intitoleranno un rifugio.
La discesa procede ora gradualmente nella faggeta, in una luce frontale magnifica. Arrivati a un alpeggio non riportato sulla carta, lasciamo il sentiero segnalato, che fa un giro più lungo, tagliando per prati fino alle baite, dove intercettiamo una pista erbosa, che il pastore aveva indicato l'altra volta ai miei due amici. Seguiamo per un tratto una conduttura dell'acqua e troviamo quindi un ampio sentiero non segnalato, che scende a ripidi tornanti. Arriviamo all'alpe Forno mentre il sole sta per sparire dietro ai monti. Metà del tetto a piode della baita è crollato ed è stato sostituito da un telone. Scesi alla pista di stamattina, beviamo la poca acqua rimasta e mangiamo le ciliegie che avevo tenuto in serbo. Stavolta seguiamo sempre la pista, che ci fa superare il torrente in un passaggio lastricato di massi, su cui scorre uno spesso velo d'acqua: dobbiamo mettere gli scarponi a mollo, nell'assenza di sassi sopra il pelo d'acqua. Per fortuna nessuno di noi indossa scarpe basse.