Il sentiero della giadeitite
Valle Po
27 agosto
In un baleno
Visto che non esiste una vera meta in grado di identificare l'anello, ho scelto il nome prendendo spunto dall'attività estrattiva di una pregiata pietra per asce, che nel Neolitico avveniva nel vallone Bulè. Un giro lineare, ma che si presta a innumerevoli divagazioni narrative. E ho pure visto lo spettro di Brocken
Diario di viaggio
Anello nell'estremità sud-occidentale della valle Po, nel comune di Oncino. Si sale e scende in un ambiente completamente privo di alberi, che già a quota 1600 m scompaiono del tutto, analogamente ad altre zone circostanti, formate di montagne dai fianchi prevalentemente erbosi fin dalle quote medie. Annotava il Casalis che «i prodotti territoriali […] non bastano che per sei mesi dell'anno ai bisogni dei terrazzani, i quali suppliscono a quanto loro manca esercitando con amore la pastorizia», e che pertanto «le vacche e le pecore sono il bestiame di cui abbonda il paese. Vi scarseggia il selvaggiume», a indicare la diffusa antropizzazione. La destinazione a pascolo continua ancora oggi: ho incontrato molte vacche, fino a quota 2700 m, e anche qualche loro pastore. Tra i selvatici le marmotte beneficiano più di tutti di questo tipo di sfruttamento del territorio: i loro fischi mi hanno accompagnato lungo tutto il tragitto. Come in molti altri posti di montagna, gli abitanti integravano il reddito praticando un mestiere errante, i pettinatori di canapa, «per cui la metà della popolazione passa lunge dal luogo natio i mesi di ottobre e novembre». Nella parte più alta si descrive un lungo traverso su un bel sentiero, forse di origine militare (non sono riuscito a reperire notizie in merito tra le mie solite fonti, forse dovrei iniziare a rabastare anche tra gli archivi militari), attraverso un ambiente modellato dai ghiacci pleistocenici ai piedi del gruppo delle Lobbie, il tremila più meridionale della catena del Monviso e ultima cima rocciosa prima del bosco dell'Alevè.
Visto che non esiste una vera meta da conquistare, in grado di identificare univocamente l'anello, come impone la convenzione alpinistica dei nomi alle escursioni, ho scelto il nome prendendo spunto dall'attività estrattiva di pietre per asce, che avveniva nel vallone Bulè tra il colle di Lu e Punta Rasciassa. La giadeitite è una pietra verde, o ofiolitica se volete tirarvela (si chiamano così perché le loro tonalità verdi ricordano quelle dei serpenti, οϕϵως in greco antico). Queste rocce si sono originate dalla lava alcalina del fondale di un oceano oggi scomparso, sia eruttata che solidificata nel sottosuolo, successivamente sottoposta a metamorfosi per effetto di tensioni meccaniche e temperature elevate, infine portata a 3000 e più metri dallo scontro tra le placche oceanica e africana, che hanno determinato il corrugamento della crosta terrestre e la nascita delle Alpi. Ci sono voluti secoli per arrivare a questa immaginifica interpretazione dell'intricatissima struttura geologica delle Alpi, con dettagli ancora inspiegati: è come tentare di ricostruire la dinamica di un tango dalle sole peste lasciate sul terreno alla fine della danza, senza poter vedere i ballerini in azione.
Nel Neolitico, nel V millennio a.C., vi fu un'intensa attività estrattiva: non si tratta di qualche caso isolato, in quanto sono state reperite migliaia di asce levigate in giro per l'Europa Occidentale, dalla Scozia alla Grecia. Purtroppo nel 2004 il sito di Punta Rasciassa è stato oggetto di rozzo sfruttamento commerciale, per via dell'alto valore economico di questa pietra sul mercato, che ne ha distrutto le testimonianze archeologiche. In base al confronto con le abitudine di popolazioni attuali della Nuova Guinea, gli archeologi hanno concluso che era adoperata per asce di pregio, per il corredo di individui di alto rango. Nel Neolitico era nata l'agricoltura e con essa la stratificazione sociale, che gli individui delle classi superiori, in attesa di ville con piscina e auto rosa di grossa cilindrata, marcavano con status-symbol come questi. Erano tanto più prestigiosi quanto più ci si allontanava dalle cave e quanto più erano sovradimensionati rispetto alle necessità pratiche: non servivano infatti per scopi concreti, per cui si utilizzavano invece materiali poveri reperiti in loco, che non erano scambiati sulle lunghe distanze. Questa identità di simboli del potere in un'area vasta ha fatto anche pensare alla condivisione di credenze e cultura tra popolazioni molto distanti. Credenze su cui, purtroppo, in assenza di documenti scritti possiamo solo fantasticare. Se desiderate vedere una di queste asce dal vivo, andate a fare una visita al museo archeologico di Finale Ligure, ad esempio, dove, se ricordo bene, la si poteva anche toccare.
Nel periodo di attività delle cave, i luoghi si presentavano quasi inaccessibili, in quanto erano ricoperti da una fitta foresta di abeti bianchi. Per noi italiani, che vediamo solo boschi culturali o semi-culturali, dove interviene l'uomo a gestirli o lo ha fatto fino a pochi decenni fa, è difficile immaginare come sia una foresta primordiale. Darwin, durante il suo viaggio con il Beagle, ne attraversò una nella Terra del Fuoco, per raggiungere la cima di una montagna, e descrive così il suo difficoltoso avanzare in questo ambiente: «Durante le prime due ore abbandonai ogni speranza di raggiungere la vetta. Il bosco era così fitto che bisognava usare continuamente la bussola, giacché, sebbene fossimo in una regione montuosa, non potevamo vedere alcun punto di riferimento. […] Nelle valli era appena possibile procedere, tanto erano barricate da grandi tronchi in putrefazione, caduti in ogni direzione. Quando passavamo su questi ponti naturali, sprofondavamo spesso nel legno fradicio e altre volte, quando cercavamo di appoggiarci a un tronco solido, ci meravigliavamo di trovare una massa decomposta, pronta a cadere al più leggero tocco.» Luoghi così inaccessibili, anche a giorni di marcia dai terreni agricoli, a volte segreti, erano sfruttati da individui con un alto livello di specializzazione, che creavano un gruppo ad accesso iniziatico, in grado di produrre asce inimitabili da altri. Un mondo perduto davvero intrigante.
Arrivo a Meire Dacant con un fibrillatorio viaggio in auto su una stradina con asfalto buono, ma larga appena come la mia Panda. Se avessi incrociato qualcuno, sarei stato obbligato a laboriose retromarce fino a una delle poche piazzole. Il parcheggio è quasi deserto, ma si va popolando. Mi trovo a monte di un avvallamento erboso, sovrastato da due bellissime pareti triangolari di quello che sembra calcare dalle tonalità dorate, dette Rocche Bianche. Dovrebbero però appartenere al massiccio Dora-Maira di rocce cristalline, formatesi per metamorfismo durante l'orogenesi delle Alpi, che fa da base al complesso ofiolitico del Monviso. Il calcare è invece una roccia sedimentaria, quindi magari sono piuttosto di marmo o qualcosa del genere. Queste rocce erano sul margine continentale, ma sono finite al di sotto delle rocce dei fondali oceanici per il processo di subduzione del continente europeo. O almeno mi sembra di aver compreso così: ogni volta che leggo un articolo sulla geologia e la formazione delle Alpi, alla seconda riga mi sono già smarrito in una colata alluvionale di orogenesi sovrapposte, falde avvinghiate e aggettivi extradizionarici. Incredibile quello che accade nelle viscere della Terra, su scale temporali che nemmeno possiamo afferrare con l'immaginazione, ma solo pazientemente decifrare con l'intelletto e decenni di studi di migliaia di scienziati. Quello che le metafore spesso prendono a simbolo dell'immutabilità si trasforma radicalmente, come una crisalide in farfalla nel corso di una notte.
Con un paio di tornanti della sterrata raggiungo l'edificio delle meire, una essenziale costruzione moderna in pietra. Meire, che deriva dal latino migrare, è il nome con cui attorno al Monviso sono chiamati gli insediamenti intermedi della transumanza stagionale, tra gli stanziamenti invernali e i pascoli estivi. Lascio in basso le indicazioni per il rifugio Alpetto e seguo una pista che rimane in cima a un dosso, segnalata da tacche biancorosse, tra continui fischi di marmotta. Compare il Monviso, illuminato da una luce frontale, che lo lascia senza ombre e consente pertanto di apprezzare i colori dei diversi strati di cui è composto, verdi, rossi o giallastri, a volte dovuti a rocce diverse, a volte a forme di alterazione chimica delle medesime rocce. La mattina è solatia, ma la foschia del caldo afoso nasconde completamente la pianura. È così densa che già la vicina dorsale con la val Varaita appare offuscata. Oltrepasso una canaletta, che preleva l'acqua da una zona rivolta a nord colonizzata da ontani e sorbi, chiaro segno di risorgive, e la conduce a prati esposti a sud verso Meire Bigoire.
Tagliando il pendio poco sotto un pianeggiante dosso erboso, arrivo alla Croce Bulè, posta in ricordo di una cattura e truce massacro di partigiani nell'aprile 1944. Ci trovo due adulti con un figlio adolescente, accompagnati da una bellissima cagna grigia, partiti poco prima di me. Ora si stanno facendo un servizio fotografico con una reflex Canon, a cui è avvitato un voluminoso superzoom, che il figlio definisce “cannone”. Quando se ne sono andati, fotografo la croce insieme alla parte bassa del vallone che risalirò e alla Cima delle Lobbie, che lo chiude alla sua testata. Sotto di me c'è un avvallamento in cui stanno pascolando vacche e vitelli di razza piemontese, mentre più in alto c'è un pendio colonizzato da ontani e sopra ancora uno sbarramento roccioso, oltre cui il vallone svolta a sud e risulta invisibile da qui.
Scendo verso il centro del vallone e incrocio una donna di mezza età e suo figlio, una copia perfetta l'uno dell'altra, entrambi segaligni e con il volto sbozzato a colpi di accetta. Li identifico subito come i pastori e chiedo loro notizie dei loro animali. Avrei anche una voglia matta di scattare loro un ritratto, ma non ho il coraggio di chiederlo e comunque non ho le giuste qualità relazionali per questo genere di fotografia. Scendo tra voli di rondine, passo oltre le vacche chiuse attorno al filo e raggiungo il bel torrente verde. La famiglia è impegnata in un altro servizio fotografico, stavolta sul ponticello di legno. Aspetto che concludano e poi attraverso anch'io, mentre loro proseguono a ritmo più sostenuto del mio.
Risalgo dei dossi cosparsi di ontani, tra erba più alta non brucata, per poi trovare fatte ed erba bassa: le vacche sono però in riva al torrente. Compare il pastore, un signore sulla sessantina dalla faccia e dal corpo sferici e rubicondi, che porta il vachè eletric arrotolato su una spalla, come una guida ottocentesca portava la corda e ci chiede la nostra meta. I due cani del pastore socializzano con la cagna della famiglia, che dev'essere felicissima, a giudicare da quante volte si rotola sulla schiena.
Il sentiero guadagna un passaggio tra una dorsale pietrosa e una sbarramento roccioso al centro del vallone. Supero un rio secondario su una passerella di massi piatti, proseguendo a fianco del torrente, che si è scavato un passaggio in uno sbarramento di detrito, non so se morenico o di falda, per poi raggiungere l'alpe Bulè serpeggiando tra dossi. L'alpe si trova in un pianoro, un lago interrato, dove il limpido rio scorre con meandri. Oggi, al termine di un'estate secca, contiene meno di un palmo d'acqua, ma coloro che lo attraversano a luglio, per salire verso Punta Murel, riferiscono che va guadato a piedi nudi, pena imbarcare acqua negli scarponi. Mi fermo per una pausa e sono raggiunto da un pastore, un nerboruto montanaro sulla cinquantina, che indossa una maglietta nera senza maniche come quella di Mauro Corona. Si dirige verso l'edificio dell'alpe, una moderna costruzione in pietra, dove lo accolgono festosi i maremmani, posti a guardia di un gregge di pecore, contenuto all'interno di un recinto di corda.
Dopo il pianoro la salita si fa più erta e il terreno più sassoso. Mi inoltro in una specie di canale, da cui esco su altri dossi sempre abbastanza rocciosi. Qui si è persa la tracciatura del sentiero e si va su per la diretta con scarsa traccia, ma molte tacche. Intanto la famiglia, che non si era fermata al piano, sembra spompata. Ritrovato il sentiero vero, qualche dosso più avanti sono in vista dell'intaglio del colle, marcato da una palina e posto tra la conica vetta pietrosa di Punta Rasciassa e una dorsale, che sale dolcemente verso i torrioni rocciosi di Punta delle Lobbie. I tempi indicati sulla palina per le prossime mete sono un po' sottostimati. Soffia un vento fresco e teso, per cui decido di cercare un posto più riparato per il pranzo. Stanno intanto risalendo delle nuvole da ambo i versanti, con quelle della val Varaita in lieve vantaggio.
Imbocco il sentiero diretto a ovest, che resta sulla dorsale ed è segnato da vecchie tacche arancioni, prima di lasciarla, separandomi dalla diramazione diretta al lago di Luca e, alla lunga, al bosco dell'Alevè. Noto subito che il sentiero è molto ben costruito: muretti a secco per sostenerlo, traccia evidente, pietraie ben livellate; più avanti vedrò delle bordature di pietre che mi fanno pensare a un sentiero militare, perché ne ho viste di analoghe altrove. D'altronde questa zona dall'alpe Bulè fin quasi al lago Gallarino non è di interesse per i pastori, perché troppo rocciosa. Attraverso infatti una zona cosparsa di lingue moreniche, su una specie di altopiano che magari era un circo glaciale, ai piedi delle pareti e dei canaloni di sfasciumi di Cima delle Lobbie.
È una delle pochissime cime secondarie del Monviso ad avere un nome dato dai montanari, anziché uno dei vari nomi patriottici e irredentisti inventati dal Valbusa a cavallo tra Otto e Novecento, per la gran quantità di cime secondarie che invece ne erano prive. Significa “balconi” e in effetti da Croce Bulè i torrioni secondari potevano sembrare tanti poggioli, mentre vista dalla dorsale Varaita-Maira non ha una morfologia che mi possa suggerire questo nome. È una tipica struttura dovuta alla fratturazione di rocce tenaci come le ofioliti. L'accesso per la via normale è considerato di difficoltà F (alpinistica facile).
Fu scalata la prima volta nel 1897 da un gruppo guidata da Carlo Ratti, uno dei pionieri dell'alpinismo senza guide, un alpinismo esplorativo e avventuroso, spesso partendo da scarne o nulle informazioni sulle salite da affrontare. Di solito scalò in compagnia di Cesare Fiorio, con cui compì numerose prime su cime delle Alpi Occidentali, abbondantemente illustrate con buono stile sui bollettini nazionali CAI di fine Ottocento. Questa scalata fu fatta in giornata da Casteldelfino, partendo alle 6 e rientrando alle 23,30 alla luce della lanterna. Era inizio aprile e c'era ancora moltissima neve sopra i 2000 metri. Il terzetto scalò per lo più dentro una fitta nebbia e quindi sotto una nevicata tramutatasi in pioggia alle quote inferiori. Vi partecipò anche Ercole Daniele, un ragazzo neanche ventenne le cui lunghe braccia vennero comode ai due compagni di cordata, per superare certi passaggi poco appigliati. Il ragazzo morì poi l'anno succesivo precipitando durante una salita solitaria sull'Orsiera. L'articolo di giornale che narra la sua triste fine è molto minuto nel descrivere come il suo corpo fu trovato orribilmente maciullato; mi ricorda i racconti di un ex membro del Soccorso Alpino, con cui condivisi un trek, il quale apparentemente non ne trovava mai uno integro.
L'ingegnere di Roma autore della relazione, il terzo membro della cordata, concludeva così:
«Coll'itinerario da noi qui sopra suggerito, la salita delle Lobbie diventa una comoda corsa domenicale, ossia di un giorno, da Torino. Partendo il sabato sera col penultimo o coll'ultimo treno per Saluzzo e noleggiando una vettura per Sampeyre (m. 980), non rimane che a superare un dislivello di 2000 metri, cioè assai meno che per certe vette di eguale o minore altezza in Val Susa. Calcolando 7 ore per la salita e 4 per la discesa, chi è un po' allenato e non perde tempo per via può comodamente far ritorno a Torino la sera della domenica, purchè giunga prima delle 16 a Sampeyre, ove trova a noleggiare una vettura per Venasca: quivi il tram lo riporta a Saluzzo.»
Insomma, giusto per sgranchirsi.
Le nuvole si aggirano meditabonde poco sotto di me, studiando un piano per il pomeriggio. Io intanto ne elaboro uno per la prima parte del pranzo, anche se siamo a un orario da ospizio, quando finisco su una spalla panoramica con un comodo sedile di pietra. Riesco a vedere il Monte Rosa sopra il mare spumoso, ma poi ne sono avvolto completamente. Mi proietta in un silenzio irreale, rotto solo dai fischi delle marmotte. Per fortuna ciò dura solo una mezz'ora, poi le nuvole tornano più in basso e manderanno al più innocui sbruffi di vapori.
Quando schiarisce, parto in salita incontrando subito un grosso cespo di Gentiana lutea fiorita. In un punto un po' invaso dai cespugli, prendo una traccia diretta nel nulla, ma ritrovo subito il sentiero, che è evidente. Puntando verso dei dossi montonati, passo da una conca dove c'è del veratro seccato. Sono queste alcune delle zone dove la velenosissima pianta si trova in natura, perché l'accumulo di detriti organici nella conca arricchisce di azoto il terreno e lo favorisce. Lo si trova poi molto più fitto negli alpeggi e lungo i loro scarichi, dove le deiezioni animali creano le condizioni migliori per la sua proliferazione.
Raggiungo i dossi montonati, dove mi affaccio su una grande conca erbosa, verso cui scendo. Passo nei pressi di un grande menhir posto in mezzo al sentiero, dove la tacca posta sul lato a valle mi prospetta un saltino di roccia, ma per fortuna c'è un passaggio pedonale tra il monolito e la parete. Nella conca erbosa trovo delle fatte di vacca, che, come scoprirò più avanti, sono salite dall'Alpetto e dal passo Gallarino, cioè la mia via di discesa. Noto anche delle canalizzazioni dei pastori, ma nessun edificio o resti di tale. Risalgo dei dossi erbosi e, oltre delle rocce montonate, finalmente vedo delle vacche e dei vitelli, nei pressi del lago Gallarino, che è decisamente sotto il livello abituale.
Ai bolli arancioni si sovrappongono delle tacche biancorosse, credo provenienti dal passo del Duc, uno stretto intaglio di sfasciumi accanto a Cima delle Lobbie, una via poco invitante per il bel vallone del Duc (i pastori chiamavano significativamente ruinere queste colate). Dove la traccia diventa meno evidente, passo tra un altro gruppo di vitelli, intenti a ruminare. Infine raggiungo il passo Gallarino, con un tratto di sentiero ben marcato che però è una scoriciatia che ha sostituito il vero tracciato, come mostrano le tacche arancioni. Questo colle è un'insellatura molto secondaria tra due valloni della valle Po, a differenza del vicino passo di san Chiaffredo che è invece il passaggio principale per l'alta val Varaita. Il colle di Luca era anch'esso secondario, poiché conduceva invece in una terra senza grandi centri, tra Sampeyre e Casteldelfino, più o meno dove correva il confine tra Piemonte e Castellata. Il colle principale tra Oncino e la bassa valle Varaita era invece il colle Cervetto, praticabile però solo nella bella stagione.
Sul lato da cui sono arrivato vedo un pianoro con dei minuscoli laghetti secchi, dove ci sono le vacche in mezzo a cui sono transitato, con dietro la fratturata catena delle Lobbie e delle Guglie, mentre lontano fa capolino l'Argentera. Sul lato opposto ho di fronte l'insellatura tra il Monviso e il Viso Mozzo, con il lago Grande di Viso e il rifugio Quintino Sella. Il monte che sbuca alle spalle della sella potrebbe essere il Granero. Le nuvole stanno lambendo il Viso Mozzo come ondate di una muta mareggiata, scagliandovisi contro da valle e svanendo in sbruffi di vapori. Lontano, sul filo delle nuvole, compare di nuovo il Rosa. Ci trovo un po' di gente, quali diretti a valle, quali al passo di san Chiaffredo. Mi fermo a consumare la seconda parte del pranzo.
Lascio il posto mentre si alza un forte vento. Il sentiero, che da qui e Meire Dacant è fittamente segnalato, scende regolarmente in un ambiente con scarna vegetazione, puntando verso una morena. Prima di raggiungerla, piego a destra al bivio e scendo per dossi montonati in ambiente più verde, verso un pianoro detto pian Gallarino, sbarrato da una grande morena. A metà pomeriggio c'è una bellissima luce sul Monviso, perché la sua direzione, ortogonale rispetto al mio angolo di visuale, evidenzia le rugosità delle pareti. Raggiungo il fondo del pianoro restando sulla destra, sotto grandi colate di massi. Oltre il pianoro entro in una serie di dossi morenici, mentre alle mie spalle le nuvole giocano a nascondere e svelare la catena tra punta Trento e punta Michelis.
Giunto sul ciglio dell'ultimo dosso, mi affaccio su un ripidissimo pendio, alla cui base c'è un pianoro erboso dove corre un trasparente rio diviso in vari rami. Alla sua destra, oltre un dosso, intravedo il lago dell'Alpetto, presso cui si trova l'omonimo rifugio. Scendo al piano, accolto da una marmotta fischiante e valico il dosso. Intanto le nuvole sono scese di quota, cosicché posso godere del bellissimo laghetto verde acqua, circondato da morbide ondulazioni verdi, con il muro delle nuvole a distanza di sicurezza. Prima di prendere un tè al rifugio, faccio un giro al museo, nella baita in cui si trovava il primo rifugio CAI, inaugurato nel 1866 e ristrutturato nel 1882. È formato da due locali: al piano terra una sala da pranzo, arredata con un tavolo e di cimeli d'epoca, mentre al piano superiore, formato da un tavolato di legno, c'è un pagliericcio. Il rifugio, affidato ai pastori dell'alpeggio, già nel 1904 risultava degradato e privo di arredi, per la scarsa frequentazione. Infatti, per salire al Monviso, era preferito il Quintino Sella, che allora si trovava nel vallone di Vallanta, lungo la via normale del Viso, nei pressi di una sorgente.
Al rifugio mi raccontano che quest'anno è stato molto magro, perché campano principalmente con gli stranieri (il rifugio si trova lungo il Giro del Viso e la GTA), ma ovviamente non si sono fatti vedere. Inoltre hanno una capienza ridotta, per mantenere le distanze; hanno provato a montare delle tende esterne su tavolati di legno, ma non tutti gradiscono. In compenso sono salite frotte di urtiresi, come chiamo coloro che la pandemia ha relegato alle passeggiate in montagna, dal primo alpeggio dove li ho incontrati. Da queste parti sono di una sottospecie che conservava dei vecchi scarponi in qualche antro della cantina, come cimelio di escursioni giovanili. Hanno scrollato polvere e ragnatele e sono perciò arrivate torme di gente con gli scarponi scollati: i gestori mi spiegano di essere disperati, perché hanno finito la colla e lo scotch è agli sgoccioli. Mentre non la smetto di ridere, mi raccontano di uno che, fattisi mummificare gli scarponi, non tornò subito indietro, ma proseguì in salita ancora per un tratto, per poi scendere più tardi. Il giorno dopo il gestore trovò brandelli di scotch lungo tutto il sentiero di accesso. Tra l'altro, tutta questa gente ha consumato i propri panini e non ha portato alcun incasso al rifugio, che però si rifarà ampiamente con il prezzo che mi carica per il tè con tre biscotti (hanno terminato la torta).
Scendo, passo il torrente su un ponte di lose e seguo il suo corso fino a un pianoro, dove pascolano delle vacche e una marmotta mi tiene d'occhio, per poi schizzare nella tana all'ultimo secondo. Sono intanto entrato nelle nuvole. Il torrente si inforra in una gola profonda dove fa un salto che posso solo immaginare. La nebbia infatti da lì in poi è impenetrabile. La luce che filtra dall'alto proietta la mia ombra sul mare di goccioline e questo mi permette di ammirare la gloria o spettro di Brocken, ovverosia l'aureola color arcobaleno attorno alle punte delle ombre poiettate sulla nebbia. Il fenomeno, ben conosciuto da molte culture, ciascuna delle quali ne forniva la sua interpretazione magica, prende di nome da una montagna tedesca, dove si verifica spesso. È citato anche in una poema di Coleridge, che si conclude proprio con l'immagine di un villano che non si accorge che il fenomeno è generato dalla propria ombra e lo venera. Dopo averlo rimirato, mi affretto a fotografarlo, «just in case someone thought they had missed it,
and to prove that it really existed», come cantavano i Kinks quasi sessant'anni fa a proposito della nostra mania di registrare tutta la nostra vita, che non è nata con Instagram.
La causa del fenomeno è chiaramente dovuta alla diffrazione della luce nelle gioccioline di acqua, analogamente a quanto capita con gli arcobaleni. Tuttavia la comprensione del modello, in grado di spiegare nei dettagli perché si forma, richiede conoscenze davvero avanzate di elettromagnetismo e la teoria vettoriale della diffrazione, sviluppata dal fisico tedesco Gustav Mie nel 1908, che tengono anche conto del fatto che le goccioline non sono puntiformi, come si postula nella teoria della diffrazione elementare che si studia nei corsi di fisica di base all'università. Bisogna inoltre fare riferimento a concetti esotici come le onde elettromagnetiche che si propagano sulla superficie di tali goccioline, anziché venerine riflesse, e costruirne una simulazione al calcolatore; per quest'ultima ragione su un mio libro molto bello degli Anni Cinquanta sui fenomeni ottici atmosferici era ancora considerato inspiegato. Allora era solo noto che l'intensità e la distribuzione dei colori dell'aureola dipendono dalla dimensione delle goccioline, come capita nel caso degli arcobaleni e delle corone solari.
Perdo quindi quota per un pendio molto ripido, non molto distante dal torrente che scende con cascatelle. Alle mie spalle ho le rocche del Gruppo dell'Alpetto, «le quali hanno veramente un aspetto imponente e meraviglioso; si sprigiona dall'alto di esse il rivo di Rocca Nera in mezzo ad una colossale spaccatura e si allarga in bella e profonda cascata: il sentiero la fiancheggia salendo di rocca in rocca per un venticinque minuti sino al culmine d'onde la vista del già ingrandito orizzonte compensa largamente quella salita». Così le descrive nel 1865 l'avvocato Sismondi, un appassionato della zona che promosse la costruzione del rifugio; io non posso aggiungere altro, perché la nebbia me le cela completamente.
Lascio quindi i pressi del torrente e percorro un lungo traverso discendente, al di sopra di una zona pietrosa, sempre su un pendio piuttosto ripido. Più sotto inizio a vedere un grande prato, sul fondo del vallone, da cui odo campanacci di vacche. Superata la zona impervia, scendo a zig-zag in un prato, senza però raggiungere il fondo della conca, ma riprendendo a traversare il pendio. Sono sceso sotto le nuvole e posso ora notare che la mandria, che qui ha brucato tutto, non è attorno al torrente, ma sul pendio opposto, in mezzo a prati verdi circondati da estesi alneti. Qui invece l'erba è più rinsecchita. Ad un certo punto trovo sul sentiero un orbettino, che aggiro mentre lui cerca di mettersi al sicuro un po' convulsamente e goffamente. Oltrepasso un abbeveratoio, alimentato da una canaletta proveniente dal torrente, alla cui altezza la valle compie un altro salto. Questi salti sono un tipica conseguenza dell'escavazione glaciale. Sono quasi sotto le bianche pareti rocciose viste stamattina dal parcheggio. Continuo a scendere, mentre le nubi si diradano e lasciano filtrare un po' di sole, in procinto si sparire dietro la catena del Monviso.
Su una passerella di legno supero il torrente, qui secco e molto infossato, e seguo una piccola dorsale, puntando verso Meire Dacant. Attraverso un grande piano erboso, baciato dalla luce del sole, non più filtrata dalle nubi, ma ormai in procinto di eclissarsi dietro i monti. Lascio la pista più grande, che risale verso gli edifici delle meire, in favore di un sentierino segnalato, che scende verso il torrente. Attraverso un boschetto di ontani e sorbi, quindi anche di aceri, e infine per un prato mi porto al parcheggio, dove sono rimaste solo tre auto, compresa la mia. La discesa in auto mi regala un'emozione supplementare, quando incrocio un mastodontico SUV scuro, che per fortuna individua subito una piazzola, dove entra sputando un sacco di particolato nero.
Per approfondire
- G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
- R. Mantovani, Monviso, Saluzzo 2016
- M. Minnaert, The nature of light and colour in the open air, New York 1954
- P. Petrequin et al., Beigua, Monviso e Valais. All'origine delle grandi asce levigate di origine alpina nell'Europa occidentale del V millennio, Rivista di Scienze Preistoriche 2005
- R. Mantovani, Monviso, Saluzzo 2016