Boschi e vigne di Loazzolo
Langa astigiana
19 novembre
In un baleno
Led Zeppelin, maniscalchi, vignaioli e lupi
Diario di viaggio
«Giovannet - raccontavano - sapeva che il libro del comando lo si poteva avere a Loazzolo, in un bosco, alle due dopo mezzanotte, dentro uno scao, un ciabòt di pietre di fiume. Bisognava entrare, adorare Satana e aspettare che arrivasse il demonio a portare il libro»Donato Bosca, Masche, Scarmagno 2012
Escursione in un ambiente misto di vigneto e bosco di collina. Il Casalis riferisce di una maggiore varietà di produzioni agricole, ma oggi, venuta meno la produzione di sussistenza, è rimasta solo quella per l'esportazione. Le stagioni migliori per effettuarlo sono la prima metà di novembre, con i colori autunnali e l'aria tersa, che lancia lo sguardo fin sulle cime delle Alpi, o maggio, durante la rigogliosa fioritura di orchidee. A metà ottobre la pro loco organizza una camminata lungo questo tracciato.
Il percorso parte dalla piazza grande di Loazzolo, dove sono stati ricavati un parcheggio e dei campi da bocce. In questa fresca mattina di novembre è deserta di auto e persone. Il tragitto è segnalato con cartelli e tacche blu. Inoltre, a ogni chilometro, sugli alberi o sui pali è appeso un foglio con una cartina sommaria e le distanze percorse dalla partenza e mancanti all'arrivo. Sui cartelli è raffigurato il muso di un lupo, perché il paese in origine si chiamava Lupatiolum, ovverosia zona di lupi. Dopo oltre un secolo di assenza, cancellati dalla pressione antropica che tutto fa proprio e annienta i competitori, sono tornati dall'Appennino dove si erano rifugiati. In valle Belbo nel 2016 era stato censito un branco stabile di 6 lupi. La loro vita è estremamente aspra, come testimoniato dall'alto ricambio tra i membri del branco. Muoiono per incidenti stradali, bracconaggio e attacchi di altri lupi: quando il loro numero aumenta al di sopra delle capacità del territorio di nutrirli, essi reagiscono emigrando oppure attaccandosi a vicenda. A loro favore, possono contare su una grande abbondanza di selvatici, di caprioli in particolare, che sono la loro preda preferita, in quanto riescono a cacciare anche gli adulti in buone condizioni fisiche. Anch'essi sono tornati qui negli anni Novanta del Novecento dopo essersi estinti. Sempre a proposito di origini, il paese non è sempre stato localizzato su questa dorsale, ma al principio della sua storia si trovava su uno sperone roccioso a nord-est del paese attuale. Del vecchio centro sono rimasti alcuni muri perimetrali, oggetto di indagini archeologiche negli anni Novanta del Novecento. Naturalmente in entrambi c'era un castello; i resti del secondo erano ancora visibili a metà Ottocento. Nel medioevo il castello non aveva solo ruolo militare, ma era centro di attrazione per la popolazione. Allora infatti non era in uso il modello di cascine sparse, che si sarebbe diffuso solo dal Seicento, ma la gente andava ad arroccarsi intorno a fortificazioni, che venivano edificate proprio con lo scopo di attrarre gente in un territorio. Siamo durante il Basso Medioevo, quando la colonizzazione umana si spinse verso zone prima selvagge. Solo un secolo prima l'imperatore Ottone I di Sassonia, attraversando queste zone, le definì «deserta langarum», dove naturalmente il deserto va inteso nel significato medievale, cioè di territorio non colonizzato dall'uomo. Questa carovana imperiale, che attraversa una zona popolata da lupi, linci e orsi, alla vana ricerca di qualche insediamento umano, sarebbe calzata benissimo in una canzone folk di III o IV, se solo Page e Plant avessero saputo delle Langhe.
Il percorso risale tra le case del paese e piega poi a est, per una sterrata che taglia il pendio in quota e supera una serie di impluvi. L'ambiente è quello del bosco, con prevalenza di querce, insieme a più rari ornielli, frassini, noci e pioppi bianchi. Una vegetazione tipicamente collinare. Alcune zone aperte sono occupate da macchie di bambù, una pianta di importazione, che mi domando quale effetto potrà avere sull'ecosistema e sulla fauna. Non so infatti se sia appetibile per gli animali e che effetto abbiano le sue dense colonie sulla loro mobilità. Altre zone più aride sono colonizzate dalle resistenti ginestre e da qualche rosa canina, che in questa stagione fa bella mostra delle sue bacche rosse. Nelle zone meglio esposte sono stati piantati dei vigneti, parte dei quali produce il Loazzolo DOC, un passito ottenuto da vitigni moscato di almeno 8 anni, esposti a sud o sud-ovest, su pendii sufficientemente ripidi. Si vendemmia tardivamente, ha un profumo di vaniglia e muschio e si abbina a formaggi e dolci. Costa anche più del Barolo. Il tratto di vigneto più bello è quello che si costeggia dall'alto, un po' prima di cascina Saracchi. In alcune zone intorno ai vigneti percepisco un chiaro aroma di mosto, come quello che impregnava la cantina di mio nonno in Valpolicella.
Ancora nei pressi del paese, sentiamo razzolare nel bosco sotto di noi un cinghiale; il mio amico riesce anche a intravederne la sagoma tra i rami del sottobosco. Tantissime saranno le orme di ungulati viste nel corso dell'escursione. Il terreno, dopo la timida pioggia di inizio novembre, che ha messo fine alla lunga siccità, nelle zone più solatie sembra ancora duro. Nelle zone più ombrose, invece, almeno in superficie si è formato uno strato umido e molliccio, dove spero sia ripresa la febbrile attività degli organismi che vivono nella lettiera. Se non siamo esperti naturalisti, noi umani ignoriamo del tutto che gran parte della vita non si sviluppa in superficie, dove viviamo noi, ma all'interno del terreno. Molte specie sono adattate ai periodi secchi e hanno sviluppato strategie per superarle andando in uno stato di quiescenza, in cui il metabolismo è come congelato, e fanno cose mirabolanti come sostituire le molecole d'acque con glicol etilenico. Le agognate piogge sono decisive per riportarli a svolgere il ruolo fondamentale per la fertilità degli ecosistemi da cui dipendiamo. I microrganismi che ne fanno parte formano un sistema così interconnesso, che non è possibile separarli da esso, ad esempio per studiarli in laboratorio, senza farne morire la maggior parte.
Tra le varie costruzioni costeggiate dalla strada mi ricordo soprattutto una casa bianca abbandonata, edificata ricavando una nicchia in un pendio ripido, ricoperto da un bosco fitto. Ho notato che, mentre le case antiche sono costruite soprattutto su dorsali, queste moderne si trovano anche in zone ombrose. Una localizzazione «senza senso», per il mio amico, che non ama gli abitati dispersi. Da un'imposta aperta si vede un bagno con ancora un accappatoio appeso al muro. Noto con dispiacere che incontriamo parecchie case tradizionali in rovina, mentre ne sono state edificate ex-novo altre con aspetto moderno. Peccato, perché a me l'arenaria marrone di Langa piace molto e denota la zona, mentre le case moderne sono del tutto apolidi, come i capannoni e i supermercati alla periferia di Canelli. Arriviamo al borgo Isolabella o Saracchi, prima del quale c'è una bella vista su Loazzolo contro lo sfondo delle Alpi Liguri. Il percorso sale a un dosso molto panoramico, tra vigne e un boschetto di pini. Già da tempo vediamo le torri di Vengore, Roccaverano e San Giorgio Scarampi spiccare sopra i dossi blu della valle Bormida di Millesimo. Queste torri avevano un ruolo nel controllo delle vie di commercio tra la costa e la pianura, che nel Medioevo e nell'Età Moderna passavano di qui, e oggi sono collettivamente conosciute come vie del sale, da una delle principali merci che vi transitava. La fisionomia di questi percorsi era assai complessa, per l'intrecciarsi di stazioni del dazio come di strade franche, in una geografia politica storicamente stratificata. Il sistema resistette in altre forme per tutto l'antico regime, anche dopo l'unificazione sabauda. Vengore e Roccaverano si stagliano contro il cielo, mentre San Giorgio Scarampi sembra il faro di un promontorio proteso sulla valle. Da questo punto d'osservazione la si abbraccia nella sua profondità, dove va a sfumare nelle Alpi bianche di neve. Fa capolino il boschetto di abeti del Bric Puschera. Ci fermiamo un po' a rifocillarci e a contemplare la visione.
Inizia ora il tratto di crinale, da cui si gode una vista ad angolo giro sulle Alpi e gli Appennini. Le prime sono visibili solo fino alle Levanne, perché più a nord sono avvolte nel muro del föhn. Del secondo mi sembra di riconoscere il Beigua, anche se da questa distanza non riesco a scorgere le antenne per una conferma. D'altronde ricordo bene che dal Reixa si vede chiaramente il Bric Puschera, quindi è probabile che si veda anche questa dorsale. Lì oggi il tempo è decisamente meno favorevole ad un'escursione: si vedono infatti addensarsi nuvoloni. L'evenienza del resto non è rara, visto che si trova su una turbolenta linea di confine tra due climi diversi. La pianura invece è del tutto invisibile, nascosta da una spessa cappa marroncina di ossidi d'azoto.
Accanto al vigneto c'è un relitto di auto quasi storico, come testimoniato dall'estetica da boom economico e dalla presenza di un alberello al suo interno. Il tragitto alterna tratti di asfalto e altri di sterrata. Ad un certo punto, prima di una cascina, una secca deviazione porta a risalire la collina per la pendenza massima, accanto a un vigneto. Con il gran secco di questo periodo, il terreno è facilmente affrontabile, solo un po' polveroso, ma col viscido di un periodo di pioggia servirebbero quasi delle corde fisse d'alta quota o dei ramponi da fango. Arriviamo così in cima al Bric del Vento, dove c'è una stazione meteorologica della regione. C'è poi un vigneto protetto dal vento da una staccionata. Più avanti, all'imbocco di una sterrata presso una casetta, un'ordinanza del comune vieta la caccia nella zona adiacente al percorso, in occasione dell'annuale camminata organizzata dalla pro loco. È davvero surreale che debba intervenire l'autorità pubblica per una cosa tanto ovvia. E negli altri giorni, poi? Sparano a due passi dagli escursionisti? D'altra parte, ricordo di aver visto una domenica un cacciatore appostato lungo una passeggiata nei pressi di un santuario. In questo tratto sentiamo razzolare un cinghiale; con noi è al sicuro. Una discesa su asfalto ci porta quindi alla chiesa di Santa Libera, una cappella campestre di fine Seicento, costruita per un voto, dove ci fermiamo per il pranzo.
Facciamo appena in tempo a sistemarci, che arriva un piccolo gruppo CAI da Santo Stefano Belbo. Sono pochi, ma squarciano la quiete del bosco come un altoparlante degli arrotini o una citofonata dei Testimoni di Geova, nel silenzio della domenica mattina. Ci sono infatti alcuni del gruppo che parlano a macchinetta di escursioni passate e poi di non so cos'altro, perché spengo le orecchie non appena mi concentro abbastanza, da smettere di sentirli. Quando se ne andranno, sarà come se qualcuno avesse spento la radio e mi fermerò volentieri ancora dieci minuti per assaporare la pace della cappella in mezzo ai boschi. Per questo odio camminare con i gruppi. Cerchiamo qualche informazione sulla santa e in particolare la ragione dell'iconografia di lei con due neonati, ma ci perdiamo in un marasma di parti enagemellari, crocifisse barbute e matres matutae: la sua figura è infatti una commistione di personaggi e leggende di epoche diverse, dalla classicità al Medioevo. Purtroppo il libro di Cattabiani sui santi d'Italia non la nomina nemmeno.
Il sentiero prosegue in discesa attraverso il bosco della Luja, che il proprietario ha voluto trasformare in area protetta. È pregevole perché alterna zone affatto diverse per vegetazione e microclima, oltre che per una gran biodiversità di orchidee, apprezzabile da chi compie questo giro a maggio. Queste piantine dalla fioritura elegante sono un indicatore di buona salute dell'ecosistema. In questa zona sono infatti preservati ambienti che, nelle zone più antropizzate delle Langhe, sono stati sostituiti con monocolture o insediamenti. In una zona nei pressi del percorso devono essere in corso dei lavori di disboscamento, a giudicare dalle tracce di cingolati e dai residui di rami a bordo strada. L'incolto, oltre a fornire biodiversità e servizi ecologici alle coltivazioni, fin dal Medioevo è stato anche un terreno produttivo. I primi a sfruttarlo intensivamente furono i Longobardi, che erano più cacciatori-raccoglitori che contadini, ma per tutta la durata della civiltà contadina ebbe un ruolo centrale nell'economia e anche nella politica: era spesso infatti una zona franca di passaggio. Alcune piste percorse in questa zona devono essere tracciati antichi, e non solo piste di sfruttamento forestale, perché in alcune zone sono bordate da muri a secco. Sbuchiamo nuovamente in una zona di vigneti con vista su Loazzolo. Qui il sentiero fa un giro ad anello, prima scendendo verso una zona molto panoramica sulla valle Bormida, con Roccaverano e Vengore finalmente baciati dal sole, quindi passando accanto a un fienile in arenaria di Langa e risalendo infine nuovamente nel bosco della Luja.
Proseguiamo quindi in quota, verso una zona ombrosa, dove si farà sentire il freddo della sera incipiente. In direzione opposta a noi arrivano due enormi fuoristrada di cacciatori, con abbastanza spazio per almeno otto cinghiali, che ci fanno respirare i loro scarichi puzzolenti. Raramente vedo cacciatori in luoghi lontani dalle auto, soprattutto i giovani. Noi che giriamo a piedi per queste colline siamo degli antiquati. Oltre che i piedi, i mezzi motorizzati hanno mandato in pensione buoi e cavalli. A Quartino, frazione di Loazzolo lungo la Bormida e la strada principale, ha operato Giuseppe «Pinin» Garbarino, uno degli ultimi maniscalchi della Langa. Il suo lavoro, che una volta era molto diffuso e ricercato, è infatti morto con l'ultimo dopoguerra, quando i camion hanno sostituito i cavalli e i trattori i buoi. Era detto il «mago dei cavalli», famoso per la sua capacità di rabbonire gli animali più riottosi, e sapeva forgiarsi da solo chiodi e ferri. Andò in pensione di malavoglia negli anni Cinquanta, insieme ai cavalli. Si vedeva come l'ultimo dei Mohicani e sognava per sé un monumento fatto con tutti i ferri che aveva applicato nel corso della sua vita (aveva lavorato da 14 a oltre 70 anni). Suo figlio Aldo continuò il suo mestiere ancora fino agli anni Novanta, seppure su scala molto più ridotta, perché ormai si andava a cavallo solo per passione e non più per necessità: erano finiti i tempi in cui dovevano lavorare anche venti ore al giorno, per stare dietro alle commesse.
Compiendo un ampio semicerchio torniamo al sole e costeggiamo alcune case isolate. Facciamo merenda nei pressi della cappella di San Sebastiano, qui raffigurato in veste palestrata, secondo i modelli classicheggianti della kalokagathia. Purtroppo la chiesetta è in parte soffocata da case moderne. Aspettiamo il tramonto accompagnati dai latrati del cane della casa attigua. Oggi una pausa a godere i rumori della natura è fuori discussione: solo nei boschi siamo stati accompagnati dal cinguettio dei passeri o dal fruscio dei selvatici tra le foglie. Riprendiamo la marcia e in breve siamo di ritorno a Loazzolo, che stavolta raggiungiamo dal viale alberato dedicato ai caduti delle guerre, che sono tantissimi. L'ultimo sole sta illuminando il campanile della parrocchiale, dedicata a sant'Antonio Abate. Nello stesso deserto incontrato stamattina, ci cambiamo e riprendiamo la macchina per tornare a casa. Non so che sensazioni gli abbia lasciato questa gita, ma il mio compagno di viaggio una ha voglia matta di ficcarsi in un centro commerciale per gustare qualcuna delle loro porcherie. Mi chiederà anche un giro per le vetrine, come un DDR nel 1989.
Per approfondire
- G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
- F. Correggia, Sentieri di collina tra Monferrato e Langa astigiana, Torino 2014
- G. F., Desidera un monumento fatto di ferri da cavallo, La Stampa 18/08/1955
- Ti N., «Ai miei tempi, quando in Val Bormida non c'era il treno», La Stampa 09/08/1992
- E. Ragusa - A. Testore (a cura di), Tra Belbo e Bormida : luoghi e itinerari di un patrimonio culturale, Asti 2003
- R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
- S. Testore - G. Gallareto, Langa astigiana, Val Bormida, Acqui Terme 1999
- F. Correggia, Sentieri di collina tra Monferrato e Langa astigiana, Torino 2014