Vallone di Loo
Valle di Gressoney
8 luglio
In un baleno
Resto assorto ad ammirare la valle sotto di me, con una torbiera e più sotto l'alpeggio di Ober Loo. Da qua si vede bene la diversa conformazione della valle a destra, scavata a V dal torrente, da quella scavata a sinistra dal ghiacciaio, dal fondo molto più ampio e con un laghetto chiuso da dossi montonati, che potrebbe essere stata la base di un circo glaciale
Diario di viaggio
«Il più bel vallone dell'Alta Via 1 della Valle d'Aosta», lo definisce la mia guida. Certo l'autore è un po' di parte: da geologo non può che restare affascinato dai molteplici spunti geomorfologici della gita, ma effettivamente questo vallone mostra dei lati davvero singolari e una notevole bellezza in fatto di paesaggio. È una valle sospesa, una morfologia glaciale molto comune da queste parti. L'aspetto insolito è che, nella parte alta, torrente e ghiacciaio hanno scavato due solchi distinti, lasciando una cima isolata in mezzo al vallone.
Quasi alla testata, il sentiero fin lì unico si divide in tre rami, che portano a tre colli, affacciati sul tre valli distinte. Sono salito a tutti. Dovendo scegliere, il Maccagno è senz'altro il più panoramico.
Arrivo al bar scelto per un caffè cinque minuti prima dell'apertura ufficiale, ma con già qualche avventore, che sta cercando di far raffreddare il croissant esplosivo appena uscito dal microonde. L'accoglienza sembra un tantino valdostana, ma è solo perché la signora è indaffarata a preparare tre cappuccini. Dopo scambia volentieri qualche parola, che valica le barriere che entrambi frapponiamo alle relazioni interpersonali, lei da montanara chiusa, io da Ursus speleus urbano. Più avanti lungo la strada compare la mole severa della Testa Grigia, il miglior balcone panoramico sulla parete sud del Monte Rosa. Il punto di partenza sono le poche case di Steina, una frazione di Gressoney St. Jean così insignificante da non meritare nemmeno un cartello con il nome. Lascio l'auto accanto ai giochi bimbi e valico il ponte sul Lys, dove trovo le paline gialle, che indicano le mete possibili. Una stradina e una mulattiera selciata mi portano alla chiesetta di Loomatten, slanciata e dipinta. Seguo i segnavia tra le case, alcune con architettura Walser, dove conto di trovare una fonte per cambiare l'acqua di città. Il successo mi arride ai margini della borgata.
Sulla bella mulattiera, lastricata e più su anche gradinata, ci sono della fatte secche di vacca. Prende quota prima tra degli aceri, alcuni dei quali monumentali, poi in un bosco misto di larici e abeti rossi. Esposto ad ovest, resto all'ombra nell'aria fresca ma umida. Un ru che arriva da valle della mulattiera si infila al di sotto. Probabilmente è questa l'acqua che ho bevuto poco fa. Costeggio un grande masso, sulla cui parete verticale vegetano dei licheni viola. Su un ponte di legno la mulattiera supera una cascata del Loobach, dove il torrente rimbalza spumeggiando tra grossi massi levigati. Compaiono dei maggiociondoli fioriti, che mi terranno compagnia fino all'imbocco della valle sospesa. Sedotto della bellezza della fioritura, non resisto alla tentazione di una foto languida a una rosa canina, con tanto di mulattiera sfocata. Ad ogni modo la cestinerò a casa.
Superato un ru in disuso, diretto in quota verso sud, la mulattiera raggiunge una grande pietraia, che si estende in alto fin quasi alla bastionata rocciosa che delimita la spalla glaciale. La attraversa con un tratto mirabilmente lastricato e poi la costeggia, salendo a stretti zig-zag, nella sottile striscia stretta contro l'incavo del torrente. Qui la vegetazione arborea è più rada e offre qualche scorcio sull'altro lato della valle, su un'alta montagna con grandi chiazze di neve sotto la cima.
Un tavolino con panche, tutto in pietra, mi suggerisce una pausa. Cessato lo sforzo della salita, l'aria si rivela non poco frizzante. Anche un fumatore deve aver aver apprezzato il punto, nei giorni scorsi. Poco a monte compare il cuneo scavato dal torrente allo sbocco del vallone. È molto stretto e profondo, perché gli gneiss di questa zona, appartenenti alla falda africana Sesia-Lanzo, sono molto resistenti e non sono crollati una volta incisi dall'acqua. Attraverso la stretta V, qualche lama di sole arriva a filtrare fino in basso. Passo accanto al torrente, che intuisco formare cascate e pozze. Ad un certo punto il sentiero si sdoppia brevemente. Sembra segnato quello di sopra, ma al ritorno vedrò che vanno bene entrambi. Lungo il ramo superiore, vedo per la prima volta in vita mia delle campanule cerulee, anche se magari il loro colore è un effetto dovuto alla strana luce ombrosa di questo sprofondo.
Il sole proprio in fronte è subito accecante, quando vado ad affacciarmi sui primi pascoli, sul ciglio della valle sospesa. Il pendio frastagliato alla mia sinistra è colpito da una bella luce radente, mentre la testata del vallone è formato da ombre blu, rischiarate dalla prospettiva aerea. Passato un ponte, trovo le prime costruzioni e un grande prato già brucato, che degli spruzzatori stanno innaffiando. Dalle baite si dipartono i ru di scarico, con il lavasse, come qui designano il Rumex alpinus, che vi cresce sui bordi. Passo poi a fianco di un baita con parabola e pannello solare, accanto alla quale c'è un crot per i formaggi, dentro cui ci sono due latte in plastica di quelle usate per la vernice. Oltrepassato un dosso tra i larici, arrivo a un altro gruppo di baite, Obro Loo, delimitate dal vachè eletric, come dalle mie parti chiamano il filo elettrificato per delimitare la zona di pascolo, che ha sostituito il lavoro dei bambini garzoni. Qui trovo prima un signore sulla sessantina con un ragazzo e quindi la moglie del primo con un bimbo sui 3-4 anni. Tutti e quattro mi sorridono e salutano, poi i cani mi abbaiano in ritardo. Questa zona della Valle d'Aosta, a causa della già citate rocce poco erodibili, presenta dei pascoli di piccole dimensioni, per cui tradizionalmente era una singola famiglia con il suo bestiame, a occupare un intero vallone. La cartolina più diffusa della valle sono invece i grandi pascoli e le grandi mandrie della valle interna, dove le rocce sono più sfaldabili. Là in genere un singolo pastore (o un gruppetto di pastori) prendeva in custodia il bestiame di molte famiglie e le conduceva tutte insieme all'alpeggio.
La mulattiera che attraversa questa zona di alpeggio è bordata da due muri a secco alti una cinquantina di centimetri. I vitelli da carne vi stanno brucando accanto. Vedo anche qualche mucca con le mammelle cariche di latte. A monte della zona brucata compaiono delle lussureggianti fioriture, che provo a fotografare senza gran cura né fortuna. Attraverso poi la parte meno bella di tutta gita, una zona di valle stretta con radi larici e qualche ontano alternati a piccoli prati. Ad un certo punto, il sentiero è attraversato da due lunghissime colate detritiche provenienti dalle pareti di roccia, che si trovano molto più in alto del sentiero. In corrispondenza dei colatoi la mulattiera è andata distrutta, sostituita da una traccia sassosa. Supero delle baite poste oltre il torrente e arrivo in vista di Ober Loo, l'ultimo alpeggio della valle. Noto che è stato costruito sopra un dosso e che i fianchi del vallone sono molto ripidi; ne deduco che la posizione serviva a proteggerlo dalle valanghe. Non ho finito di fare questi ragionamenti, che in un fosso sulla sinistra del sentiero noto un catasta di neve slavinata, mezza coperta di terriccio, come se venisse da una valanga di fondo. Un uccello che intravvedo appena fugge da dietro un masso, emettendo una specie di schiocco. In precedenza avevo visto fuggire quei passeriformi di montagna con la coda a strisce nere e bianche. Al dosso si accede con un ponticello di tubi sul torrente, da cui si vede in lontananza il Monte Bianco sbucare da sopra un colle.
All'alpeggio mi fermo all'ombra della chiesa di San Lorenzo, sulla cui facciata è dipinto l'anno 1682. All'ombra fa così freddo che la mia scrittura sul notes sarà quasi illeggibile per il tremolio. Al sole fa invece parecchio più caldo. Mi cospargo di crema solare e indosso gli occhiali scuri. Mentre sbocconcello un frutto sento dei fischi di marmotte. Su una baita ristrutturata c'è una targa in legno con il nome di Martino e una data di quattro anni fa, forse per la nascita del bambino visto prima.
A monte delle baite c'è ancora un tratto lastricato a gradini, invaso da vegetazione nitrofila, e poi il tracciato diventa sentiero. Attraverso dei dossi erbosi con un'estesissima fioritura di pelosella e trifoglio alpino, giallo rosso nel prato verde, oltre che di qualche cespuglio di rododendro sparso. Arrivo ai piedi del lato roccioso del monte Kick, quello esposto a valle, lo aggiro e sono sul lato erboso a monte. Qui termina la fioritura, ma continuano i dossi, che diventano quasi pianeggianti. Le conche sono un po' fangose. L'erba è verde, ma bassa come se fosse stata brucata da un'orda di capre. Arrivo su un nevaio, che termina con un salto ripido, da cui scendo con una mezza derapata. Arrivo a una specie di obelisco, da cui si dipartono i tre sentieri che portano ai colli Maccagno, Loo, Lazouney. Vado per primo al colle di Loo, dove non sono mai stato. Le tacche gialle non sono abbondanti, la traccia assente, e mi trovo perciò a seguire degli ometti, che però mi sembrano puntare verso una pietraia. A sinistra il pendio mi sembra più accessibile; consultata la carta, vedo che il sentiero passa di là e lo vado a intercettare. Per dossi erbosi arrivo alla meta.
Al colle un cartello bianco e rosso piemontese avvisa della presenza dei pastori maremmano-abruzzesi e indica le regole di comportamento. La vista verso il Biellese è abbastanza limitata, mentre verso il Bianco si vede uno spuntone di roccia che potrebbe essere il Dente del Gigante, che da qui ha una forma meno canina che nelle cartoline canoniche. Mentre faccio queste considerazioni, mi viene in mente quell'amico che, indicando l'Argentera, commentò: «Certo che da qui il Monviso ha un aspetto diverso». Mi fermo a mangiare un panino. Arriva un signore accompagnato da una cagna bianca, che sembra un orsacchiotto di peluche, e mi chiede dov'è la Punta Tre Vescovi. Gli spiego che avrebbe dovuto puntare sul colle Lazouney e lui si dirige fuori sentiero verso quella direzione, scomparendo alle mie spalle. Non mi fermo molto e torno indietro, diretto al colle Maccagno, dove conto di fare una sosta più consistente. Intravedo dove la traccia attacca il pendio e vado verso quella direzione, ignorando il sentiero. la intercetto in corrispondenza del guado sul torrente e la seguo. Mi ricordavo che era ripida, per averla salita qualche anno fa percorrendo la GTA Walser, ma se me la fossi ricordata davvero bene, non so se l'avrei salita, con la prospettiva di doverla anche scendere. In qualche punto devo anche usare le mani. Un appiglio è su un grande affioramento di quarzo. Scende intanto di corsa un un grumo di ossa e nervi, a torso nudo e senza zaino. Verso il colle ci sono delle genziane di Koch (quelle a campanula).
In cima ci trovo un gruppetto intento a prendere il sole. Socializzo con loro quando vedo la fotografa del gruppo sistemare gli zaini a mo' di cavalletto per un autoscatto e mi offro volontario. Imbraccio la supezoom (42x, ciumbia) e poi visto che la foto le piace, si allarga e mi porta su un punto panoramico a valle per altre due. Visto che c'è, me ne chiede anche una con il cellulare, ma con il sole a picco sullo schermo non vedo che degli ectoplasmi. Sono saliti dalla val Vogna e sono arrivati prima di me, senza sembrare per nulla stanchi, per cui devono essere dei gran trottatori. La percorsi in discesa e mi ricordo che non si arrivava mai. Chiedo del pastore del Maccagno e mi dicono che non è ancora salito all'alpe omonima, ma è più in basso, con delle mucche neozelandesi pelose, che sembrano degli yak. L'alpe Maccagno è visibile dal passo, con le sue tre baite affacciate sul laghetto. In origine ero anche tentato di andarci, ma senza il pastore non ha molto senso. Alle sue spalle si vedono La Gnifetti e la Dufour, mentre dal Lyskamm verso ovest il Rosa è coperto da una nuvola, da cui sbuca poi la punta del Cervino. La conca qui sotto, con i laghetti, è incantevole. Quest'anno è caduta tantissima neve, ma il caldo delle ultime settimane l'ha fatta fondere quasi del tutto e sono rimasti solo piccoli nevai. Al colle c'è una chiazza di erba marrone, sopra cui la neve si deve essere appena sciolta. A monte ci sono invece delle rocce rossastre, tra cui crescono dei rododendri ora fioriti. Voltando le spalle, sotto c'è il pianoro di Loo, mentre dal Biellese stanno finalmente arrivando le canoniche nuvole. Al colle di Loo era quasi mezzogiorno e ancora non si vedevano. C'è sempre da preoccuparsi in questi casi, perché si ha l'impressione che sia stata infranta qualche regola universale della vita, come in un giorno senza liti condominiali. Qui invece è più soleggiato e non fa freddo neanche quando il sole è oscurato. Intanto il gruppetto è sceso e stanno arrivando alla spicciolata tre tedeschi della GTA. Sono moderatamente provati e hanno zaini davvero piccoli, per un trek itinerante. Quello che sembra il capo parla un italiano di sopravvivenza.
La discesa si rivela più facile del previsto, forse perché sono più fresco, dopo la lunga pausa in vetta. Spalle a monte, vedo bene i depositi morenici del ghiacciaio, da cui sono salito e che poi il torrente ha inciso profondamente, scavandosi la sua via. Attraverso il piano di Loo, che è fangoso, ma per fortuna non spietrato, per cui ci sono degli appoggi solidi. Nella torbiera sono cresciute delle genziane a cinque petali, che possono essere di varie specie che non so distinguere. All'obelisco è fermo un signore con un pizzetto ossigenato stretto e lungo. Attraverso un canale tra le rocce montonate e sono subito al passo, dove ci sono della bandiere di preghiera tibetane. Ricordo che sul libro di vetta delle vicina Tre Vescovi una signora si vantava di aver pregato con il Dalai Lama, dev'essere l'aria di qui. I Gemelli della Mologna sono quasi avvolti da una nube, mentre gli altopiani che sovrastano Niel sono un po' cupi per i nuvoloni biellesi. Il signore con il pizzetto giunge intanto alla guida dei tedeschi e indica loro il colle della Mologna Grande, dove saranno quasi alla meta di giornata, e li introduce alla meteorologia biellese.
Torno all'obelisco e rimonto il gradino del nevaio, senza difficoltà, perché la neve è così molle per il caldo, che sono scomparse le mie tracce del mattino; non ho perciò nessun problema a scalinarla piantando i piedi. Proseguo lungo i dossi erbosi e lascio il sentiero sulla sinistra, puntando al monte Kick. Lo risalgo per la parte sgombra da rododendri e ginepri e vado a sistemarmi sulla vetta, dove faccio merenda, conservando una pesca per il tavolino. Resto assorto ad ammirare la valle sotto di me, con una torbiera e più sotto l'alpeggio di Ober Loo. Da qua si vede bene la diversa conformazione della valle a destra, scavata a V dal torrente, da quella scavata a sinistra dal ghiacciaio, dal fondo molto più ampio e con un laghetto chiuso da dossi montonati. Da dietro la dorsale di sinistra vedo sbucare la montagna di stamattina e ora me ne chiedo il nome, ma sono troppo pigro per aprire la carta, così prendo solo l'azimut ripromettendomi di concludere il lavoro a casa. Intanto verso il Biellese è sempre più fosco, tanto che è livida la luce che illumina la testata del vallone; anche il Bianco è scomparso dentro i cumuli. Sta invece migliorando la luce sulle montagne vicine.
Torno sui miei passi e riprendo il sentiero. Provo di nuovo a fotografare le fioriture. Ora sole e ombra si alternano, consentendomi di riprendere anche i rododendri, che abbisognano di luce diffusa. Prima di Ober Loo noto dei muretti di cui non capisco la funzione. All'alpeggio trovo un signore venuto fin qui da Niel per salutare il pastore e restato con le pive nel sacco per non averlo trovato, perché il bestiame è ancora più in basso. Quest'anno la neve ha posticipato il calendario solito del'inarpamento. Riempio le borracce, perché i tre litri caricati al mattino sono quasi finiti. A valle noto della Pulsatilla fiorita, che mi era sfuggita in salita, mentre avevo notato e anche fotografato quella che ha già fruttificato. Resto di nuovo atterrito e sconcertato a contemplare le due colate detritiche e penso che forse sono recenti, se non hanno ancora rifatto un buon sentiero. I vitelli sono dov'erano al mattino, mentre la nonna e il bambino sono andati a giocare all'ombra dei larici.
Al ponte noto una roccia montonata mancata al mattino e imbocco quindi la variante bassa, che è meglio segnalata per chi scende. Riesco a individuare una traccia che va ad affacciarsi sulla gola del torrente. Allo sbocco verso valle mi raggiunge il rombo di una moto, nonostante sia 500 m più in alto della strada. L'inquinamento acustico è molto più fastidioso e penetrante degli altri. Fotografo la solita montagna con un maggiociondolo e penso che dovrei proprio scoprirne il nome: pertanto al tavolo tiro furi carta e bussola e scopro che si chiama Mont Nery (o Neryschthuare in titsch, il dialetto walser) ed è alta 3075 m. Mangiata la pesca, prenoto il locale di Gressoney dove andrò a mangiare la polenta concia: ci sta, oggi mi sono limitato a due panini con le verdure.
Scendo nell'ultima luce da sogno e riesco anche a fotografarla, nella pietraia e su un abete rosso. Noto che il ru, che finisce sotto il sentiero, parte dalla cascata del Loobach. Arrivo a Loomatten subito dopo che il sole se n'è andato, ma ha lasciato il suo tepore. Mi aspetta un arrivo bestiale tra un cane che viene ad annusare illuso il mio zaino vuoto, tacchini in libertà e una border collie che reclama delle coccole. Sono passate dodici ore dalla partenza: ho sfruttato bene l'intera giornata. A Gressoney la domenica sera è quieta: il cameriere dice che solo nei weekend e ad agosto c'è il pienone.