Tour di Punta Malta 2995 m
Vallone delle Giargiatte/Vallone del Duc
29 luglio
In un baleno
Valbusa, chi era costui?
Diario di viaggio
Cima «di nessun interesse alpinistico», sentenzia la mia guida Tamari coeva di Stairway to Heaven, ricevuta in eredità da un collega di mio padre con cui feci le prime escursioni da bambino. Su questo punto avrei da obiettare, dal momento che è scelta come rifugio diurno dagli stambecchi, alpinisti per indole e necessità e non per sfizio da sazi come noi, ma stiamo alle convenzioni bipedi. Si trova sulla dorsale che separa il vallone delle Giargiatte da quello del Duc, posti sul versante meridionale del Monviso, a monte del bosco dell'Alevè ed è perciò di notevole interesse escursionisitico, in quanto l'anello consente di visitare tutti questi ambienti. Il curioso nome non è una storpiatura creativa degli stati maggiori sardi, che non parlavano i dialetti occitani di queste montagne, per cui, durante la compilazione delle carte topografiche, inanellarono una rimarchevole serie di perle nell'italianizzazione dei nomi di luogo (la mia preferita resta il colle Beau Soleil divenuto Soleglio Bue). Si riferisce invece proprio all'isola mediterranea e le fu dato dal suo primo salitore ufficiale, il naturalista Ubaldo Valbusa (1872-1939), nel 1907.
Nella nota pubblicata sul bollettino CAI, non articola la scelta del nome, scrivendo sibillinamente che «non aveva nessun nome locale e cosi le ho messo quello, già preparato da tempo, omogeneo col resto della nomenclatura stabilita da me nella parte inesplorata del gruppo del Monviso». La maggior parte delle vette secondarie del Monviso non aveva nomi tradizionali, in quanto, per citare ancora le sue parole, «si sa che c'è una vetta somma, ma nomi speciali si usano solamente per le parti basse percorse dagli armenti o per i più bizzarri e vicini dossi rocciosi soprastanti ai pascoli: sono gli alpinisti e le guide che in questo nome di «Viso», vago ed indeterminato nella sua estensione come nel suo contenuto, hanno fatte tante distinzioni». Agli alpigiani interessavano i pascoli produttivi e non le inutili vette: a guidare la prima ascensione sul Monviso fu un figlio della Rivoluzione Industriale, di una cultura alloctona al mondo dei montanari, caso del resto comune a pressoché tutte le principali vette alpine. Tuttavia scorrendo una cartina o una guida alpinistica del gruppo, si può osservare che tali nomi rientrano in un paio di categorie correlate. La prima è quella delle glorie italiane: Dante, Roma, Venezia, Caprera (un riferimento a Garibaldi). La seconda è quella delle terre italiane irredente, con propositi assai ambiziosi: oltre alle prevedibili Trento e Trieste, compaiono anche Corsica, Ticino e appunto Malta. Il Valbusa fu infatti un fervente patriota, in sintonia con gli ideali del CAI, che sarebbe stato interventista alla vigilia della Grande Guerra e vedeva l'attività alpinistica come propedeutica alla guerra sulle Alpi: in occasione dell'inaugurazione della Sottosezione di Chieri, tenne «una conferenza di propaganda nella quale sarà illustrata l'opera del Club Alpino Italiano e le funzioni altamente patriottiche che l'anziano Sodalizio è chiamato a svolgere sulla inviolabile chiostra delle Alpi» (L'Arco, 31 marzo 1928).
In qualità di viaggiatore di montagne, il Valbusa fu un pioniere dello scialpinismo e aprì vie nuove nei più disparati gruppi, oltre a salire per primo alcune cime secondarie del Viso di semplice accesso come appunto questa. Fu un contemplativo, che riteneva necessario non viaggiare a testa bassa verso la meta per apprezzare l'ambiente circostante. Scriveva infatti: «né si potrà pretendere che un'ascensione fatta di galoppo alle calcagna della guida, che non commette il fallo d'un solo passo che possa allungare il cammino, frutti al ritorno reale conoscenza del monte visitato ed illustrazione oggettiva e chiara, che ad altri visitatori possa servire con sicurezza». Si fermava ad ammirare gli spettacoli inconsueti che la montagna e il cielo gli offrivano, anche cercando di elaborare spiegazioni originali, grazie alla sua formazione. Durante un crepuscolo in cui si trovava sul gruppo dell'Orsiera (da certi resoconti si deduce che amasse attardarsi sui monti e bivaccarvi), assistette per esempio al fenomeno dei raggi provenienti dalla parte opposta del sole, che io non ho mai avuto la sorte di ammirare. Sfortunatamente non riuscì spesso a fotografare questi fenomeni, nonostante sembra portasse abitualmente la fotocamera con sé, perché evidentemente le piccole fotocamere portatili di allora erano persino peggio di quella del mio cellulare scrauso, in condizioni di scarsa luce (quella volta mancava ancora una ventina d'anni alla nascita delle Leica).
Il Valbusa fu anche un socio molto attivo in diverse sezioni del Club Alpino Italiano, entrando quindi anche nel direttivo nazionale. A lui si deve la proposta (in un consiglio del 29 dicembre 1901) di spostare la sede del rifugio Quintino Sella nell'attuale posizione, presso il lago Grande di Viso, in modo da poterlo costruire sufficientemente spazioso da accogliere i sempre più numerosi alpinisti diretti al Monviso, e si interessò personalmente ai lavori, trascorrendo lunghi periodi al cantiere. Precedentemente il rifugio si trovava in una posizione più strategica lungo la via normale, ma anche più disagiata, su un piccolo spiazzo a circa 3000 m nei pressi di una sorgente nel vallone delle Forciolline, ed era in grado di accogliere al massimo 30 persone, contro i 100 del nuovo. Inoltre quest'ultimo era così all'avanguardia da avere i sifoni contro i cattivi odori negli scarichi, gli sciacquoni e le tazze (recenti novità del progresso) e addirittura un pavimento dei servizi in zinco lavabile, oltre mezzo secolo prima che la NASA introducesse l'HACCP per i suoi astronauti. Fu accompagnatore, anche di alpinismo giovanile. Quelle erano gite! Partenze con il treno delle 23.55, carovane di muli, banchetti omerici. Fu anche un promotore della segnatura dei sentieri con la vernice.
Nella vita feriale, conseguita la laurea in scienze naturali nel 1896, dopo una breve esperienza all'istituto botanico si dedicò all'insegnamento nelle scuole secondarie in giro per il Piemonte, mantenendo uno stretto dialogo con la realtà universitaria. Collaborò con l'orto botanico dell'università di Torino, raccogliendo erbe durante le sue escursioni in montagna, e si occupò poi del giardino botanico Allionia, che il CAI curò per qualche anno a inizio Novecento al Monte dei Cappuccini a Torino, oltre a contribuire alla creazione del giardino botanico Chanousia, al Piccolo San Bernardo. Nella Biblioteca Nazionale del CAI si trovano varie sue pubblicazioni scientifiche, principalmente su questioni geologiche e in misura minore botaniche. Era particolarmente orgoglioso della sua ipotesi sull'avanzata del ghiacciaio della Brenva, avvenuta negli Anni Venti in controtendenza all'andamento generale. Scrisse agili volumetti, con illustrazioni a colori e venduti a un prezzo accessibile, per diffondere la conoscenza della natura tra gli alpinisti, notoriamente più interessati alle proprie peripezie che all'ambiente attraversato. Nel 2018 gli è stata intitolata una piazza a Crissolo.
Lascio l'auto poco prima di Castello di Pontechianale, allo sbocco del sentiero da cui scenderò dal bosco dell'Alevè, e mi incammino sulla pista erbosa, che parte in corrispondenza di un pilone votivo dove sono raffigurati San Chiaffredo a cavallo e San Lorenzo con la graticola. Rimane nel bosco poco sotto la strada asfaltata, bordeggiata da grandi massi rotondi, passa accanto a una casa isolata, supera il torrente Vallanta su un ponte a schiena d'asino e risale verso Castello, la frazione di Pontechianale, dove si trova la diga completata nel 1942, che ha sommerso la borgata Chiesa. Prendo l'acqua alla fontana con botte e mi incammino sul sentiero diretto nel profondo vallone di Vallanta. Una targa su una casa ricorda la prima ascensione italiana sul Monviso, organizzata da Quintino Sella nel 1863, che ispirò la nascita del Club Alpino Italiano, sul modello di quelli sorti in nazioni più progredite. Un vecchio seduto su una sedia mi saluta e augura buona passeggiata. Il sentiero sale anche ripido, tra pascoli arborati con qualche latifoglia come frassini e aceri, che però lasciano ben presto spazio ai larici e ai pini cembri. Alle spalle ho la diga sovrastata dal rosso monte Pietralunga, su cui già comincia a gironzolare una nuvoletta. Passo a valle di un gruppo di baite diroccate, dove confluisce dal basso il sentiero che sale dal tornante della strada. L'ampio sentiero alterna rampe a parti pianeggianti, a volte a fianco del torrente, a volte più in alto. Il corso d'acqua è molto copioso e fragoroso, dove la pendenza del vallone aumenta e scorre con rapide e cascate. Sento dei campanacci da vacche poco sopra il sentiero, ma non riesco a vedere gli animali. Raggiungo una famiglia, il cui figlio più piccolo è trascinato a forza dal papà. Arrivo alle grange Gheit, una baita di cui resta solo la base del muro perimetrale. Un'asse di legno, su cui si sono accomodate due persone per mettere i piedi a mollo, consente di oltrepassare il torrente.
Entro così nel fitto della cembreta dell'Alevè. Il sentiero prende la direzione verso valle, restando più o meno in quota e alzandosi perciò rispetto al fondo del vallone. Questo mi immerge ben presto in un profondo silenzio di canti di passeriformi, scalfito a malapena dai campanacci delle vacche, dal sommesso scroscio del torrente e da un canto stonato e sguaiato proveniente dal sentiero del vallone. Il sentiero prende poi a salire senza un tracciato univoco, per via dei tagli degli escursionisti. Raggiungo la radura di Plan Meyer, a cui margini ci sono alcuni cembri di ragguardevoli dimensioni. Al centro stanno invece pascolando e ruminando dei vitelli di razza piemontese con alcune vacche adulte. Questa specie di bovino non necessita di cani a protezione dai lupi, perché ha conservato una buona rusticità e, in caso di attacco, le vacche adulte si serrano in posizione di difesa, chiudendo in un cerchio i giovani vitelli. Da qui si dovrebbe vedere il Pelvo d'Elva, ma le nuvole l'hanno già inghiottito. Mi fermo per un pausa all'ombra, dove avvertirò una piacevole sensazione di freddo.
A monte del pianoro il terreno si fa subito più sassoso e il bosco più rado. Già avevo incrociato gente in tenuta da corsa che scendeva e qui ne vedo altra. Il sentiero sale a tornanti tra alberi sempre più radi, fino a sbucare in un grande circo, chiuso in alto da una morena, formato di massi e pietrame più piccolo, con pochi cembri sparpagliati. Le cime dei monti sono quasi tutte scomparse dentro le nuvole: restano visibili sono dei picchi rossi sulla sinistra. Rimonto la morena su ampio tracciato. Scendono un uomo e una donna in testa e coda di un gruppetto di adolescenti, quindi è la volta dei tedeschi della GTA. Arrivano in blocco, con solo pochi minuti a separare i primi dagli ultimi, come se fossero partiti da poco e si fossero allungati per il passo diverso. Le prime sono tre ragazze molto giovani e molto timide, quindi seguono della coppie di sessantenni. Ho intanto raggiunto la cima della morena e mi affaccio su un secondo circo, chiuso da pareti rocciose, da cui si vedono come via di fuga un passo sulla destra, al culmine di un pendio di sfasciumi, e un canale che si restringe come verso il vertice di un triangolo equilatero. La mulattiera rimonta il secondo, anche sorretta da muri a secco, tra numerose fioriture di una piantina con tanti e minuscoli fiorellini bianchi, che non sono riuscito a identificare con l'aiuto dei siti appositi. Supero intanto tre vecchi francesi. Raggiunta la sommità del canale, mi affaccio su una valle sospesa, ancora più pietrosa dell'ambiente precedente, al di sopra di un laghetto su cui si riflettono le pendici di Punta Dante. Il cielo è quasi tutto occupato da nubi, che però qui sono più alte e lasciano scoperte le cime. Sulla sinistra ci sono le Rocce Meano e in fondo alla valle Punta Trento, mentre sulla destra la mia Punta Malta. Tutte sono costituite da qualche isolotto di roccia tra colate di sfasciumi. Dopo un po' di incertezza, decido di fare un salto al vicino bivacco Bertoglio, costruito su un dosso affacciato sul salto verso valle valle, poco sopra il culmine del canalino risalito. Lascio il sentiero principale e seguo un'esile traccia, marcata da bolli bianchi e ometti, e in una manciata di minuti lo raggiungo. È essenziale, senza neanche un tavolo, ma con più spazio rispetto a quelli a botte: in nove ci si può stare. All'arrivo metto in fuga un giovane stambecco spelacchiato e impaurito dalla mia presenza, che ritornerà ben presto, ma si allontanerà ogni volta che mi affaccerò all'esterno. Assisto anche a una scarica di pietre da Rocce Meano, che dura una trentina di secondi; vedo un masso disintegrarsi contro le rocce in una nuvola di polvere. Il gruppo del Monviso è il posto dove ho assistito al maggior numero di scariche di pietre, anche se la frana più impressionante la vidi in Valpelline, di fronte al rifugio Nacamuli. Annoto l'esperienza sul quaderno del bivacco, prima di mangiare uno dei panini. La posizione del bivacco permette un'ampia vista verso valle, oggi in gran parte occupata dalle nuvole. Si è però sgrombrata la prima cima di quelle che separano il vallone dell Giargiatte da quello del Duc, Rocca Jarea, che accanto presenta un colle di sfasciumi che può servire come via di transito. Non so se fu per gioco, o forse per amore, che lo vollero chiamare colle del Ranco, ma la toponomastica mi sembra appropriata.
Con uno strato di più addosso, per l'aria che si è fatta fredda, torno sul sentiero principale. Al lago Bertin vedo qualche persona sulla riva intenta a prendersi il poco sole su un masso piatto. Queste sono le ultime che vedrò di qui lago Bagnour. Supero i dossi dove gli escursionisti hanno costruito centinaia o più di piccole steli di pietra. Nonostante i fili d'erba si possano contare sulla dita di una mano, sento dei fischi di marmotta. Arrivo a un ometto, da cui vedo dipartirsi un sentiero sulla destra. Dato che è la mia direzione, lo seguo, rimanendo parallelo al principale, solo qualche metro più a monte. Arrivato in corrispondenza del passo di San Chiaffredo, vedo una tacca biancorossa a L, indice che devo puntare decisamente in alto. Poco sotto, al passo, una palina indica di qui il vallone del Duc. Il colle è intitolato al santo della Legione Tebea più popolare nella valli del Monviso, a cui è dedicato un santuario a Crissolo e che si trova spesso raffigurato nei piloni votivi, come quello visto alla partenza. Scorrendo i nomi delle persone di una volta, come ad esempio nelle lapidi dei caduti in guerra, si vede che una volta qui molta gente portava il suo nome. Prendo a salire più decisamente seguendo delle scolorite tacche biancorosse e dei bolli arancio slavato, dapprima per detriti, poi su una traccia più individuabile, ma in ogni caso sempre ripidamente. Arranco non poco sul terreno un po' franoso, ma non mi ci vuole molto per arrivare al passo Calatà, punto culminante della gita, in contemporanea a un banco di nebbia, che poi per fortuna prende un'altra strada. È questo il momento della giornata in cui il cielo è più chiuso. Più che un passo, si tratta di una spalla; in effetti da sotto mi chiedevo perché ci fosse da salire, visto che c'erano dei passaggi più bassi ben visibili. Su punta Malta, poco più in alto troneggia uno stambecco adulto con due enormi corna, la presenza più adeguata per questo ambiente minimale di alta montagna, senza neanche un filo d'erba.
Di fronte a me ho un grande anfiteatro di sfasciumi, che si apre solo a valle verso una stretta fenditura. Ora mi ci devo ficcare, grazie al cielo su sentiero ben segnalato. Infatti scorgo in fretta un bollo arancio e quindi una tacca biancorossa, verso cui mi dirigo. Quasi subito compare una benedetta traccia evidente, che mi risparmia di chiedermi a ogni passo quale sia il posto meno instabile, su cui poggiare i piedi. Tra ameni sfasciumi e ilari detriti, privi di una qualche formazione di roccia che con la sua forma li valorizzi, trascorro i primi 300 m di discesa, muovendomi goffamente sotto lo sguardo dello stambecco, che valuta di non necessitare della consueta scarica di pietre per tenere alla larga il bipede. In vista di un piccolo ripiano erboso, arrivo finalmente a toccare della roccia solida e quindi l'erba. Mi fermo a finire i panini che ho con me, tra rapidi nuvoloni e poco sole.
Proseguo inoltrandomi in una stretta fenditura, dove mi affaccio a un pianoro erboso, chiuso a valle da rocce montonate, dove il vallone fa una brusca svolta. Il sentiero lo raggiunge aggirando sulla sinistra alcuni salti rocciosi. Lo attraverso seguendo le tacche, senza una vera traccia definita, e vado ad affacciarmi su un pendio di pietre ed erba più magra, dove compaiono i primi cembri, molto piccoli, poco più che cespugli: siamo oltre quota 2400 e per loro dev'essere davvero estremo. Noto inoltre che qui ci deve essere anche poca acqua, perché proliferano i cespugli di ginepro. Poco sotto sta pascolando un gregge di capre, senza pastori né cani: forse hanno valutato che questo vallone fosse troppo impervio per i lupi e le hanno lasciate senza custodia. Infatti a breve mi affaccio su un vasto piano interamente occupato da una grande morena, che ora mi accingo ad attraversare. Qui il sentiero si contorce su sé stesso come un intestino, alla ricerca del passaggio migliore. È talmente tortuoso che per la discesa mi impiegherò lo stesso tempo della salita, nonostante dalla cartina lo spostamento sembri più o meno uguale. Mi sembra davvero incredibile che i pastori abbiano attrezzato un passaggio, sistemando in parte la pietraia, per andare a sfruttare i ben miseri pascoli a monte, buoni al massimo per un mese all'anno. La morena parzialmente vegetata, bordata da pareti rocciose, esercita un notevole fascino su di me. Intanto i cembri sono diventati un tantino più alti e c'è anche lo scheletro di un esemplare rinsecchito, che doveva essere avere la sua imponenza, in questa zona di alberi nani. Compare anche qualche larice. Mi fermo continuamente alla ricerca di soggetti fotografici, non facili da trovare in questo ambiente caotico.
Quando ho superato la morena, mi fermo dieci minuti per bere, perché la fatica e il sole tornato nel cielo più sgombro mi hanno messo sete. Da qui l'ambiente si fa chiaramente più bucolico: gli alberi poco a poco si infittiscono, fino a diventare un vero bosco, compare la bassa vegetazione del sottobosco, le formiche prendono a girare freneticamente sul sentiero, una nocciolaia fugge alla mia comparsa e altre si fanno udire. Nel primo tratto noto dei bei picchi rocciosi sui fianchi, poi tutto il campo visivo si popola di alberi. È un vero peccato che sia molto difficile fotografare il bosco, perché qui è molto bello e ci sono anche degli alberi dalla forma e dalle dimensioni notevoli. Il vallone, che si era allargato consistentemente nel piano morenico, dopo essere stato angusto fino al piano prativo precedente, torna a serrarsi nuovamente tra ripidi e alti fianchi. Raggiungo il punto dove l'immissario del lago Bagnour sbuca in superficie, dopo essere scorso finora tra le porosità della morena. Proseguo accompagnato dal suo scorscio, dopo essere rimasto a lungo avvolto nel silenzio, interrotto solo dai campanacci della capre. Sono ormai in prossimità del lago, che vedo solo all'ultimo istante, a causa del fitto bosco. Raggiungo le sponde nel punto in cui arriva anche il sentiero proveniente dal lago Secco. Il lago Bagnour è davvero piccolino e dev'essere alto poco più di un palmo: qui il processo di interramento, destino comune di tutti i laghi, è quasi concluso. Ci trovo varia gente in costume, stesa sui prati ad abbronzarsi. Guado l'emissario sui sassi e vado a prendermi un tè con una fetta di torta al rifugio, dove la gestrice e la ragazza che li aiuta si stanno rilassando sulle panche del tavolato esterno. Noto che da qui il vallone disceso è invisibile, perché è molto stretto e sterza bruscamente poco più a monte. Due tedeschi hanno appena finito di consumare un piatto e stanno per pagare e andarsene. La cagnetta Dido, con la sua caratteristica espressione triste, viene a prendersi un po' di coccole da me. Arriva intanto un signore francese in divisa da escursionista con due ragazze, che indossano gli scarponi e un vestiario da scampagnata; hanno prenotato per stanotte. Mentre sto rabboccando la borraccia prima di partire, mi viene incontro un signore che mi chiede indicazioni per il Quintino Sella, per la tappa di domani. Sta facendo un trek tra i rifugi, con tappe molto tranquille. Lo indirizzo senz'altro sul vallone delle Giargiatte, decisamente più agevole di quello del Duc.
Proseguo poi nel bosco dell'Alevè sull'ampio sentiero diretto a Castello. La luce non è male, perché sono già le 18, per cui provo qualche scatto, prima che il sole scompaia dietro i nuvoloni che ancora avvolgono le cime (avevo l'intenzione di fermarmi un po' al rifugio, per scattare una bella foto serale al Pelvo d'Elva, ma tutta la dorsale verso la val Maira è avvolta da grossi nuvoloni, che sembrano voler persistere). Giro intorno a una baita, che serviva come base per gli abitanti di Villaretto, quando venivano stagionalmente a coltivare i cereali; immagino la segale, vista la quota. Passo accanto al curatissimo Grongios Martre e arrivo ad affacciarmi sul dosso panoramico, da cui si vede il lago di Pontechianale. Qui finalmente il cellulare prende, per cui posso chiamare il posto dove avevo mangiato meglio nel Valle Varaita Trekking del mese scorso, per chiedere se hanno posto a cena: fortunatamente hanno un tavolo libero, perché il resto della sala è occupato dai pensionanti. Un ottimo modo per concludere la gita. Solo quando esco, e sono le 21 passate, il cielo rosa è sgombro di nubi.