Lacs de Marinet 2533 m
Val Maira/Ubaye
12 agosto
In un baleno
Ma quante morene! E dire che di ghiacciaio è rimasto giusto un lembo. E poi laghi, picchi dolomitici e sentieri lastricati, a cavallo tra Maira e Ubaye
Diario di viaggio
Per una volta rispetto l'ortodossia e salgo in auto fin (quasi) dove è possibile, proseguendo oltre Chiappera, per la sterrata che corre ai piedi della Rocca Castello. Parcheggio in uno slarghetto prima di un ponte, dove mi sembra che ci sia un tratto più sconnesso. Se avessi insistito, ne avrei trovato uno comodo cinquanta metri oltre.
Proseguo lungo la sterrata, ignorando il sentiero per le grange Collet, da cui tornerò, fino a superare un tornante. Ammiro le cime dolomitiche intorno a me e verso valle, al punto da non accorgermi degli edifici con pilone votivo a monte della strada. Già da Saretto l'ambiente dolomitico si presentava grandioso, al punto che morivo dalla voglia di scendere dall'auto e proseguire a piedi, se non fossi stato troppo distante e in condominio con i mezzi motorizzati. Ancor prima, credo da San Damiano Macra o giù di lì, avevo visto il Chersogno tingersi di rosso. Poco più avanti arrivo al cartello al bivio per il vallone dell'Infernetto, che si rivelerà un po' arido ma molto erboso, lasciandomi il dubbio sulla ragione del nome. Il cartello pone il colle Ciaslaras a circa due ore, ma a pennarello è stato corretto in tre.
Il sentiero sale tra genziane maggiori fiorite, correndo accanto a un filo del bestiame. I vitelli sono un poco più in là, su un verde pendio. Passo ai piedi di poderose colate di detrito di falda, naturalmente di pietrisco piccolo, a causa della natura dolomitica delle cime. Alla mia sinistra una grande parete è uniformemente irradiata dai raggi solari, mentre sul fianco opposto tozzi torrioni sono illuminati di raso. Alle spalle Rocca Castello è in ombra.
Tra fischi di marmotte e volo di allerta delle ballerine bianche, oltrepasso un dosso morenico erboso e raggiungo una valletta pianeggiante con ardita cima multipla sullo sfondo: sembrano come decorazioni di panna in una torta di nozze (no, non ho già fame alle 9 del mattino, nonostante la colazione alle 4). Una delle sue vette fu intitolata da un suo compagno di scalate al primo salitore, Vittorio Sigismondi. Vi salì nel settembre 1908 e il giorno successivo effettuò anche la prima ascensione alla Rocca Castello. Torinese, fondatore del Club Alpino Accademico, fu un alpinista molto in vista del suo tempo; fu artefice di varie altre prime, anche senza guide, ad esempio sulla Bessanese e l'Argentera, vie che portano il suo nome. Morì cinquantenne nel 1933, mentre scendeva con le figlie dalla via normale della Cima Grande di Lavaredo.
Mi inoltro nella valletta, tagliando a mezzacosta un pendio che cala gradualmente sul fondo, da cui si diparte invece ripido il versante opposto. Dopo aver avvicinato delle marmotte grasse, raggiungo la base di un salto erboso, forse di una valletta sospesa o lo sbarramento morenico terminale della stessa. Il sentiero che lo risale è ben ripido, ma vari tagli escursionistici la prendono ancora più diretta. Da uno mi faccio ingannare, credo per distrazione, e lo seguo penando ancor più del necessario. Odio risalire le morene, anche se sono ben assestate, perché sono sempre ripide quanto lo consente l'angolo di riposo.
Arrivo al bivio per il colle dell'Infernetto, che porta nel grande circo di Stroppia. Vi vedo scendere degli escursionisti, che presumibilmente hanno pernottato al Barenghi. Faccio una pausa ammirando dall'alto un piccolo laghetto, sprofondato tra morene erbose; in alto c'è la cima artistica che prima ammiravo dal lato opposto. Non vedo immissari né emissari, come del resto non avevo visti rii in precedenza, ma spesso nel terreno morenico l'acqua scorre nascosta tra le porosità del terreno. Il caso più spettacolare che conosco è l'emissario sotterraneo del lago Chiaretto, ai piedi del Viso. Procedo in quota tra vari altri dossi, oltrepassando dei francesi appesi a una parete rocciosa, di cui riesco però solo a sentire le voci, senza vederli. Entro in un grande circo sbarrato in fondo da ripidi colatoi, in cima a uno dei quali c'è anche il mio colle. Sulla sinistra noto la zona di detriti scuri che dà il nome al passo delle Terre Nere, porta d'accesso al lago dei Nove Colori, ai piedi dell'Aiguille du Chmbeyron.
Proseguo ancora per un bel tratto per ondulazioni, fino a giungere ai piedi del colatoio. Normalmente tutti i pendii da lontano sembrano pareti, ma quando si arriva alla loro base, li si vede inclinarsi all'indietro in maniera rassicurante. Non è questo il caso: questo ripido era e ripido resta. Arrancoso, lo definirebbe Beppe Fenoglio: in certi punti, sul fondo ghiaioso sodo ma scivoloso, ho difficoltà a mantenere l'aderenza e tendo a derapare all'indietro. Non se la vostra liaison con i bastoncini sia tormentata più dell'amore per Lesbia, come capita a me, ma qui li ho voluttuosamente avvinghiati come in pochi altri posti, persino più che nei peggiori ghiaioni dolomitici. Il sentiero non è sempre molto segnalato (lo è di più dopo aver intercettato le tacche rossoblu del Roberto Cavallero), ma è sempre molto evidente e marcato. In un paio di punti, nella parte alta, mi sembra di capire che esistesse una mulattiera militare molto regolare, ma le intemperie e le frane sono stati più distruttivi che i talebani a Bamiyan: si va dritti per la massima pendenza tra detriti informi. Un tornante mai, per un'escursionista come i CAI, canterebbe Antonello Venditti. Sono partito abbastanza presto, per cui sono almeno premiato dall'ultimo scampolo di ombra, che allevia la fatica per un tratto.
Al colle Ciaslaras, a quasi 3000 m, trovo due zaini, i cui proprietari hanno fatto una puntata alla vetta, che secondo alcune carte supera di appena un metro i 3000. Sono diretti al passo delle Terre Nere e quindi, per la via normale del versante francese, alla Tête de l'Homme, che svetta subito qui sopra, per poi scendere via colle di Gippiera dal vallone di Stroppia. Per essere dei supereroi, hanno una certa fantasia e creatività nella scelta del percorso. Intanto sale alla spicciolata una manciata di francesi, diretti al bivacco Barenghi via colle dell'Infernetto. Un ragazzo parla italiano e chiede informazioni sul passo delle Terre Nere ai supereroi. Costoro saggiamente glielo sconsigliano, con gli zaini pesanti e senza imbragatura, per un passaggio in traverso molto esposto su cengia esilissima, la stessa che, vista su youtube, aveva dissuaso me dall'ideare un percorso per quella via. Il ragazzo e la fidanzata non hanno neppure i bastoncini, per cui finiranno a terra sin dai primi passi della mio sentiero di salita.
Osservando il versante francese, noto montagne molto secche e ghiaiose, come già mi era capitato altre volte in queste zone. Più in basso c'è la mia prossima meta, il lac de Marinet, una goccia di lapislazzuli incastonata tra rocce vivacemente colorate. Verso nord ci sono invece i laghi di Roure, dai colori e dal contesto meno appariscenti, che ho una mezza intenzione di andare a visitare, con una puntata fuori sentiero.
Il primo tratto di discesa è altrettanto ripido e scivoloso che la salita e mi richiede accortezza, anche per seguire il percorso principale e non i vari tagli ancor più ripidi e franosi. Il fondo è meno compatto e devo anche prestare attenzione a non scaricare pietrisco in basso. Il tratto insidioso è comunque breve, non più di un quarto d'ora, perché poi calo sul fondo di una conca pietrosa, da cui procedo agevolmente in saliscendi, tra nevai residui, incrociando un po' di gente.
Al colle Marinet, al confine con la Francia, mi affaccio su una valle molto bella. Con un traverso molto lungo tra pietre dai colori accesi, costeggio dall'alto un imponente apparato morenico recente, della Piccola Era Glaciale, privo di vegetazione e probabilmente assai poco assestato. Continuando a intersecare non poca gente, giungo ad affacciarmi sul dosso con la miglior vista sul lac de Marinet, che con il suo blu spicca tra i colori caldi delle rocce circostanti. Su un pendio erboso accanto pascola un gregge di pecore, guardato da maremmani. Più lontano c'è un secondo lago, più piccolo e di colore verde pallido.
Scendo sulle sponde e vado a buttare l'occhio al bivacco in pietra e malta, davvero molto rustico: l'elenco delle attrezzature mancanti sarebbe troppo lungo per questo articolo. Ci sono però un quaderno, dove appunto due righe, e anche delle sigarette americane. Al bivacco studio un po' la situazione dall'alto, per capire dove sistemarmi a pranzare, e concludo che riuscirò a trovare un angolino in riva al lago azzurro.
Mi accomodo su una pietra sulla riva. Il posto è abbastanza affollato ma anche grande a sufficienza per tutti. Ci sono sia italiani che francesi, molte famiglie con i bimbi, gente salita dal basso come anche arrivata dall'alto come me. Mentre pranzo, i cani da guardiania vengono a mendicare del cibo. Mi fanno una gran pena, perché sono timidissimi e mitissimi, oltre che molto magri. Condivido con loro del pane. Certo che se pensano che queste creature inoffensive possano difendere un gregge dai lupi, e poi ne chiedono lo sterminio se non ce la fanno… Quelli visti sull'Appennino, dove convivono da molti decenni con il grande carnivoro, erano grossi e cattivi, non davano alcuna confidenza, nemmeno se porgevi loro del cibo, e ti facevano sentire il fiato sui polpacci anche se solo passavi a duecento metri dal gregge.
Il livello del lago sembra essere ben sotto i valori abituali. Per curiosità, mi metto scalzo e provo a pociare i piedi nel lago. La limpida acqua non è certo fredda. Non faccio in tempo a pensare, che con la mite giornata odierna, un amatore potrebbe tranquillamente fare il bagno, che sento un pluf provenire dall'altra sponda. Prima un ragazzo, poi altri si tuffano e fanno una nuotata. Io invece mi astengo: da ragazzo mi sembrava sufficientemente freddo il mare sardo a giugno.
Proseguo quindi aggirando il dosso che chiude il lago a sud, portandomi tra praterie umide, dove il rio, che fuoriesce dalla morena vista scendendo, forma un laghetto verde con zona palustre ed eriofori. Per fotografarli, dato che sono sulla sponda opposta del torrente, sono tentato dal togliermi i calzoni e ficcarmi in acqua, che non è profonda e ha un fondo sabbioso. Venendo dal ghiacciaio sarà però ben più fredda che quella stagnante del laghetto: qui nessuno sta facendo il bagno. Poi però mi limito a scattare dal pelo della superficie. Continuo a scendere accanto al rio, per una zona molto pietrosa, tra una certa qal folla, in ambo i sensi. Più avanti, voltandomi, mi appare evidente il circo glaciale residuo, che fotografo insieme a una signora olandese.
Giungo quindi a un salto vallivo, dove questo vallone secondario si congiunge con quello di Mary e dove mi affaccio sulle sottostanti bergerie omonime. Vi scendo tra prati sassosi. Arrivato sul fondo, riprendo a salire costeggiando il rio e aggirando i recinti dell'alpeggio, dove pascolano degli asini, tra prati con grandi massi. Terminata la circumnavigazione, mi trovo su una bellissima mulattiera lastricata, che seguirò fino al passo. La mulattiera salirà molto regolarmente, per cui non mancheranno neanche qui i tagli degli escursionisti. Il magnifico manufatto mi affascina al punto tale da farmi dimenticare completamente il proposito di risalire l'emissario dei laghi di Roure. Non so quanto l'effetto sia involontario.
Rimonto una zona rocciosa, insieme a una famiglia che sale ancora, nonostante sia già pomeriggio, fino a sbucare su un lunghissimo pianoro erboso sul fondo di una conca, dove spira un forte vento. Sul versante italiano sono addensati cupi cumulonembi in rapida evoluzione. Nel piano la lastricatura scompare, in favore di una traccia terrosa, ma la ritrovo al termine. Gli escursionisti la snobbano in favore di un taglio diretto. Verso il colle mi faccio ingannare anch'io da una di queste scorciatoie.
Al colle del Maurin (de Mary per i francesi) mi riparo dietro un masso dal vento teso, che continua a soffiare. Non il più comodo in mezzo al passo, occupato da una coppia con cane, ma uno di ripiego in posizione discosta. Vedo gente rientrare da una traccia diretta ai laghi di Roure e varia altra fermatasi qui. Sul versante italiano le nuvole continuano a rimescolarsi, ma senza voler minacciare pioggia, mentre è più limpido verso la Francia. È un po' presto per la merenda, per cui mi limito a consumare un frutto.
Riprendo la marcia su ampia traccia, per un terreno rinsecchito di detriti fini, circondato da dossi morenici, quali vegetati e quali nudi. In lontananza vedo la Rocca Castello, su cui sole e ombra si alternano; qui invece resta più coperto. Mentre mi affaccio su un pianoro dove pascolano delle vacche, mi superano dei ragazzi che procedono spediti, parlando ad alta voce, correndo, saltando e senza aspettarsi, ma inseguendosi. Al pianoro, alcuni vanno a prendere acqua da un magro rio. In genere tutti quelli che scendono procedono a passo doppio del mio, anche i vecchi: non sorpasso nessuno, mentre sono ripetutamente sorpassato.
La discesa prosegue abbastanza ripetitiva per un bel tratto: dossi morenici, pianori, massi ciclopici, pareti dolomitiche, prati riarsi, pendii erosi, il panorama frontale con la Castello. L'ambiente è gradevole, ma sembra di leggere una di quelle pagine di critica letteraria, in cui l'autore ripete all'infinito lo stesso concetto con parole diverse. Quando mi affaccio su una dorsale con vista su un recinto con vacche bianche, non molto distante dal fondovalle, lo eleggo a luogo della merenda. Con qualche peregrinazione, trovo un masso comodo e non infestato da formiche volanti e apro il carpaccio di polpo, che mi unge i pantaloni sfuggendomi dalla forchetta, per poi concludere con tè caldo e biscotti. Mi restano una pesca e un po' d'acqua. Continua intanto a scendere varia gente alla spicciolata, finché, passati tre tedeschi in salita, il flusso s'acquieta.
Scendo poi con qualche serpeggiamento verso il recinto delle vacche, non senza imbattermi anche su questo versante in una bella lastricatura. Dalle vacche non ho la pazienza di aspettare che le nuvole lascino filtrare il sole fino a illuminare tutta la scena. Per di più non mi accorgo che taglio un corno da una delle vacche in primo piano. Pura sciatteria. Sbuco e su una strada militare e la seguo in discesa, evitando i tagli dei tornanti, visto che è già abbastanza ripida. Sui bordi ci sono delle genziane maggiori fiorite e rinsecchite. Raggiungo una baita abitata da una famiglia di montagnini sedentari e poi le grange Collet, dove termina la strada percorsa al mattino in auto.
Seguendo le indicazioni per Chiappera, la evito e imbocco invece una pista, che poi si restringe e aggira una dorsale, su cui pascola un mulo nero solitario dentro un recinto. Con un cancelletto vi entro e scendo verso la strada, di cui ho evitato un lungo tornante. Cade intanto qualche goccia di pioggia, anche se sopra di me ho solo degli innocui cumuli.
Ci sarebbe un gran bisogno di una pioggia vera, per qualche giorno, perché ho trovato tutto riarso e polveroso. Un rovescio più deciso cadrà tra San Salvatore e Dronero, previsto solo al mattino. In effetti al colle del Maurin avevo notato che l'altimetro tarato al mattino segnava una quota maggiore del reale. Il giorno dopo leggerò che sui pascoli della Battagliola, nella vicina Bellino, un temporale improvviso ha ucciso quattro vacche e una vitella, fulminandole.
Dato che è presto (stamattina sono partito ancora col buio, valutando la gita molto più lunga di quanto fosse in realtà), mi fermo ad Acceglio solo per una ricca torta di nocciole e un caffè, rimandando la cena all'arrivo a casa. Chiappera era invasa dalle auto e l'avevo perciò saltata, mentre qui è un po' meno affollato. Il vecchio dietro al bancone usa la mascherina a mo' di collana, forse per fare bella mostra della bella barba canuta da saggio eremita.