Bric Puschera 8510 dm
Langhe
17 aprile
In un baleno
«Siamo finiti nell'unica zona senza vigne». Così commenta un alpinista CAI, quando, dopo quattro ore e mezza di cammino langarolo, abbiamo attraversato magri coltivi, calanchi, piccoli prati e vaste distese di cerri, senza vedere alcun grappolo di nebbiolo
Diario di viaggio
«Siamo finiti nell'unica zona senza vigne». Così commentò un alpinista CAI, quando, dopo quattro ore e mezza di cammino langarolo, avemmo attraversato magri coltivi, calanchi, piccoli prati e vaste distese di cerri, senza vedere alcun grappolo di nebbiolo. Tutti associano le Langhe alla balconata della Morra affacciata sulle colline del Barolo, ma queste occupano solo una piccola porzione del territorio, una sottile fascia nella sua zona settentrionale. Il resto è ancora oggi più o meno come lo descriveva l'imperatore Ottone I poco prima dell'anno 1000: «Transivimus per deserta langarum et reliquimus ea, sine tributo» («Attraversammo i territori spopolati delle Langhe, e li lasciammo senza esigere alcun tributo»): un territorio molto povero, con un'agricoltura stentata, affrancatasi dalla malora fenogliana solo grazie alla nocciola o pochi prodotti tipici, come la robiola di Roccaverano. Certo da allora gli orsi si sono estinti (ma i lupi sono tornati); inoltre i tedeschi sono venuti in massa a recuperare cascinali per trascorrere le vacanze o la pensione, ma il carattere tutto sommato estraneo alla presenza umana è rimasto. Con questo anello si percorrono queste zone.
Il Bric Puschera è uno dei più elevati 8000 (dm) di queste colline ed è inoltre l'acme della provincia di Asti: una cima di prestigio, dunque. Gode di un panorama ad angolo giro sulle torri medievali, sui paesini sui crinali, su campi e boschi, sulla chiostra delle Alpi. Tuttavia questo è solo un lampo della gita ed è ben poca cosa rispetto al fascino brullo delle zona calanchiva di Merana. Queste colline sono infatti ricche sopratutto di terre grame, che già nel Medioevo erano il cruccio degli abitanti, quando l'economia si riduceva alla sussistenza con i prodotti locali. Qui la malora di Fenoglio non è stata solo una felice intuizione letteraria, ma la cifra della vita di quasi tutti. Oggi invece con la pancia piena ci concediamo il lusso di ammirare queste formazioni erosive con romantico trasporto per le aree deserte.
In una mattina di Pasqua, in cui molti dei pochi a zonzo viaggiano per le statali ai 40 all'ora, al passo degli ottuagenari, ci fermiamo a un affollato bar di Montechiaro d'Acqui in cui hanno la focaccia quasi unta. Qui mi sembra di essere quasi in Liguria e un po' lo devono pensare anche gli abitanti, se la festa principale del paese è accompagnata dall'Anciuada, con cui la prima domenica di maggio si rievoca il commercio di acciughe con la costa. Dopo una scarpinata di 30 km per un sentiero tra vigneti, calanchi, rii e boschi, si conclude alla grande inciuccandosi assieme agli Alpini. La gloria maggiore del paese risale però al Medioevo, quando il paese era così importante da meritare una reliquia non di un santo come un altro, ma della corona di spine di Gesù in persona.
Proseguiamo poi lungo la Bormida di Spigno (non era questo il ramo che riceveva gli scarichi dell'ACNA di Cengio, che passa più a sud, per Cortemilia) fino a Merana, l'ultimo paese della provincia di Alessandria, al confine con la Liguria. La gita può anche essere effettuata in treno, sfruttando la linea Savona-Acqui-Alessandria, ma la frequenza dei treni è bassa, sia nei feriali che nei festivi. Un paio di volte l'ho fatto, sbizzarrendomi con le traversate.
Da qualche mese una vasta area, estesa dal confine emiliano del monte Chiappo fino a qui, è interdetta agli escursionisti a causa di un'epidemia di peste suina, innocua per l'uomo, ma potenzialmente catastrofica per la prospera economia dei salumi, qualora si estendesse ad aree di produzione. Merana è il primo paese al di fuori della cintura di isolamento che circonda l'area infetta, per cui è possibile camminare. Qualche settimana fa, i divieti sono stati rimodulati in Liguria, per ridurre i danni alle attività turistiche, mentre la Regione Piemonte pare non essere interessata agli escursionisti, ma solo al turismo enogastronomico in automobile e al cicloturismo su asfalto, che non sono interessati così direttamente.
Parcheggiamo alla Pro Loco, mentre dalla vicina e grande chiesa, risalente al 1941, indubbiamente sproporzionata per un paese di così poche casette, stanno uscendo i fedeli. Ci sono un sacco di auto parcheggiate davanti, nonostante le case siano in un raggio di poche decine di metri. Risaliamo la collina tra prati, costeggiando la recinzione un allevamento caprino. Il loro cane una volta non era ingabbiato e ne approfittava per seguire con entusiasmo ogni escursionista; a fine gita bisognava telefonare ai proprietari per farlo recuperare. Per boschetti, con qualche vista su Merana grazie allo squarcio di una linea elettrica e i primi timidi accenni di calanchi, risaliamo anche ripidamente una collinetta fino alla sommità. Vi intravediamo qualche animaletto, forse solo una lepre, ma anche i caprioli bazzicano la zona. In questo periodo non devono passarsela benissimo, per la tremenda siccità invernale che ancora perdura, ma un po' di erba verde è spuntata nonostante tutto sul terreno duro e polveroso.
In cima troviamo una torre e una chiesetta seicentesca dedicata a san Fermo, martire africano del III secolo, le cui reliquie sono conservate a Verona e vengono qui in occasione della festa patronale. Al santo è anche dedicata una delle cappelle di Oropa. La chiesetta si trova sul luogo di una precedente chiesa medievale dedicata a san Nicolao, il popolarissimo santo di Bari, la cui tradizione emigrò nel Nord Europa e tornò qui sotto forma di Babbo Natale. A inizio Cinquecento, con la soppressione dell'abbazia di Spigno a cui apparteneva, divenne parrocchiale, salvo essere presto abbandonata per la scomodità rispetto agli abitati.
La torre, attribuita al periodo della Marca Aleramica, faceva parte di un castello attorno a cui era accentrato il paese in posizione elevata, secondo il modello arroccato medievale. In quel periodo i castelli non avevano solo funzione militare, di difesa delle vie di transito verso i porti liguri, ma erano anche centri di aggregazione delle comunità: venivano cioè costruiti con il preciso scopo di attrarre popolazione verso centri ritenuti strategici dalle micro signorie del tempo o dai centri ecclesiastici, che avevano assunto il controllo del territorio dopo la disgregazione del Sacro Romano Impero e svolgevano i compiti giurisdizionali di riscossione dei tributi, amministrazione della giustizia e controllo militare. A capo del castello c'era la piccola nobiltà, che svolgeva il ruolo imprenditoriale di aggregare popolazione e promuovere lo sviluppo del territorio. In questo caso, non sono mai stati condotti scavi, per cui non si sa dove fosse con precisione il villaggio medievale. La torre sarà una presenza costante dei panorami di tutto l'anello, rimpicciolendosi per poi tornare a ingrandirsi.
Dopo una visita e un vano tentativo di scassinamento della porta, un salto all'ennesima panchina gigante edificata nei pressi, scendiamo per la strada di accesso, in una zona calanchiva di terra nuda e grigia. A un tornante una barca viola è un ricordo criptico di due figli al genitore. Oltre un campo di lavanda che non profuma, ci incuneiamo quindi in una valletta selvatica e boscosa, fino a sbucare sui prati attorno a cascina Varradi. Di questa adoro una casetta scrostata e colorata, di fronte alla quale sono parcheggiate delle vecchie bici.
A monte arranchiamo sui primi calanchi di giornata, che sono belli ripidi, per cui apprezziamo i bastoncini sul loro fondo sabbioso arido e friabile. Di questo tratto portiamo anche a casa la prima orchidea della stagione e una conchiglietta bianca di una chiocciola. In cima ai calanchi, raggiungiamo una dorsale, dove la salita si fa graduale. In breve tocchiamo delle formazioni erosive note come murion, cioè musoni, perché, con una opportuna dose di pareidolia, è possibile riconoscervi sembianze umane o animalesche. Si tratta della variante locale dei funghi di terra: in questo caso, delle marne più scure resistono meglio al dilavamento e fanno da cappello, quelle più chiare e friabili da gambo. Segue un tratto in cui il sentiero è molto infossato e sarebbe pertanto perfetto come scolo per l'acqua, se solo piovesse, tanto che si è spesso costretti a fare un po' di equilibrismo sulle sponde dell'incavo. Questo tratto può essere aggirato imboccando sulla sinistra una variante non segnalata subito oltre i murion.
Confluiamo su una pista più ampia, che corre in quota. Con grande sorpresa, una volpe sta dormendo in mezzo al sentiero. Al nostro arrivo si fa quasi toccare e si allontana tenendoci d'occhio, ma senza agitarsi. Ci chiediamo, se, per comportarsi così, sia malata; di sicuro non sembra denutrita. Notiamo che dormiva sopra le sue feci. Sono talmente sorpreso, che nemmeno mi sfiora l'idea di estrarre la macchina fotografica.
Percorriamo un lungo tratto in quota, in un boschetto con cerri. Lasciamo il 575 seguito sinora, che scende a cascina Galli, restando invece sulla pista diretta a Pian del Verro. Raggiungiamo una pista più marcata, che imbocchiamo seguendo dei segnali blu simili ai segnali stradali di obbligo di direzione, a cui ogni tanto fanno da conferma delle tacche biancorosse. Questa zona era in parte tenuta a castagneto da frutto, di cui resta qualche grande albero. In una occasione, un gregge di capre fece per seguirci, costringendo la pastora a mobilitarsi per recuperarlo, chiamandole a gran voce per farsi identificare. La più testarda fu una capra molto anziana, che camminava a fatica con le mammelle colme di latte, rispondendo solo alla fine ai ripetuti richiami per nome della sua padrona.
A Pian del Verro ci sono una cascina e un pilone dedicato a sant'Antonio. La mia compagna di escursione mi chiede un incoraggiamento perché camminiamo già da qualche ora. Non posso essere molto di supporto, perché ci attende ora un lungo saliscendi, restando non lontano da una dorsale boscosa, che ogni tanto raggiungiamo. Si fanno più comuni dei pini silvestri e intravediamo un capriolo, di cui udiamo quindi i richiami quando si dilegua. In una zona aperta, di prati, presso un colletto dove intersechiamo una stretta strada, giungono in direzione opposta alcuni ragazzi tedeschi, che sembrano arrivare dalla cascina sottostante. Mentre noi facciamo una pausa per recuperare energie, ci oltrepassano e ritornano ben presto indietro. Sono molto timidi: non ci dicono una parola e non riesco neppure a rendermi conto se capiscano l'italiano. Il luogo è oltremodo panoramico sulla cerchia alpina; vedo poi un grande edificio sul crinale, che potrebbe essere il Todocco, un importante santuario mariano delle Langhe.
Oltrepassata la strada, passiamo accanto a un cappella e proseguiamo lungamente in un fitto bosco, restando all'incirca alla medesima quota. Tralasciamo le piste laterali e restiamo sulla princiaple, fino a raggiungere un'area attrezzata nel bosco, dove ci sono anche una parabola e dei bagni pubblici senz'acqua. Con una discesa, siamo alla sella dove c'è la cappella di San Sebastiano. Da un po' intravedevo il Bric Puschera e, quando sono sicuro di averlo riconosciuto, lo indico alla mia compagna di gita, che ne è rincuorata, anche se ancora non è vicinissimo. Visto che siamo qui, decidiamo di raggiungerlo comunque, anche se l'ora di pranzo sarebbe già passata. Seguendo la cartina astigiana, scendiamo a Serole per la strada. Lungo la via, incrociamo due coppie a passeggio e vediamo due anziani che fanno picnic su un tavolino a bordo strada, accanto all'auto. In questa zona sono fioriti tantissimi ciliegi. Oltre il paese, le indicazioni ci indirizzano su una pista, che sale con un paio di tornanti, tra grandi muri a secco di fortificazioni. La pista diviene poi sentiero, fino a quando sbuchiamo su un prato da cui il Bric appare lontano, suscitando lo sconcerto e lo sconforto della mia compagna di viaggio. Il sentiero fa poi ancora un lungo traverso sotto la vetta, per terrazzamenti dismessi, in un bosco caotico, fino a raggiungere la dorsale occidentale. La imbocchiamo e, finalmente, per prati siamo in vetta.
Ci attendono: un piccolo traliccio con ripetitore, il rimboschimento di abeti rossi che conferisce al colle un profilo caratteristico, riconoscibile anche da molto lontano, e una mini area attrezzata con due tavoli di legno. Quando sono le 15 passate, approntiamo il pranzo di Pasqua, che consiste in riso con lenticchie, fragole e colomba ai frutti di bosco. Alla fine, guardo un po' in giro con il binocolo, verso le Alpi, il Beigua, i ciliegi di Serole, le pale eoliche del crinale. Oggi, a causa della lieve foschia, non posso capire se si veda il mare come da Mombarcaro, il colle più alto delle Langhe, ma credo di no, perché verso il savonese la vista è chiusa da crinali elevati. Torno quindi sui miei passi per scattare una foto con il polarizzatore alle torri di Olmo Gentile e San Giorgio Scarampi con il Rosa sullo sfondo. In salita non avevo voglia di estrarlo dalla tasca dello zaino e di montare l'ambaradan Cokin, perché ero già proiettato sul pranzo. Verifico che l'effetto di riduzione della foschia sia sufficiente e far risaltare la montagna e scatto. Illustro poi alla mia amica le meraviglie della luce polarizzata.
Cerchiamo un posto dove cenare, perché a questo punto è chiaro che faremo tardi. Purtroppo non c'è spazio all'osteria del Bramante a Roccaverano, un ottimo ristorante di cucina molto piemontese: pensavamo che, non vedendo nessuno in giro, ci fosse poca gente, ma evidentemente sono tutti a tavola, pure a cena. Questo potrebbe, se non giustificare, almeno rendere comprensibile la trasandata politica della Regione nei confronti dell'escursionismo. La mia amica sarà costretta a fare il giro delle Cinque Torri se vorrà vedere il bel borgo langarolo. Ripieghiamo su un ristorante di Montechiaro con buone recensioni e menu onnicomprensivo, terra, mare, pizza.
Alle 17 cominciamo la discesa, decisamente più breve della salita. Per prima cosa siamo diretti alla strada di crinale proveniente da Roccaverano, che ci riporterà a San Sebastiano. Riusciamo a scorgere la torre di Vengore, mentre prima della cima avevamo visto quella di Roccaverano, la chiesetta di San Rocco e un grande paese in lontananza, che potrebbe essere Ponzone. Con scarso traffico, torniamo a San Sebastiano, costruita nella tradizionale pietra di Langa marroncina. Poco prima, dal taglio della strada avevamo potuto osservare gli strati di arenaria o marna che sia di cui sono composte queste colline, formate appunto da depositi sedimentari di fondali marini. Dalla chiesetta imbocchiamo la strada per Spigno, da cui si stacca quasi subito una sterrata con indicazioni. Su uno dei cartelli leggo con preoccupazione che Merana è data a ben 2.40 ore; dai ricordi mi sembra esagerato e infatti ci impiegheremo giusto un paio d'ore dal Bric all'auto.
Poco oltre una casa con un nome tedesco sulla buca delle lettere, dalla strada si stacca un sentiero, che corre nei pressi di una dorsale. Mentre ci affacciamo a una vasta zona di calanchi, riceviamo da destra il 575, appena transitato da una zona dei beimurion, ma ce ne sono anche più avanti lungo la nostra discesa. In particolare si fa notare uno a forma di sfinge (almeno con un po' di fantasia o sostanze psicotrope coadiuvanti), riportato anche sul sito ufficiale della provincia.
Ci inoltriamo quindi nel paesaggio calanchivo più grandioso della gita. Restando sempre sulla dorsale, ci affacciamo su precipizi nudi da strapiombi bordeggiati di timo, ammiriamo pini resistere eroici nella terra sterile, foglie traslucide nella luce serale, la torre di San Fermo svettare oltre la valle, geometrie erosive frattali propagarsi fino al piano come lava congelata, la grande chiesa in pietra di Langa dominare le poche casette di Merana, le colline lontane sfumare nel blu. Un vero tripudio. Se fosse piovuto un po', potremmo anche osservare le orme degli animali sui calanchi, gli zoccoli dei caprioli e le manine unghiate dei tassi in particolare, ma oggi sono troppo riarsi e polverosi.
Tralasciamo le deviazioni segnalate verso le vallette e restiamo invece sul crinale fino al margine del calanco, per saltare infine a valle per un precipizio assai aereo, sconsigliato a chi soffre il vuoto e a chi cammina senza bastoncini.
Raggiungiamo il fondovalle presso cascina Ghioni, dove una volta un 1100 R in decomposizione donava un ulteriore tocco vintage alle architetture già molto da vecchia cartolina. Poco oltre raggiungiamo l'asfalto, costeggiamo una lunga recinzione dentro cui un pastore australiano e un altro cane corrono e abbaiano giocosi e siamo nuovamente alla proloco, mentre un treno è fermo alla stazione. Ricordavo motrici diesel, mentre questo è elettrico.
A cena prendiamo entrambi il pesce, un'orata al cartoccio e una grigliata mista, perché, come detto, qui pare ormai di essere nella Liguria interna. Peccato solo che non abbiano bianchi liguri, o almeno del Timorasso, perché non apprezzo i piemontesi di Langa e dintorni, per cui sarà una cena astemia.
Per approfondire
- Provincia di Alessandria, Anello di Merana, Percorsi escursionistici in Provincia di Alessandria
- Provincia di Asti, Astigiano Destinazione Outdoor
- R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
- Provincia di Asti, Astigiano Destinazione Outdoor