Cima Rodčenko 1327 m

Valle di Susa

18 febbraio


In un baleno

Invece Aleksandr Michajlovič Rodčenko, innovativo fotografo dell'avanguardia russa del primo Novecento, l'avrebbe senz'altro prediletta per immortalare con prospettiva ardita il traliccio dell'alta tensione, costruito esattamente sull'arrotondata vetta, che la rende individuabile da chilometri

Monte Molaras
Monte Molaras

Diario di viaggio

Il monte Molaras 1327 m è una cima distante cinquanta metri dal tornante di una sterrata, sul versante solatio della bassa valle di Susa. È priva di una croce, in legno o acciaio che sia, così come di una madonnina di gesso o anche solo di un misero ometto di pietre. Non parliamo poi del libro di vetta: nessuno avrebbe elevati pensieri da annotare dopo esservi salito. Non ha certo un primo conquistatore prestigioso, in quanto sarà stato qualche inconsapevole cacciatore di camosci neanderthaliano, o al più tardi qualche pastore neolitico, insediato nelle sottostanti caverne delle Voute. È così insignificante che già nell'Ottocento i veri alpinisti la sfioravano ancora nel buio che precede l'alba, senza accorgersene, mentre puntavano a cime ben più elevate. Invece Aleksandr Michajlovič Rodčenko, innovativo fotografo dell'avanguardia russa del primo Novecento, l'avrebbe senz'altro prediletta per immortalare con prospettiva ardita il traliccio dell'alta tensione, costruito esattamente sull'arrotondata vetta, che la rende individuabile da chilometri. Per questo propongo di intitolargliela.

Parcheggio l'automobile lungo la statale del Moncenisio, tra i primi supermercati che cingono Susa come ogni altro grosso comune. Imbocco una viuzza che mi porta al cimitero di Mompantero, che curiosamente si trova nel comune di Susa, forse perché la striscia di terra pianeggiante nel primo è davvero ridotta all'osso, in quanto si estende principalmente sul ripidissimo versante sud del Rocciamelone. Accanto, ma lo noterò solo al rientro, c'è un vigneto che rispetta la tradizione valsusina dei pali in roccia. Questa valle ha sempre avuto grandi disponibilità di pietra, sia per le cave che per i numerosi massi erratici; pertanto elementi costruttivi che altrove sarebbero in legno, maggiociondolo in questo caso, qui sono in pietra. Le piantine di vite sono molto basse, alla greca, anziché all'etrusca maritate ai pali, come si usa di solito sui terreni grassi del nord Italia.
Tremila metri più in alto svetta appunto la piramide del Rocciamelone, pressoché l'unica superficie innevata su questo versante esposto a sud, nonostante sia metà febbraio. Qui in pochi chilometri c'è il maggior dislivello delle Alpi tra il fondovalle e una cima, che nel Medioevo portò a credere che il Rocciamelone fosse la vetta più alta della catena. Fu anche la prima grande cima ad essere raggiunta, da una piccola spedizione guidata da un nobile astigiano; secondo la tradizione, i cui dettagli sfumano nella leggenda, in seguito ad un voto mentre era prigioniero dei Turchi. Oggi questa unicità è celebrata secondo il contemporaneo modo di vivere la montagna, ovverosia con una gara di corsa irriproducibile altrove, un triplo ripidissimo chilometro verticale.
Mi dirigo verso Urbiano e la risalgo per strette stradine deserte, che portano il nome sia in italiano che in francoprovenzale, compresa via Roma, che tradotta suona un po' fuori luogo. Le casette sono semplici; ce ne sono alcune più vecchie, di solito in disuso, con i balconi in legno. Una targa ricorda uno storico sindaco di Mompantero; molte vie sono poi dedicate a partigiani e c'è anche un cartello del Memorial Stellina, corsa in montagna dedicata a una divisione partigiana della zona. Arrivo a una piazzetta con fontana in pietra, dove cambio l'acqua, su cui un cartello avvisa gli automobilisti di rallentare per la presenza di bambini allevati bradi. Su un ballatoio sono parcheggiate alcune piccole biciclette.
Supero un bel ponte in pietra sull'incassato torrente e raggiungo le arcate dell'acquedotto, di possibile origine romana, in quanto nel medioevo si prediligevano manufatti di legno, più precari. Ad ogni modo, la struttura è stata ampiamente rimaneggiata fino a tempi recenti (in un punto noto una traversa metallica), anche se mancano documenti che ne ricostruiscono univocamente la storia.

Lascio la stradina asfaltata in favore di una mulattiera lastricata, dove trovo subito alcuni resti delle lastre di pietra disposte a coltello a bordo sentiero, che servivano a tenere il bestiame, le capre in particolare, fuori dai coltivi. Infatti la zona è terrazzata e si notano, tra un bosco di ripopolamento, alcuni grandi castagni da frutto. A un bivio prendo a destra, descrivendo un tornante, e aggiro un promontorio per una zona di vegetazione rada. Offre la vista su Susa, costruita ai piedi del balzo della valle, dove la Dora Riparia corre in gole profonde, che in passato erano una barriera naturale agli eserciti. Per questo a monte già nel Medioevo fu costruito dai francesi, che controllavano l'alta valle, il forte di Exilles, poi passato di mano in mano e tuttora esistente, adibito a museo.
Tra muri divisori e terrazzamenti occupati da piccole querce, arrivo alla panoramica chiesa della Madonna di Ecova, assediata da tralicci elettrici, telefonici e televisivi. Il panorama sulla bassa valle, che arriva fino al monte Pirchiriano dove sorge la Sacra di San Michele, è molto buono, così come sull'innevato gruppo dell'Ambin, mentre il dirimpettaio Orsiera è offuscato da una densa foschia. Curiosamente è sviluppata solo da una certa quota in su, contrariamente a quanto capita di solito nelle stagioni delle inversioni termiche. Di fronte alla facciata ci sono delle formazioni rocciose di conglomerato scuro. Grazie al sole velato la temperatura è salita, per cui decido di proseguire in maglietta.
Continuo a guadagnare quota seguendo una spoglia dorsale di pietre verdi, per poi entrare in un bosco che ha occupato delle terrazze in disuso. Trovo dei cartelli gialli con scritte nere, non dedicati però a Bocca di Rosa, bensì a ben più monastici hashtag di corsa in montagna. Sono abbastanza astuti da far lasciare il sentiero più diretto, per condurre invece a una cappelletta tra case in stile, che ha dei dipinti molto deteriorati sulla facciata, dove riesco giusto a scorgere un santo irriconoscibile, ma che all'interno dovrebbe averne di pregiati. Sempre nel bosco arrivo a Nicoletto, dove un cartello inviterebbe a segnare il tempo di salita, se non fosse che è sparito il pennarello. Il mio è sei volte superiore a quello dei migliori e tre ai più fiacchi, ma l'avrei segnato a perenne ricordo, con il nome fittizio di un viaggiatore di Betelgeuse a cui mi ispiro. La borgata, come la precedente, ha sia case tenute, che altre in rovina. Anche qui sembra non esserci nessuno.
Qui il sentiero piega nettamente a destra e, in traverso per un vecchio castagneto, sbuca abbastanza bruscamente in un ambiente completamente diverso rispetto a quelli visti finora. Mi trovo infatti su un pendio molto ripido esposto a sud, in un ecotopo di prati assai aridi, dove la vegetazione arborea e arbustiva è rada come i capelli di Homer Simpson. Mi colpisce in particolare un piccolo pino silvestre che se ne sta al riparo di un masso. Di solito scene del genere si vedono dove i larici o i cembri, al limite superiore della vegetazione arborea, sfruttano la protezione del microclima del masso per sopravvivere ai rigori della quota. Non se qui capiti qualcosa del genere, ma al rovescio, perché magari sfrutta qualche fenomeno di condensazione.
Compaiono dei ginepri, che sono un poco più grandi dei cespugli che si vedono di solito in quota, nelle zone aride. Alcuni sono morti e sono rimasti sono i rami: il legno di ginepro è quasi eterno. Sul Supramonte di Baunei manufatti di ginepro sono adoperati per permettere di superare salti di roccia e portare le capre in zone di pascolo altrimenti irraggiungibili. Nonostante la zona sia arida, ci sono molti manufatti, come muri a secco, terrazzamenti e basi di edifici, che testimoniano come fosse diffusamente colonizzata.

Sul sentiero vedo anche degli escrementi di pecora. Queste zone sono protette da un parco naturale che negli scorsi anni ha unificato varie oasi di protezione sparse nella media e bassa valle di Susa. Dal 2013 è in corso un progetto europeo, detto xero-grazing, dove xero è il prefisso greco che identifica questo zone calde e solatie, e grazing indica l'atto del pascolo in inglese. Tramite l'acquisto di un gregge di pecore e la creazione e manutenzione di infrastrutture pastorali, come sentieri o punti acqua, si propone di preservare questo habitat dall'invasione di specie arbustive e arboree.
La ragione della protezione è che permette la sopravvivenza di molte specie di orchidee. Talune specie di questi vegetali dalle vistose fioriture, infatti, beneficiano di ambienti artificiali, in cui la gestione umana segue protocolli, che da un lato non ostacolano il loro ciclo vitale, ad esempio pascolando o falciando solo al termine della fioritura, ma dall'altro impediscono la formazione naturale del bosco, dove non potrebbero sopravvivere.
Oltre alla spettacolare fioritura, le orchidee hanno anche una invisibile ma altrettanto affascinante biologia. Innanzitutto i loro semi sono piccolissimi, per poter essere trasportati dal vento, per cui sono privi di sostanze nutritive e non potrebbero germinare, se prima non instaurassero una delicata simbiosi con un fungo, che con le sue ife si insinua nell'embrione e fornisce il nutrimento. Invece per la riproduzione, come tutti i vegetali con fiori vistosi, sono in simbiosi con gli insetti. Le piante del genere Orphys, in particolare, riescono a ingannare degli imenotteri maschi tramite la mimesi visiva, tattile e chimica, che li spinge ad accoppiarsi con il loro fiore credendolo una partner e spargendo così il polline. Il sarcasmo è lasciato come esercizio per le femministe.
Di orchidee ne esistono pressoché infinte specie, dalle comuni alle rare. Il riconoscimento è ancora complicato dal fatto che possono formarsi degli ibridi. Per chi come me riesce giusto a distinguere i pini silvestri dai faggi è una causa persa.

L'incrocio con una signora dagli occhi cobalto, ma non come il cielo, che oggi è grigiastro per le pervasive velature, anticipa una visione decisamente meno celestiale. Sto infatti per incontrare un paesaggio assai meno soave: sono gli effetti del terribile incendio che, nell'ottobre 2017, devastò i boschi di Mompantero. Arrivò al culmine di tremende siccità e calure non solo estive, ma anche autunnali, un evento davvero insolito nella stagione delle alluvioni. Creò una densa nube opaca e acre che si estese fino a Torino, a cinquanta chilometri di distanza. «I bambini sono terrorizzati», mi disse una collega che abitava in bassa valle. I sensori ARPA misurarono 350 μg/m3 di micropolveri PM10, nella centralina della città più esposta: sono quasi i valori di picco di quando negli Anni '70 si cominciò a rilevarli, prima la deindustrializzazione e le normative sulle emissioni li contenessero, in linea con le peggiori città dell'Asia di oggi. Non parliamo poi della silenziosa strage di fauna selvatica.
Al confine tra praterie xeriche e boschi, il sentiero risale tra isole di moncherini anneriti e caduti: un paesaggio davvero desolato. Dopo gli incendi, erano partite sottoscrizioni per ripristinare i boschi, ad esempio tramite l'acquisto de “L'uomo che piantava gli alberi” di jean Giono, ma qui non se ne vede traccia. In questo ambiente, supero un gradino e raggiungo un pianoro, dove trovo qualche chiazza di neve, sopravvissuta chissà come, e l'elettrodotto che transita dalla cima. Attraverso la sterrata che sale a Chiamberlando e vi arrivo con un'ultima rampa.
La borgata è molto ben tenuta e curata: le case sono tutte rivestite in pietra, con uno stile omogeneo e molte hanno panche, tavoli e dondoli di legno affacciati sulla valle. Sembra quasi di essere in Valle d'Aosta, piuttosto che nella basse valle di Susa, dove invece di solito le borgate trasmettono un senso di decadenza e povertà. Naturalmente si tratta di seconde case. Non ci sono auto parcheggiate né tantomeno persone in giro, ma non oso lo stesso approfittare dei punti di socializzazione privati e pranzo accomodato su un muretto, presso un modellino di paese. Avevo un ricordo di una frazione da queste parti, dove qualcuno aveva realizzato una ricostruzione in cui compariva anche il Rocciamelone, ma non è qui o non c'è più. Non che possa fidarmi molto dei miei ricordi, tuttavia: a breve scoprirò che il mio ricordo della vetta era completamente errato.

Riprendo a camminare sulla sterrata che prosegue oltre le case, tra altre chiazze di neve nei passaggi ombrosi. Mi supera un guardiaparco su una Panda bianca. Arrivo al tornante da cui si distacca il sentiero 560 diretto a Foresto, che seguirò in discesa. Prima però faccio una puntata al traliccio di vetta, appunto per onorare Rodčenko con una foto costruttivista dall'ardita prospettiva verticale, che fu il primo a tentare. D'accordo, non è l'estetica portante degli escursionisti, che non riuscirebbero ad apprezzare la mia attrazione. Su questo ho sentimenti contrastanti, perché mi piacciono le foto semplici ed euclidee, ma in natura è assai difficile scattarne, perché prevale il frattale alla Pollock (che invece detesto), specialmente nei boschi, il mio tema prediletto. Dubito sia mai stata intitolata una cima a un poeta del progresso industriale, ma questa sarebbe adatta.
Tornando al tradizionale, da qui si gode di una bella visuale sulla vetta del Rocciamelone, da cui il pendio precipita ripidissimo. Al lato opposto non faccio nemmeno caso, per la spessa foschia che cancella ogni forma e colore. Qui intorno i pini silvestri sono stati raggiunti dall'incendio, ma solo i tronchi sono anneriti, mentre gli aghi sono preservati e gli alberi sono sopravvissuti.
Comincio a scendere lungo il sentiero che taglia il versante ombroso, dove inopinatamente è rimasto del ghiaccio scivoloso, che mi consiglia prudenza. Solo su un saltino devo scendere di sedere, bacchette ai polsi e mani immerse nella neve fredda, mentre per il resto mi basta procedere con cautela, a piccoli passi accorti. Per fortuna le rocce non sono pietre verdi, ma di un tipo ignoto con un'eccellente aderenza. Purtroppo temo che non uscirà mai un'app che ti dice il nome della roccia dalla foto, come ce ne sono per alberi e bagarospi, perché quando poni una domanda del genere a un geologo, ti chiede di mandargliene una fettina da analizzare al microscopio. Da qui si ampia la vista sul vallone del rio Rocciamelone, che comincia a mostrare i segni di ciò che apparirà evidente più avanti.
Terminato l'aggiramento sul versante nord e con esso il ghiaccio, sbuco in un mezzo anfiteatro (un teatro, insomma), dove il pendio si inarca precipitando scosceso tra dirupi. Ammiro la soprastante parete rocciosa protesa ad est del Molaras e capisco finalmente perché questa cima ha un nome, come risultava invece incomprensibile dal versante di salita. A parte il traliccio, che continua a svettare perché nel frattempo non è stato abbattuto da qualche provvidenziale bombarolo, lo spettacolo è il migliore della giornata, almeno dal punto di vista dell'estetica romantica della natura selvaggia, questa sì più consona alla percezione più diffusa della montagna. Tuttavia non è sempre stato così: per i primi che la videro in questo modo, fu un vero sconvolgimento interiore. Chissà come tra due secoli vedranno i tralicci o i capannoni dei supermercati che ho incontrato a inizio giro.

Terminato il periplo del teatro, riprendo a scendere abbastanza ripidamente, ritrovando neve, ma stavolta molle. Tra la boschina, compare la parte bassa del vallone del rio Rocciamelone, che va a sfociare sul fondovalle nell'orrido di Foresto. È talmente ripida e incavata, che sarebbe una quinta fantastica dove sfrecciare in tuta alare, come un falco pellegrino in picchiata, sibilando e urlando «Yaaaaaaahhhhh!». Purtroppo è impossibile renderla con un'immagine bidimensionale, specie adesso con questa luce poltigliosa per le spesse velature e la foschia: sarà anche l'inverno secco, ma a malapena riesco a vedervi dei colori.
Sempre serpeggiando in ripida discesa, sbuco su un poggio da cui ammiro la sottostante zona di prati ed edifici rurali. A quota 1050 circa tralascio il sentiero, il cui imbocco è segnalato da un ometto, che taglia il pendio e conduce a Braida, dove c'era la cappella affrescata, a chiudere l'anello. A guardare dal basso, sembra attraversare un zona rocciosa e spoglia, dove il pendio è molto ripido. Potrebbe perciò essere aereo e di un certo fascino panoramico. Decido invece di passare più a valle, per percorrere un tratto del sentiero dei ginepri.
Seguendo una dorsale scendo a un'edicola votiva malridotta, che, come tradizione, era edificata a un crocevia: vi trovo infatti un sentiero che taglia in quota e proviene dallo sprofondo del vallone del rio Rocciamelone.
Da lì proveniva anche una canalizzazione per l'acqua, rifatta anche in tempi recenti, come testimonia l'uso di un grande tubo di plastica. A valle dell'edicola c'è ancora una chiusa arrugginita, che deviava l'acqua verso Coste. La condotta era sotterranea ed era ispezionabile dall'accesso di un gabbiotto di pietra, un poco più avanti lungo il sentiero per la frazione. Questi sistemi di canalizzazione, per portare l'acqua dagli impluvi o dai nevai sui versanti settentrionali, fino ai prati meglio esposti, erano assai comuni sulle Alpi ed erano un'infrastruttura essenziale nella gestione dell'acqua, che oggi sarebbe difficile da riprodurre, per la carenza di manodopera. Sono comuni soprattutto nelle aride valli endoalpine e sono spesso talemnte strepitose nella loro architettura da essere divenute importanti attrazioni turistiche. Sono anche elementi identitari, perché la loro complessa a laboriosa gestione ha prodotto una peculiare organizzazione della società, con complesse leggi e figure professionali dedicate.
Lascio il sentiero per Foresto e imbocco il precedente in direzione ovest, verso Ambruna. Il sentiero prosegue evidente in quota tagliando dei prati e giungendo in breve a un gruppetto di case rurali chiamato Coste. Dopo una casa, un segnavia mi intima di puntare verso il basso, verso una mulattiera dal fondo rovinato, diretta verso un gruppo di alberi sfasciati. Un po' interdetto da ciò, credo di aver capito male e vagabondo un po' a vuoto cercando un'inesistente sentiero altrove, prima di estrarre il GPS e convincermi che è proprio lì che devo andare.
Aggiro a monte il luogo rovinato e costeggio il sentiero, per poi calarvi in corrispondenza di una tacca. Proseguo in quota, lungo una traccia meno evidente, fino ad affacciarmi a un gradino erboso, dove trovo degli ometti che mi guidano nel giusto passaggio. Presso un incavo confluisco sul sentiero dei ginepri, che qui sono alberi alti anche qualche metro, come quelli visti in Sardegna, ma meno contorti e fotogenici. In un punto con vista sul campanile di Foresto faccio la pausa merenda.

Mi trovo a monte di una zona erbosa in via di rimboschimento spontaneo, dove si vedono numerosi resti di edifici e muri, e che è uno dei posti migliori dove osservare la fioritura di orchidee. Anche se non amo le foto ai fiori, ritenendole insignificanti, credo che in un giorno nuvoloso di maggio o giugno ci farò un salto, per avere delle foto colorate da usare come sfondo per il telefonino o da mandare alle amiche il giorno del loro compleanno. Il panorama si è ristretto, perché la foschia è aumentata anche a bassa quota. Mangio l'ultima arancia e bevo l'ultimo caffè del termos, accompagnandolo con biscotti di meliga. Non mi fido a frequentare i bar, nel pieno della seconda ondata della pandemia, per cui ho acquistato un piccolo contenitore termico con cui portare un po' di caffè.
Da un po' sento il brusio delle strade, ma è un lungo treno merci, in arrivo dal Frejus sul lato opposto della valle, a fare una specie di lungo boato, quando esce da una galleria. Sia casa mia che il mio posto di lavoro sono in angoli abbastanza silenziosi della città, per cui mi capita più spesso di sentire i rumori della produzione e del consumo, quando scendo dalle cime verso il fondovalle, che nella vita quotidiana. Sono così pervasivi e assimilati, che c'è gente che non sopporta più il silenzio e, quando lo percepisce, accende la TV senza guardarla, solo per «la compagnia».
Riprendo a camminare, tagliando il pendio in lieve discesa. Lascio sulla sinistra due sentieri, che curvano a gomito e puntano a Foresto, proseguendo invece dritto. Mi viene in mente di fotografare qualche ginepro, a futura memoria.
Attraverso poi una zona di possenti muri a secco, in parte per sostenere terrazze, in parte per dividere proprietà. Un dettaglio che mi colpisce è che qui evidentemente mancano rocce scistose, per cui le pietre hanno forma molto irregolare, ma ciononostante resistono ottimamente, scalfiti solo dalle radici degli alberi che stano colonizzando gli spazi. Non so cosa coltivassero qui. Non mi sembra di vedere pali, quindi forse non erano vigneti, ma l'esposizione solatia si presta a colture pregiate. Il clima è tale che in zona erano coltivati anche mandorli e ulivi, e c'è pure un bosco spontaneo di lecci. Perdendo gradatamente quota, passo a monte di un complesso agricolo moderno e raggiungo il fondovalle presso un gruppo di case con una dimessa cappella.
Imbocco una sterrata tra case con giardino e orti. C'è pure qualche vigneto, ma solo uno abbandonato ha i pali in roccia, mentre quelli tenuti li hanno in legno. I vecchi CAI con cui feci le prime gite citavano il vin brusch dla val 'd Susa (il vino aspro della valle di Susa). A differenza di altre valli glaciali con orientamento est-ovest, come quella della Dora Baltea e la Valtellina, qui non sono nati vini pregiati da vendere a caro prezzo, nonostante le condizioni geografiche mi sembrino simili. Eppure di vigneti tradizionali ce n'erano a bizzeffe. A monte di Borgone ci sono ancora i resti di una zona di produzione, con tanto di botti e torchi in via di disfacimento. Va detto che, fino all'azione di Cavour, un po' tutti i vini piemontesi non erano certo pregiati, ma nel tempo alcuni sono riusciti a raggiungere l'eccellenza assoluta.
Raggiunto l'asfalto, proseguo per una via secondaria parallela alla ferrovia e alla statale del Moncenisio, dove il traffico è fortunatamente scarso, tanto che è impiegata per il passeggio con o senza cani. Non faccio particolarmente attenzione alle case, sanza infamia e sanza lodo. Noto solo che una ha un tappeto elastico per bambini, in buone condizioni. Di solito li si vede abbandonati nei giardini, perché si diffusero credo negli anni Novanta, salvo poi essere dimenticati, ma non smontati, quando ci si accorse che spezzavano più ossa di Ivan Drago. Fu una moda mondiale: sono immortalati anche in una puntata dei Simpson, in cui Bart e i suoi amici finiscono tutti con gli omeri fracassati. Mi pare poi che qui facciano anche a gara a chi ha il cane più bello.
Termino al cimitero di Mompantero, dove ritrovo lo stesso vecchio visto stamane, sempre a spasso con la mascherina nella via deserta. Rientrando in auto, mi accorgo di non aver notato una scritta land art NO TAV in pietre bianche, a valle del sentiero su cui sono transitato. A casa, davanti allo specchio, mi accorgerò che la luce velata mi ha arrossato la faccia, più che in una gita sulla neve di gennaio.

Per approfondire

G. Bodini, Antichi sistemi di irrigazione nell'arco alpino Ru, Bisse, Suonen, Waale, Ivrea 2002

Galleria fotografica

Urbiano
Urbiano
Urbiano
Urbiano
Urbiano
Urbiano
Acquedotto di Urbiano
Acquedotto di Urbiano
Monte Pirchiriano
Monte Pirchiriano
Madonna d
Madonna d'Ecova
Madonna d
Madonna d'Ecova
Braida
Braida
Nicoletto
Nicoletto
Ginepro
Ginepro
I boschi di Mompantero (Pollock)
I boschi di Mompantero (Pollock)
I boschi di Mompantero
I boschi di Mompantero
I boschi di Mompantero
I boschi di Mompantero
Chiamberlando
Chiamberlando
Foto di vetta (Rodčenko)
Foto di vetta (Rodčenko)
Rocciamelone e pini bruciati
Rocciamelone e pini bruciati
Monte Molaras
Monte Molaras
Ginepro
Ginepro
I muri di Ambruna
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Ginepro
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