Mombracho sopra Saluzo

Valle Po

9 maggio


In un baleno

Il Mombracco è una montagna davvero curiosa e singolare, a cominciare dall'assenza di una cima

Croce di Envie
Croce di Envie

Diario di viaggio

Geografia

Il Mombracco o monte Bracco è una montagna davvero curiosa, a cominciare dall'aspetto: è infatti priva di una vera cima, sostituita da un altopiano sommitale, i cui balconi sulle valli fungono da multiple vette equipollenti, marcate da grandi croci metalliche che portano il nome dei paesi su cui si affacciano. Anche la posizione è ragguardevole, in quanto la montagna è l’ultima protuberanza della valle che conduce alla sorgente del Po, un suo avamposto sulla pianura padana; è congiunto alla catena principale e da essa è separato tramite un'insellatura in via di approfondimento. Pertanto, nonostante l'altezza modesta, che non eguaglia neppure il valore dello stipendio lordo al livello più basso del terziario dequalificato, si staglia è ed facilmente individuabile quasi da ogni punto di vista, tranne se lo si osserva di lontano da est, da dove risulta schiacciato contro le verdi vette della media valle.
Il versante orientale, affacciato sulla pianura saluzzese, si presenta come verticalità fratturata in torrioni, avvolti in boschi di arduo accesso. Più dolci gli altri, specie quello rivolto alle valle Po, con anche qualche insediamento minore sulle pendici, anche se i paesi si arrestano alle falde, senza risalirlo. Infatti la montagna non è molto ospitale per l'agricoltura e la pastorizia: lo stesso nome parrebbe derivare da un termine celtico che significa sterile (sono state proposte tuttavia anche etimologie più varroniane). Di fatto era pressoché impossibile per l’acclività dei bassi versanti la coltivazione di cereali, rimpiazzati dal castagno: un testimone di Revelli, nato nel 1913 in un paese alle sue falde settentrionali, riferisce che la sua generazione fu la prima a consumare abitualmente il pane di grano.
Ciò non significa però che la montagna sia rimasta disabitata, perché alle magre agricoltura e pastorizia si sono affiancate attività alternative, quale la produzione di carbone da legna, ma soprattutto l'estrazione di una roccia scistosa molto adatta a realizzare coperture, la bargiolina. L'attività di cava strutturata è documentata dal tardo Medioevo (esiste un'abusata citazione in un manoscritto di Leonardo da Vinci, come vedremo), la pietra fu ampiamente adoperata nei monumenti del barocco sabaudo, ma la maggior fortuna è assai più recente, novecentesca, grazie all'attività di promozione internazionale di un'azienda svizzera che aveva in concessione l'attività di cava.
Oggi la maggior parte di queste attività produttive è stata dismessa, se si eccettua una pastorizia ovina estensiva, di cui però a maggio ho trovato l’unica traccia nei cartelli che mettevano in guardia dai maremmani. Di conseguenza è in fase embrionale un processo di naturalizzazione, che può essere osservato ai vari stadi lungo il percorso. La montagna non è però abbandonata, in quanto la presenza umana è comunque diffusa, pur se meno atta a modellare il paesaggio che in passato, sotto forma delle attività ricreative del tempo libero, come l'escursionismo a piedi e in bici, il motocross, il turismo culturale e gastronomico e la caccia. Queste lasciano tracce più puntuali di quelle passate, ma non meno evidenti, grazie all’accessibilità consentita dalle vie del passato sfruttamento e dalla vicinanza con la pianura, dove oggi si concentra gran parte della popolazione.

Il giro ideato a casa cerca di non tralasciare nessuno di questi connotati, seppure vedere ogni cosa in un solo balzo sarebbe impossibile. Segue per circa metà l’anello che circumnaviga la montagna un poco al di sopra della base, ideato e segnalato in anni recenti, ma se ne discosta per raggiungere l’altopiano prima in corrispondenza di due delle croci, quindi per curiosare tra la zona delle cave dismesse. Partendo dall'estremità settentrionale, più vicina a casa mia, seguo un verso orario, in modo da essere baciato dal sole tutto il giorno e avere il paesaggio del monte in favore di luce. Dovessi tuttavia giudicarlo dalla bontà delle foto che sono riuscito a scattare, lo valuterei come deludente, perché la luce primaverile poco si adatta ai fitti boschi, al cui interno si snoda buona parte dell’itinerario.
Avevo anche pensato di essere più purista e partire a piedi da Barge, alla base della montagna, ma sarebbe uscito un itinerario troppo lungo per la mia forma attuale (avrò le cosce indolenzite per un paio di giorni). Avessi consultato un po’ meglio la cartina, avrei potuto ideare una partenza da Envie, che la tagliafuoco sfiora, ma avrei perso il tramonto al monastero.

Geologia

La roccia di cui è costituita la montagna è diversa e più antica dai complessi ofiolitici che formano il dirimpettaio Monviso, questi ultimi il fondale vulcanico di un oceano scomparso, detto Tetide o oceano Ligure-piemontese: la nostra fa infatti parte del cosiddetto massiccio Dora-Maira.
Queste rocce facevano parte del continente paleo-europeo, il quale, dopo essersi allontanato dalla falda continentale africana aprendo la Tetide, invertì la rotta e si scontrò con essa, finendo al di sotto, sollevandola e piegandola, dando così origine a quelle pieghe della crosta terrestre che sono le Alpi. Durante questi processi, furono sottoposte a processi detti dai geologi metamorfosi, ovvero tensioni meccaniche accoppiate a rialzo termico, ma senza fusione, che hanno orientato i cristalli generando gli gneiss, rocce con piani di rottura privilegiati paralleli tra loro.
Nel caso del Bracco, questi piani sono orientati con un azimut di circa 0°-20°: pertanto il versante affacciato verso la valle Po digrada più o meno parallelo ad essi, mentre quello verso la pianura è ortogonale. Questo genera una frequente morfologia, nella quale il primo è dolce, mentre il secondo si presenta dirupato e fatturato. È così comune che in val d’Ayas queste montagne meritano un nome comune (palon), mentre i geologi la definiscono a reggipoggio (valle Po) e franapoggio (pianura).
La roccia più pregiata e decantata del monte è la bargiolina, composta principalmente di quarzo (65-85% in massa) metamorfosato; il colore è variabile, la più pregiata è giallo oro. Questa roccia costituisce solo una parte del totale: le migliori tecniche di produzione avevano la resa di un quinto di prodotto utile, mentre il restante è formato da caolini che venivano scartati e sono oggi ammassati sulle pendici della montagna.
Una leggenda locale, alimentata dal fatto che sul versante orientale la neve fonde in fretta per il soleggiamento, vuole invece che la montagna sia un vulcano. Nientepopodimeno che san Giacomo, il fratello di Gesù e suo successore a capo dei seguaci dopo la crocifissione, avrebbe spento un’eruzione incombente versandovi sopra l'acqua che teneva in una zucca per dissetarsi. A lui è dedicata la chiesa del monastero della Trappa.

Costruire dal tetto

Parto a piedi da La Trappa, dove vi fu per alcuni secoli un convento certosino e per pochi anni un insediamento di trappisti, dei cistercensi riformati in chiave più austera e penitenziale.
I certosini del XIV secolo cercavano l'isolamento dal mondo opulento del Basso Medioevo, limitando l'aspetto comunitario allo stretto necessario a praticare il desertum medievale, l'isolamento nella preghiera, tramite sia una vita quasi sempre solitaria che l’esiguità numerica: la consistenza numerica dei monaci non superò mai l’ordine di grandezza delle dita di una mano, meno di due anche contando i conversi, i monaci laici addetti alle faccende pratiche. Su questo monte gramo furono accontentati ben oltre le loro aspettative, al punto da condurre una vita stentata, sempre sull'orlo dell'indigenza. Tuttavia non fu loro estranea la nemmeno tanto sporadica commistione con i poteri forti, che avevano i loro agenti all'interno, così come i legami con molta gente comune, testimoniati da donazioni, lasciti testamentari, associazioni economiche con laici, pellegrinaggi, e persino l'interessamento diretto dell'antipapa avignonese, competente sulla loro zona. Si era resa ineludibile in seguito al fallimento dei primi tentativi del XIII secolo di un desertum montano anche nell’economia e nelle forme di sostentamento: seguì pertanto una discesa nel secolo planiziale, che finalmente consentì ai monaci di sostentarsi, financo nelle attività finanziarie genovesi.
I trappisti addirittura aspiravano proprio alla vita grama che questo monte poteva offrire loro. Oggi i dietisti sono giunti alla conclusione che la loro dieta magra è quanto più offre speranza di una vita lunga e sana, ma loro addirittura speravano in questo modo di prolungarla all'infinito. Su questo punto la scienza stenta a ottenere dati accertabili. Peraltro essi non condividevano certo le nostre aspirazioni edoniste, quando cerchiamo una vita lunga, rifuggendo persino il piacere delle semplici incombenze quotidiane.
Purtroppo possiamo dedurre i loro pensieri unicamente dai contratti che i monasteri stipularono con le realtà secolari, perché non ci sono giunti diari di monaci o verbali delle chiacchierate che i certosini intrattenevano tra loro durante la passeggiata settimanale prevista dalla regola.

Raggiungere comodamente seduto su un sedile un luogo così elevato, lontano dal mondo e sede di eremiti così ascetici, è uno sturpo di tutti questi valori passati, ovvero ciò che la cultura odierna definisce valorizzazione, convertire ogni cosa in fonte di profitto.
Infatti l'automobile ha un ruolo principalmente come vetrina della propria ricchezza o virilità, l'emblema delle merci da idolatrare assegnando loro il valore simbolico che i monaci riservavano alle ierofanie, per esempio devolvendo loro ogni anno migliaia di sacrifici umani e milioni di animali solo in Italia. Per contro, in qualità mezzo di trasporto è una ciofeca, in quanto spreca la quasi totalità dell’energia non rinnovabile che consuma sotto forma di calore e il resto serve essenzialmente a trasportare sé stessa (la frazione necessaria per me e il mio zaino è trascurabile). Utilizzarla estensivamente a questo scopo è la norma delirante, ma per le escursioni in giornata raramente è possibile elaborare alternative, mentre nei bollettini Cai ottocenteschi si vede come allora fosse abituale adoperare una rete diffusa di mezzi pubblici anche notturna.

La tagliafuoco

Arrivo incolume nonostante un camionista paia già sbronzo alle 8, perché sulle circonvallazioni tra Pinerolo e Bricherasio viaggia pianissimo e sta in mezzo alla strada. I pendolari in ritardo si infilano tra lui e la mia auto e serpeggiano, in attesa di una pausa nel flusso in direzione opposta, per superarlo sgasando. Dalla strada per Barge i boschi del Mombracco sono già di verde cupo estivo, nonostante oggi sia il primo giorno di tepore primaverile, dopo un periodo fresco e piovoso a cavallo tra aprile e maggio, seguito a un caldo quasi estivo nei primi giorni della primavera astronomica.
La mia è l’unica auto al parcheggio della Trappa, al margine di una rotonda al cui centro è infissa una lastra di bargiolina, la pietra estratta sul monte. Da qui sarebbe visibile il Monviso, dal versante in cui si mostra come perfetta piramide, ma in questo momento le nuvole sono spesse e compatte sui monti, più rarefatte sulla pianura.
Riempio la borraccia alla fonte e mi dirigo verso la pista tagliafuoco, che scende per tagliare quindi a mezza costa tutto il versante orientale della montagna. È interamente rivestito da boschi termofili, in prevalenza di castagno ceduo. Il primo tratto di pista può essere evitato seguendo sempre dal parcheggio le indicazioni per delle falesie, per imboccare il sentiero 3, che taglia diritto verso nord-est, anziché seguire il suo lungo giro vizioso. Quasi subito mi affaccio su una placca panoramica dotata di alberello sinuoso su un lato, come le vedute del Cignaroli; per imitarlo con la mia foto manca però un compagno di gite nella veste di spettatore e lo spazio per le sue prospettive tele. La vista è sulla pianura cuneese, che si perde nell’abbagliante foschia prima che lo sguardo possa raggiungere le Langhe e le antenne del Beigua, che nelle limpide giornate possono essere scorte con il binocolo. Al margine settentrionale dello scorcio compare invece la collina torinese. Sull’orlo della placca sono infisse le chiodature dei rocciatori.
Il fondo stradale è occupato in larga misura da rivoli di acqua limpida, dovuta al breve ma intenso rovescio che questa notte si è scaricato sulla zona, come evidenziato dai pluviometri di Barge ed Erasca. La strada scende quindi decisa a tornanti nel castagneto ceduo, tra torrioni rocciosi, tra cui ne spicca uno con una marcata erosione a favo di api, dovuta all’idrolisi selettiva di certi minerali, che poi prosegue allargando il foro. Oltre pian di Previ ne vedrò invece una con tafoni. Il fondo è molto eroso, non so se solo per il dilavamento o anche per il contributo delle enduro, che su questa montagna sono incontri frequenti nei giorni festivi.
Al termine del tratto più ripido raggiungo un bivio, con vegetazione più rada; grazie allo squarcio riesco a scorgere la cappella di Madonna della Neve, costruita su un costone diretto dalla Tappa verso la pianura. Proseguo in quota su una sterrata tra spuntoni di roccia, fino a un pianoro più aperto, detto Pian di Previ, dove è abbandonato un carrello metallico con delle pietre, magari a testimoniare una passata attività di estrazione. Dal fitto bosco a monte emergono dei torrioni di roccia e alberi.
La chiesa di San Bernardo è indicata a due ore da un po’ di tempo e mi accorgerò che questi cartelli sono tarati su un passo trottante. La strada ora oltrepassa una serie di rii molto copiosi, che la invadono. Alcuni muri a secco sostenevano magari delle carbonaie, uno dei metodi più consolidati e diffusi per estrarre risorse dalle zone impervie; il carbone di castagno era apprezzato soprattutto in metallurgia. Non so se per le piogge o il vento, ci sono alcuni alberi di traverso, a volte anche senza percorso alternativo già consolidato, anche se oltrepassarli non richiede speciali qualità ginniche, ma semplicemente giri più tortuosi delle confabulazioni di un bambino colto con le mani nella marmellata. Prima di un costone un capriolo a valle della pista fugge alla mia comparsa, mentre più indifferenti paiono dei cinghiali: i cuccioli mi scrutano, un adulto grugnisce e si mette in moto. Poco oltre in mezzo alla via c’è una loro pozza, preannunciata da un penetrante odore di orina; per fortuna al mio passaggio non stavano facendo il bagno, ma raspando discosti.
Rocca Bert è una parete aggettante attrezzata con spit davvero alta e paurosa, forse anche per la tenebrosità della fitta foresta attorno e dell'esposizione a settentrione. Più solatie delle rocche sul costone successivo, che da un certo angolo paiono pure baciarsi, tanto che per un picnic sono state persino predisposte rudimentali panche, formate da tronchi nemmeno sbozzati. A suggellare questo romanticismo da depliant, sul salto sottostante si affacciano dei placconi di roccia violacea, con vista oggi fino ai dintorni di Torino, ma in giornate terse credo fino al Rosa.
Presso un torrione butterato con un nome goliardico, prorompono all’improvviso i canti dei passeriformi, tra cui l’apposita app identifica uno scricciolo e un pettirosso. Passati altri saliscendi e altre rocche, raggiungo un casotto di cemento, non lontano dal quale la strada termina presso una fonte, e da dove imbocco un sentiero dal fondo subito dissestato, che poi migliora nel bosco. La salita è molto ripida e per il caldo devo dosare lo sforzo per non grondare, nonostante l’ombra, alzando lo sguardo quanto basta a notare la croce di Envie sulla rocca più elevata e la Rocca di Cavour in pianura. Sento il campanile di Envie suonare il mezzogiorno. Sull’origine di questo nome aleggia una leggenda secondo cui Annibale, scendendo dalle Traversette, si affacciò sulla pianura e disse “Ecce vie”, da cui il nome del paese (il Lesima “lesa manus” in confronto mi pare vero). In anni recenti un geografo canadese, William C. Mahaney, ha riportato in auge questa via di ingresso del condottiero cartaginese, affermando che il rinvenimento al colle di una flora batterica derivata dallo sterco dei cavalli nei sedimenti di quel periodo ne è la prova, ma era stata avanzata già nel passato da altri studiosi.
Conquisto una selletta, che separa il monte da un cocuzzolo con roccia montonata su cui è edificata la rustica chiesa ottocentesca di San Bernardo, sul confine fra tre comuni, Revello, Envie e Rifreddo. La condivisione ha richiesto fin dalla fondazione delle regole chiare per le celebrazioni separate in occasione della festa patronale. I giornali disponibili non riferiscono di risse per le rivalità tra i paesi, come invece fanno in un caso per il san Bernardo di Roaschia, dove sono considerate la norma dai testimoni interrogati dall’antropologo Marco Aime, ma la guida del Mombracco le nomina. Visto che è la mezza, mi fermo per uno spuntino energetico a base di datteri e mela, rimandando il pranzo a dopo il prossimo strappo.

Into the wild

Sono intenzionato a puntare in quota verso Motetto, da cui virare ad angolo retto per risalire la ripida dorsale meridionale fino alla croce di Rifreddo. Tuttavia, poco più avanti trovo un’indicazione per la croce, che segue invece l’ipotenusa che passa da Rocca Danna, che non è riportato sulla cartina allegata alla guida. Questo, marcato da scoloriti bolli rossi, segue più o meno fedelmente una dorsale, tranne dove è troppo ripida, in un boschetto di castagni cedui, cresciuti a gruppi come polloni magari di vecchi castagni da frutto. Tale dorsale a tratti s’impenna e a tratti spiana. Non riesco a capire dove siano le incisioni rupestri di Rocca Danna, di cui non vedo indicazioni. Ad un certo punto la croce compare sovrastata da nuvoloni cupi, al di sopra di una bastionata rocciosa, tra cui dapprima stento a discernere quale possa essere la via, salvo poi individuare la probabile in un canalino boscato, che s’impenna ulteriormente rispetto alla via fin qui seguita. Un sentiero più marcato, lungo cui campeggiano enigmatiche scritte a vernici multicolori, punta in quota sotto la cima, ma capisco di dover seguire quello meno evidente diretto al canalino, come mi conferma più avanti una consunta scritta “Croce” su un masso.
Subito si fa davvero erto: una mia vecchia conoscenza, che vanta una settantina di 4000, lo definirebbe «ai confini del primo grado inferiore». Ad un certo punto mi trovo persino costretto a fidarmi di un canapone marcio, per superare indenne un salto fangoso senza dovermi impiastricciare i pantaloni strisciandoci sopra in qualche goffa maniera. L’ambiente è quanto di più selvaggio si possa immaginare e, dal punto di vista paesaggistico è forse la mia porzione preferita del giro, anche se non certo da quella escursionistica, dovendo penare alquanto. La traccia è segnata e marcata il minimo indispensabile a procedere senza incertezze. Inoltre non scatto foto, perché l’ambiente di fanghiglia, rocce e noccioli è quanto di più caotico si possa immaginare, che si può apprezzare solo con un’immersione tridimensionale anche tattile, mentre in un’immagine bidimensionale meramente fotonica non emergerebbe che dell’informe. Quando manca ormai poco, mi sporgo su un gruppo di placche pianeggianti, che offrono un buon panorama verso sud. Finalmente posso utilizzare la fotocamera, anche se magari avrei dovuto anche scattare quando era comparsa la croce prima del canalino.
Proseguo tra boschetti diradati e prati con genziane di Koch o Clausius, quelle a campanula rovesciata (vai a ricordare quale ha la strisicia verde grazie a cui si distinguono, o almeno a quale pH del terreno è associata ciascuna), fin dove il sentiero spiana. Tra le varie protuberanze del monte, resto un po’ interdetto sulla direzione da seguire, non vedendo la croce, che è nascosta dietro un dosso, perché affacciata sulla valle. Alla congiunzione con il sentiero proveniente dall’altopiano, nessun cartello o scritta indica la mia via di salita.

Le masche di Rifreddo e Gambasca

Tra le tre croci del Mombracco ho deciso di toccare quella di Rifreddo, per la storia del processo di stregoneria che coinvolse nove donne di questo paese e della frazione Gambasca nel 1495. Di tre ci sono giunti i fascicoli processuali.
Il procedimento prese il via quando Vito dei Beggiami, «dottore di sacra teologia», «maestro», «inquisitore generale nella provincia di Lombardia e della Marca genovese e di tutto il Piemonte», venne in questo angolo rurale del marchesato di Saluzzo. Con tutta probabilità era stato chiamato dalla badessa del monastero cistercense di Santa Maria della Stella a Rifreddo, tramite l’intercessione del suo cappellano. Una vedova, Giovanna Motossa, aveva picchiato violentemente una giovane inserviente delle monache, poiché l’aveva sorpresa a rubare nell’orto e minacciava di rendere pubblica la scoperta. Qualche giorno dopo la ragazza morì per le percosse subite. Il delitto, per qualche ragione, dovette turbare profondamente la comunità monastica, tanto che non si procedette immediatamente per via secolare, tramite il potere giudiziario del marchesato di Saluzzo, entro cui ricadeva il monastero, ma si attese alcuni mesi un passaggio di consegne tra inquisitori, in modo che costoro potessero entrare in azione. Questa vedova infatti in paese era sospettata voce populi di essere masca, per minacce proferite contro compaesani da cui aveva subito torti e che si erano inaspettatamente avverate, nella forma degli eventi improvvisi, che più erano dannosi e più risultavano inesplicabili nel decorso naturale delle cose e pertanto richiedevano una spiegazione demoniaca: le morti improvvise di bambini, adulti e bestiame.
Una volta che entrò in azione l’inquisitore, Giovanna Motossa e le altre donne coinvolte a cascata (ma furono citati anche uomini di paesi circostanti, su cui però non sappiamo nulla), confessarono il campionario di atti sacrileghi e malefici, con contorno di riti orgiastici, che ancora oggi associamo al folklore stregonesco. Gli inquisitori sapevano già in partenza che le masche esistevano e cosa facevano. Nei decenni precedenti si era affermata nella cultura colta una credenza nella stregoneria parallela e complementare a quella popolare, sanzionata nel 1484 dalla bolla Summi desiderantes affectibus di Innocenzo VIII e quindi dal famigerato Malleus maleficarum, scritto da due frati del medesimo ordine del nostro inquisitore. Questa ratifica portò la credenza nella stregoneria, con cui si era sempre convissuto fin dall’epoca romana e per tutto il Medioevo, a entrare nei tribunali.
Esiste la convinzione ingenua che, se qualcuno confessa un fatto, questo deve essere accaduto in una qualche forma simile: ricordo ad esempio gli episodi di Perry Mason in cui immancabilmente il colpevole confessa, scagionando il cliente dell’avvocato e componendo tutti i pezzi del puzzle che l’infallibile aveva rinvenuto. Tuttavia, dagli anni Ottanta del Novecento, dai pionieristici studi di Elizabeth Loftus, scaturiti da una caccia alle streghe contemporanea, il panico per gli abusi rituali satanici, si è visto come è parecchio facile ottenere testimonianze sincere di fatti mai avvenuti, anche emotivamente traumatici (in un esperimento eticamente controverso riuscì a impiantare nei volontari il ricordo di essersi persi da bambini un un grande centro commerciale).
Le tecniche di interrogatorio giocano un ruolo chiave nel far emergere nei racconti le aspettative dell’inquisitore. Sentii raccontare un episodio istruttivo e innocuo da Edoardo Russo del CISU. Stavano indagando su un meteorite caduto tra le montagne cuneesi e un astrofilo aggregato al gruppo, che non vedeva l’ora di trovare questo meteorite, chiese a una pastora: «[La scia] era verticale?». La pastora rispose prontamente di sì, cosa che implicava che fosse caduto nei dintorni. L’astrofilo si attivò per organizzare una ricerca, ma a questo punto Russo riformulò la domanda in maniera più chiara e aperta: «L’era parei o l’era parei?» (era così o era così?), facendo il gesto delle scie orizzontali e verticali. Naturalmente la signora convalidò il segno orizzontale.
Adoperando interrogatori brutali, che prevedevano anche la tortura, come emerge dai verbali conservati nell’archivio comunale, gli inquisitori imboccarono le confessioni delle sventurate e videro confermate le proprie certezze. La prima a confessare fu l’omicida, che raccontò l’episodio come se il demone che l’aveva asservita l’avesse costretta a commettere il reato contro la sua volontà, magari per tentare di scagionarsi, e coinvolse a cascata le altre imputate. Nel Medioevo invece il processo era di tipo accusatorio, in cui contavano le testimonianze, le quali, come abbiamo visto non contenevano tutto questo immaginario di sabba, ma uno molto più semplice e cricoscritto, per cui i processi per stregoneria rimasero episodici e non innescarono le reazioni a catena tipiche della confessione sotto tortura.
Nelle testimonianze di accusa così come nelle confessioni delle masche, si rinvengono alcuni elementi folklorici presenti tutt’ora nelle leggende contemporanee, come i furti di bambini delle zingare, il passaggio attraverso le porte dei rapimenti alieni, il soffio delle guaritrici, l’ostia risputata dei satanisti odierni, il tocco mortale sbeffeggiato nella celebre canzone di Elio e le Storie Tese, ma anche elementi sociali del tempo, come il rapporto di dominio maschilista e violento del demone sulle masche e financo le fantasie sessuali del clero.
Dai fascicoli emergono anche altri elementi comuni a molti processi di stregoneria del tempo, su tutti l’assenza di un potere centrale forte: la famiglia dell’unica accusata di ceto sociale benestante, Caterina Bonivarda, per difendersi attivò il marchesato fin nelle sue alte sfere, ma questo si rivelò impotente di fronte all’azione del monastero, che aveva giurisdizione autonoma su questi comuni e fedeltà al vicino Ducato di Savoia, che aveva regnato brevemente su questa zona nei decenni precedenti.
La sorte di queste donne non è data sapere. Furono condannate per eresia e apostasia e consegnate al braccio secolare, che per questi casi prevedeva la pena di morte, come stabilito da una legge dell’imperatore Federico II, ma non sappiamo quale pena fu effettivamente comminata.

Testimoni di pietra e di sangue

Alla croce consumo il pasto principale della giornata, che consiste in una zuppa di farro e legumi, arricchita da un’arancia e due tavolette di cioccolato alla menta come dessert. La zuppa è abbondantemente pepata, ma non salata, tuttavia unicamente per ragioni organolettiche e salutistiche e non in spregio al marchese Ludovico II e al suo traforo lungo la via del sale. Frugale ma molto gustoso, anche molto medievale, in parte perché il piatto principale evoca la spartana dieta certosina, il resto lo sfoggio nobiliare di ricchezza con le pietanze di terre esotiche, per quanto con l'anacronismo del cacao. Mi raggiunge un signore, con cui scambio solo un saluto di benvenuto e uno di commiato. Lascio due righe sul quaderno della croce in cui commento il sentiero di salita.
Da qui posso osservare i due volti del cielo, coperto sui monti e sgombro in pianura. Per il rifugio Mulatero seguo il sentiero poco sotto il dosso sommitale dell’altopiano, tra betulle e noccioli di ripopolamento, con qualche albero caduto. Sbuco sulla pista terrosa proveniente dalle cave e raggiungo l’edificio, dove mi attendono due ragazze, che magari cercavano intimità e si vedono disturbate. Non entro nel bivacco, costruito dagli amici di un ventiduenne di Sanfront, morto nel 1994 in un incidente stradale a bordo del furgone aziendale, inaugurato un anno dopo la sua morte con un’adunata oceanica, ma mi limito a un giro esterno per fotografare la croce di Sanfront, che si protende su un promontorio roccioso contro il cielo cupo e le montagne ancora innevate oltre i 2000 m. Lì a fianco quattro anni fa un elicottero del Soccorso Alpino mi issò come un sacco di patate, dopo che mi ero fatto male giocando la cagna di un collega: correndo caddi in una buca, che avevo pure notato in precedenza, e mi si insaccò un ginocchio; non avevo nulla di rotto, ma il dolore era atroce e dovetti stare due settimane a riposo prima che passasse. È la prima volta che torno qui da allora e mi fermo senza raggiungere la croce.
Rabbocco la borraccia con molta pazienza, dal sottile filo d’acqua che esce dalla fontana lignea. Sull’altopiano l’acqua scarseggia, per cui i cavatori dovevano essere riorniti di acqua sorgiva da staffette. Attraverso un prato con delle meire e scendo nella comba Reynaud, una valletta incisa da un torrente, in passato fittamente colonizzata dalle attività agricole, di cui restano gli edifici in pietra e i muretti a secco. Quasi subito trovo un mazzo di narcisi, che provo a fotografare assieme alla croce di Sanfront, ma a casa scoprirò che la profondità di campo non era sufficiente, nonostante avessi chiuso il diaframma quanto la fotocamera consente. Una decisa discesa mi porta a oltrepassare il rio su un ponticello e mi inoltro in una zona dove il sentiero è stato ripristinato in anni recenti, perché la mia vecchia guida delle incisioni rupestri lo dà come perduto. La sua stessa esistenza oggi è appesa a un filo, data l’asprezza del versante: in un punto devo strisciare su una ripida placca fradicia (almeno ruvida), quindi penare tra fanghiglia per aggirare dei noccioli caduti.
Raggiungo una placca rocciosa affacciata sull’incassata valletta boscosa, dominata dalla croce di Sanfront. Mi chiedo se sia già questa Roca la Casna, la roccia con le incisioni rupestri, ma non noto nulla. Proseguo tra spettacolari roccioni aggettanti variamente sagomati, torrioni rocciosi che offrono riparo a rustici edifici, tutto in un lussureggiante bosco. Incrocio una coppia di mezza età, a cui non oso chiedere se le incisioni siano più avanti o se le ho perse, temendo di fare figuracce. A un bivio con un sentiero non segnalato devo affrontare un breve traverso con catena su rocce in pendenza, poi altre rocce più scivolose e senza aiutino, fino ad arrivare finalmente alla vera Rocca la Casna, una roccia protesa nel vuoto con incisioni.

La principale e più profonda, facilmente individuabile anche senza luce favorevole, che raffigura uno schematico omino con braccia sollevate e attributi sessuali, è divenuta il simbolo della montagna nella pubblicistica promozionale. È interpretato come orante e attribuito all’Età del Bronzo. Non esiste un metodo meccanico per datare un’incisione, come il carbonio 14 per i reperti organici (o le pitture che li adoperano), ma bisogna ricorrere a una molteplicità di deduzioni indirette, sempre ipotetiche. Peraltro un abitante di case Reinaudo sosteneva che li avesse incisi suo nonno. Men che meno si possono dispensare certezze sull’interpretazione, perché queste culture erano puramente orali e non ci hanno trasmesso documenti sul significato delle loro opere figurative.
Per prima cosa scatto una foto con il cellulare da mandare alla fidanzata, con cui visitai la sottostante Balma Boves poche settimane addietro, ma non riuscii a salire qui perché mancava il tempo, quindi ne scatto qualcuna per me, inserendola nel contesto ambientale.
Spendo qui due parole per Balma Boves, semplicemente la Barma per i locali, dove oggi non scendo, ritenendolo ridondante dopo la recente visita guidata, ma che è una magnifica testimonianza della civiltà agricola rimasta quasi intatta. Il borgo, in cui vivevano tre famiglie, fu costruito al riparo di una parete aggettante. Il termine balma designa appunto questi ambienti: di solito viene sostenuta un’origine celtica (ma in Liguria l’analogo arma è adoperato per le grotte), mentre la volontaria che mi ha accompagnato per la Barma proponeva un termine latino a indicare la chiusura come una conchiglia, quindi credo valva. Per Boves avanzava invece l’idea che in un qualche momento, su questi pendii scoscesi da capre e pecore, qualcuno avesse osato tenere delle vacche, un’azione così inusuale da dover essere immortalata nel nome del luogo (gli ultimi residenti avevano anche un paio di vacche, oltre alle capre).
Presumibilmente fu abitata da tempi remoti, in quanto ripari esposti a sud furono tra i primi insediamenti stanziali delle Alpi già nel Neolitico (basti pensare alle grotte di Aisone), ma qui non sono mai stati condotti scavi archeologici per mettere alla prova queste supposizioni; gli edifici più antichi oggi esistenti sono del Settecento. Gli abitanti praticavano una misera agricoltura di sussistenza e autoconsumo al cui centro vi era la castagna, per cui ogni casa aveva il suo essiccatoio, che ha lasciato una traccia indelebile sul tetto della balma sotto forma di depositi di nerofumo. Gli ultimi ad andarsene erano tuttavia pendolari, perché lavoravano in aziende dei dintorni. Esiste anche un forno, dove veniva cotto un pane di meliga comprata sul mercato, ma è un’aggiunta recente. Ogni cibo necessario era prodotto in loco, compreso il vino, grazie a un piccolo vigneto di uva fragola, mentre i latticini degli ovini erano scambiati al mercato di Sanfront per procurarsi cibi e strumenti che non era possibile autoprodurre: ad esempio, nell'ultima casa abitata il piano su cui far seccare le castagne è formato da una moderna rete metallica e una paga generosa fu occasione per acquistare una bombola di gas, grazie a cui non di doveva accendere un intero focolare di legna per farsi un caffè prima di andare a lavorare.
Gli ultimi abitanti, una donna anziana e il figlio Giacomo, la lasciarono nel 1961: mentre per la donna la separazione fu traumatica, tanto che perse il senno, per il figlio, tutt’ora in vita, fu una liberazione dalle immense fatiche e privazioni e la promessa di una vita meno disagiata. Al di là delle notazioni materiali, una testimonianza in prima persona degli ultimi abitanti è fornita da un documentario di Fredo Valla, proiettato dentro un locale della Barma e disponibile su youtube. Sentiamo Giacomo e la sorella Pasqualina ricordare la bambola Gina fatta da un martello ricoperto da un pezzo di stoffa, il silenzio, il freddo e la neve, la fatica, la prima uscita al cinema, la scuola lasciata presto per diventare bambini affittati come servitù domestica o agricola, il cosso ricordo del papà morto per tetano quando erano infanti, alternati a ricostruzioni di scene di atmosfera. Oggi la Barma è stata trasformata in museo, aperto nei festivi (l'esterno delle abitazioni è sempre accessibile) ed è anche possibile prenotare visite guidate. Gli interni sono stati arredati con materiale della zona. La bicicletta con cui Giacomo andava al lavoro è stata trafugata e sostituita con una qualsiasi.

La montagna di Leonardo

Oltre le incisioni, percorro un sentiero in quota, a tratti esile a tratti ampio, fiancheggiando abbondanti testimonianze della castanicoltura, sia negli alberi sopravvissuti, sia nelle casette di servizio o essiccatoi che fossero. Il paesaggio è però profondamente diverso da come appariva quando questa coltura fioriva, perché allora il sottobosco era assente, per permettere la raccolta a terra, rendendo la zona ordinata come i parchi che vidi a Lugano. Oggi invece devo aggirare molti alberi caduti, più che altro noccioli di invasione, molto meno castagni, ma solo in un caso il passaggio è scomodo, perché devo strisciare un pezzo alla volta in uno stretto pertugio tra il tronco e la ripa di terra, infangando lo zaino. Dal punto di vista naturalistico, ricordo invece una betulla morta bucherellata dai picchi e un buprestide, uno di quegli scarabei dai colori metallici, che vivono in acqua (oggi ce n’è davvero tanta nei rii e nelle pozze).
Poco oltre il razzolamento nel fango, sbuco sulla pista dal fondo di ghiaia bianca grossolana che serviva le cave. Qui lascio l’anello di Leonardo, che prosegue più o meno alla medesima quota, per puntare invece in alto verso le cave. Frattanto il cielo si è in gran parte sgombrato di nubi e persino il Monviso appare quasi nella sua totalità. Indosso pertanto il cappellino e risalgo i tornanti mirando le strisce meno erose e le zone in ombra, sotto un sole a picco ma non eccessivamente caldo. Il bosco non è più di castagni, ma di betulle. Incrocio le due ragazze del Mulatero.
Al termine di una monotona successione di tornanti, una ruspa rossa, dei fuoristrada parcheggiati e degli edifici di cemento e lamiera in rovina annunciano le cave di Pian Martino. Entro dentro a uno di questi e ci trovo un deposito di legna e dei mobiletti metallici arrugginiti. Passo quindi tra colate di pietre di scarto, tra cui tento invano di individuare delle dendriti, delle cristallizzazioni degli ossidi di manganese che assumono una forma frattale simile a felci e, per questa ragione, sono anche dette pseudofossili. Ubaldo Valbusa, il naturalista a cui si devono tutti quei nomi patriottici e irredentisti delle cime secondarie del Monviso, oltre che l’attuale localizzazione del Quintino Sella, scialò per esse durante una gita sociale di appena quattro partecipanti. Invece il mio odierno motivo di gioia è stato il buprestide, i cui riflessi metallescenti mi piacciono un sacco e mi ricordano la pioggia, finalmente abbondante dopo i precedenti anni di terribile siccità.
Raggiungo un pianoro sbarrato da colline di scarti, dove la vegetazione di brughiera e betulle piccole e magre ha ricoperto le nudità lasciate dallo scavo. Ai margini ci sono edifici in bargiolina a secco e altri in cemento con vestigia elettrotecniche. Non vi erano alloggiamenti per i lavoratori, perché la maggior parte saliva a piedi ogni giorno dai paesi sottostanti, camminando anche un paio d’ore ogni volta, dal momento che la sera doveva ancora badare all’attività agricola familiare. Al massimo qualcuno, privo di tali incombenze, dormiva in una baracca, ma era necessario avere qualcuno che gli mandasse il cibo con le teleferiche di servizio. Lavorare il quarzo inoltre causa la silicosi, una cicatrizzazione degli alveoli polmonari dovuta alla durezza della polvere respirata. Colpiva soprattutto gli addetti ai mulini, più esposti alla polvere, ed è molto invalidante, perché blocca il trasferimento dell’ossigeno nel sangue e rende così la respirazione affannosa. Può essere alleviata con un lavaggio polmonare incredibilmente doloroso.
A questa pietra si interessò nientepopodimeno che Leonardo da Vinci, il quale, in un appunto datato 5 gennaio 1511 e oggi conservato nel manoscritto G dell’Institut de France (foglio 1), afferma che gliene è stato promesso un campione per miscelare i colori, da un compare scultore di nome Benedetto, identificato come Benedetto Brioschi, un valente scultore milanese. Questo ha portato alcuni, tra cui anche deliberati falsari, a ricamare su una visita leonardesca sul monte, magari per osservare il traforo delle Traversette, di cui non vi è però nessuna traccia documentaria. Ad esempio il grande alpinista vittoriano Douglas Freshfield riteneva che il Monboso citato nel manoscritto Leicester, che il fiorentino osservò da vicino durante un'ascensione, non fosse il monte Monte Rosa, come comunemente ritenuto, bensì il Monviso. Anche un’Ultima Cena dipinta a Revello qualche anno più tardi, ispirata alla sua ma eseguita con minore maestria, ha contribuito ad alimentare supposizioni.
Tuttavia nell’appunto sono date distanze imprecise tra il Mombracco e il Monviso, cosa che porta piuttosto ad escludere che il genio o anche solo qualche suo contatto diretto abbia mai visto di persona questi luoghi. Alla fine della fiera, nel materiale promozionale il Mombracco è nobilitato come “montagna di Leonardo”, più o meno come se il Monviso fosse comunemente chiamato "montagna di Virgilio” per la metafora del Vesulus pinifer.
Nel Cinquecento, qualche decennio dopo Leonardo, alcuni autori fanno riferimento all’estrazione dal Mombracco di cristalli, che essi definiscono diamanti. Nell’Anfiteatro del Romani si avanza anche l’ipotesi che si formino per condensa dell’acqua del Po esposta al calore del sole (nel contemporaneo De alpibus commentarius, lo svizzero Simler sosteneva invece che i cristalli fossero ghiaccio pietrificato).

Mi fermo a fare merenda su un sasso all’ombra, poco prima di una zona cintata con reti metalliche. Finisco l’ultima ruggine e poi bevo un tè speziato con i biscotti. Con questo ho pressoché finito le provviste, a parte una manciata di datteri, perché non ho portato molto da mangiare. Proseguo lungo la recinzione, che delimita un’area per esercitarsi a sparare. Da qui ho una buona visuale sul Monviso, ora privo di nuvole (per un attimo vedo una specie di collana attorno alla vetta, ma non faccio in tempo ad arrivare a un punto di vista sgombro che è già svanita) e su Paesana con l’infilata della valle Po. Proseguo costeggiando degli edifici in rovina e dei cumuli di pietre rosse puntinate di verde, per uscire infine dalla zona di cava dall’ingresso principale. Accompagnato dai richiami dei cuculi, che mai sono riuscito a vedere in tutte le mie escursioni, attraverso ora un bosco più maturo di faggi, tra cui spicca un melo in fiore.
Confluisco sulla sterrata tra la Trappa e la croce di Envie. Sarebbe l’ora giusta per salirvi ad ammirare il tramonto, ora che le nuvole sono quasi scomparse ovunque, ma l’ho già fatto altre volte con attrezzatura fotografica più adeguata. Peraltro credo che dovrei aggiungere almeno altri 40 minuti di salita. Da lì si vede persino il 4000 svizzero che ogni buon panorama deve avere, il Weisshorn in questo caso, in aggiunta all’ombra del Monviso proiettata sulla pianura. C'è un ampio ma rudimentale bivacco, dedicato anche stavolta a un ragazzo scomparso all'improvviso in giovane età, dai giornali pare di capire per un malore mentre era al lavoro.
Preferisco invece scendere a passo rilassato, fino a raggiungere la Trappa. Faccio una puntata agli edifici, dove mi pare di ottenere un buon controluce tenebroso da una madonnina alla finestra. Me ne vado in contemporanea agli unici abitanti oggi saliti qui, due anziani che stanno liberando i gatti dopo averli nutriti. Qui vivono o soggiornano numerosi gatti socievoli, un piacere da coccolare.
A Barge devo arrestare la mia corsa verso la birra e le patatine (oggi è chiuso il ristorante di cucina grassa accanto al monastero), per consentire a dei bambini che giocano a bordo strada di recuperare il pallone sfuggito. Il più piccolo in particolare è davvero avventato, perché si lancia in mezzo alla strada badando solo alla palla. Quelli più grandi mi ringraziano per la cortesia mentre li oltrepasso. Beati loro che possono permettersi di giocare in mezzo alla strada: gli spiazzi dove giocavo io, adesso sono stati espropriati dalle automobili parcheggiate o sono stati privatizzati a beneficio del calcetto.

Per approfondire

M. Bianco-C. Mustazzu, Le vie del Mombracco. La montagna di Leonardo, Saluzzo 2019
R. Comba [a cura di], Il fascino dell'eremo. Asceti, certosini e trappisti sul Mombracco nel secoli XIII-XVIII, Cuneo 2010
G.G. Merlo, Streghe, Bologna 2006
A. Molinengo, Bambini affittati, Scarmagno 2012
P. Natale, Mombracco montagna sacra, Savigliano 2001
N. Revelli, Il Mondo dei vinti, Torino 1977
Fredo Valla, La Barma, Youtube

Galleria fotografica

Pian di Previ
Pian di Previ
Croce di Rifreddo
Croce di Rifreddo
Croce di Sanfront
Croce di Sanfront
Roca la Casna
Roca la Casna
Balma Boves
Balma Boves
Balma Boves
Balma Boves
Balma Boves
Balma Boves
Cave di Mombracco
Cave di Mombracco
Paesana
Paesana
Croce di Envie
Croce di Envie
Tramonto dalla Croce di Envie
Tramonto dalla Croce di Envie
La Trappa
La Trappa
La Trappa
La Trappa

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Sergio Chiappino

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