Intorno a Monterosso
Cinque Terre
18 gennaio
In un baleno
Si cammina un po' al di qua e un po' al di là dello spartiacque. A ovest c'è la verdeggiante conca di Levanto, con le sue borgate di case gialle sparse sui pendii, che la luce bassa del pomeriggio invernale pennella di chiaroscuri; ci sono molti sentieri che le uniscono anche se talvolta sono poco praticabili a causa della vegetazione invasiva. A est si estende la linea di costa del parco, che si abbraccia nella sua interezza, fino all'isola del Tino
Diario di viaggio
Questo ampio anello consente di ammirare diversi ambienti delle Cinque Terre: comprende infatti una sezione del sentiero costiero, con i tipici terrazzamenti e la foresta di lecci, due dei santuari posti poco a monte dei paesi e un breve tratto di Alta Via. Da Monterosso si segue il sentiero costiero fino a Vernazza (che è a pagamento in certi periodi dell'anno). Si sale quindi al santuario di Reggio, da cui si imbocca la Via dei Santuari fino a confluire sull'Alta Via al Termine, nei pressi di Soviore. Da qui si segue la strada fino a colla di Gritta, da dove si bordeggia la dorsale fino a Punta Mesco. Si rientra infine a Monterosso. Circa 7 ore di cammino (tempi del Parco) e 1000 m di dislivello (altimetro mio), distribuiti tra mille salitine.
Se lo si percorre in qualche tersa giornata invernale si può anche evitare la folla che in alta stagione si addensa in queste zone.
A Genova comincia a farsi giorno e si vedono incombere nuvoloni, ma di quelli che annunciano tempo mosso, fresco e ventilato, senza la detestabile maccaja. Il treno scarica a Camogli un conoscente, incontrato casualmente al Lingotto, che fa la traversata costiera fino a Portofino; poi a Deiva il gruppo di escursionisti del vagone accanto. Con me non scende nessuno zainuto, ma solo qualche turista in ordine sparso. Salto la focaccia e mi incammino per il sentiero costiero, diretto a Vernazza. All'imbocco un foglio sbrindellato, risalente all'ultimo periodo di piogge intense, vieta il passaggio per quei giorni; per fortuna quella volta il Levante è stato risparmiato. Mi inerpico per le ripide scalinate incassate tra le fasce (i terrazzamenti), che hanno sì le caratteristiche monorotaie per il trasporto dei carichi, ma non le vigne che che si vedono nei depliant per turisti. Qui infatti assomigliano di più agli orti suburbani, con ampio uso di materiali di recupero e rudimentali impianti per ortaggi.
Finalmente i gradini finiscono e comincia una serie di saliscendi. Nel primo tratto, come del resto tra i gradini precedenti, il sentiero è molto stretto; qui dovevano essere ben magri e sicuramente non incrociavano escursionisti con la borsa fotografica a tracolla. Si attraversano per lo più zone selvagge, a lecceta o macchia, tranne che in un tratto in cui si sottopassa la strada: qui si costeggia una casupola con dei terrazzamenti coltivati. I versanti sono molto ripidi. Per proteggere il sentiero si fa ampio suo di muri a secco, che però in certi punti sono un po' gonfi, tanto che viene da chiedersi se reggeranno il prossimo giro di piogge intense; col clima della zona l'incertezza è solo sul quando.
Mi sorpassa un cane indifferente seguito da un taciturno padrone. Dopo qualche scorcio sulla retrostante Punta Mesco, dove arriverò nel pomeriggio, ma che ora si allontana, varco una dorsale e poco più avanti si mostra Vernazza; più lontano si intravedono gli altri borghi colorati. Poco prima di raggiungere delle case isolate, mi imbatto in una colonia felina, isolata ma ben organizzata, con tanto di secchio di crocchette a cui i passanti possono attingere per nutrire i mici. Il primo gatto che vedo, ben pasciuto, mi ignora, mentre una gattina molto magra ignora la ciotola ed emette miagolii strazianti, come se chiedesse di essere adottata.
Lungo gli erti gradini che scendono in paese incrocio un po' di turisti ed escursionisti che procedono in verso opposto. Mi appaiono gli scorci visti in diecimila foto su Internet; mancano tuttavia le barchette nel porto. Passando tra le prime case e i primi orti, attira il mio sguardo la prua di una barca rossoblu che spunta dal solaio di una casa. In paese circolano groppuscoli di turisti orientali. Faccio un giro fino al porto, dove sono in corso dei lavori, acquisto una cartolina fopposa da un tabaccaio e gli chiedo le indicazioni per il santuario di Reggio. Risalgo i gradini e i vicoli fino al municipio e al cimitero. Da qui comincia una mulattiera lastricata con edicole della Via Crucis. Le scene non sono dipinte, ma incise su marmo, anche se talvolta sono di difficile decifrazione, perché molto rovinate. Vedo scendere il signore col cane che mi aveva superato. Stavolta il cane viene ad annusarmi, mentre il padrone se ne sta sempre sulle sue. Probabilmente è salito alla Foce di Drignana, sulla dorsale che separa le Cinque terre dalla val di Vara.
Tra fasce di ulivi quasi tutte abbandonate arrivo a Reggio, dove c'è solo un vecchio che tiene aperto il santuario e un rudimentale ristoro. Il santuario si trova in uno spiazzo contornato da lecci secolari, che sembrano quasi neri contro l'abbacinante scia del sole basso sul mare. Mi fermo a mangiare un boccone, al sole, perché soffia una brezza gelida, specie quando passa qualche nuvola ad oscurarlo. Decido di sfruttare il ristoro per qualcosa di caldo. Mi intrufolo e scopro che è tutto autogestito: il vecchio mi spiega come far funzionare la macchinetta con le capsule del tè solubile. L'intruglio che ne risulta è terribile: sa di aroma di limone zuccherato (io bevo il tè liscio), e non è neppure tanto caldo. Lo bevo consultando la cartina e lascio la mia offerta nella cassetta.
Il signore intanto è sparito e così me ne vado senza salutare. Cerco invano la tomba del crociato che ci dovrebbe essere da qualche parte nel santuario e mi rimetto in cammino, senza togliermi gli strati da pausa ancora per un po', in attesa di riscaldarmi col moto. Per una traccia tra case abbandonate risalgo alla strada di accesso del santuario, trascuro il sentiero che porta verso l'Alta Via e vado verso Soviore, lungo la Via dei Santuari, il sentiero di mezzacosta. Proprio dove si lascia la strada, si ha una magnifica vista di Vernazza,che a quest'ora si trova sulla scia del sole sul mare. Si attraversa un'ampia fascia di macchia mediterranea. Ad un certo punto si trovano i resti di una costruzione. Cosa ci faceva una casa qui nel nulla? Forse una volta questa zona era mantenuta a prato, o forse le capre erano abbastanza adattabili a questa vegetazione. Sopra la mia testa vedo passare un po' di parapendii, che decollano da un prato sul margine della strada. Mi domando solo dove trovino il posto per atterrare su questi pendii così impervi. Dalle mie parti di solito i club comprano dei prati di fondovalle che attrezzano con maniche per il vento, ma qui non c'è un fondovalle. Magari si caleranno sulla spiaggia di Monterosso.
Il sentiero confluisce sulla strada dove corre l'Alta Via. Questo tratto non è molto gradevole, perché si passa in una zona di pineta rovinata dalla cocciniglia. Si tratta di un parassita originario delle zone atlantiche della Francia, dove vive in equilibrio con i suoi ospiti. Giunto in Costa Azzurra con il commercio del legname, è diventato infestante e si è espanso ormai fino alla Toscana, facendo gravi danni. Purtroppo è impossibile intervenire con antiparassitari o simili, perché si ricopre di uno strato di cera ed è qui molto resistente. L'unica strategia è abbattere i pini più danneggiati e sperare che una parte sufficiente si dimostri resistente. Invece più a est l'Alta Via è più bella, perché attraversa castagneti cedui dove, grazie al clima favorevole, interi alberi sono ricoperti di licheni, come in una saga nordica.
Di qui tocca seguire l'asfalto fino al santuario di Soviore. La chiesa si trova al fondo di un piazzale inghiaiato rettangolare, delimitato sul lato monte da un edificio rosa con porticato e, sul lato mare, da un filare di lecci secolari coperti di muschio e licheni. Vi trovo una famiglia, che sta usando il piazzale deserto per insegnare al figlio piccolo ad andare in bicicletta. Subito dopo di me arriva da Monterosso una coppia di escursionisti, che attraversa tutto lo spiazzo per sistemarsi in fondo, sull'unica panchina riparata dal vento. Non c'è traccia invece della colonia felina incontrata l'anno scorso, e in particolare di quella gattina femminile e affettuosa per cui mi ero portato le crocchette. Mi concedo una pausa vista mare, sulle panchine al sole tra i lecci. Mentre me ne sto andando, comincia ad affluire qualche fedele per la messa del pomeriggio.
Oltre Soviore tocca fare un bel tratto di asfalto, ma per fortuna oggi il traffico è scarso. Incrocio un sorridente escursionista che sale in verso opposto. Finalmente a Colla di Gritta ricomincia il sentiero. Questo è il tratto più faticoso, per via di un'estenuante successione di saliscendi: strappo ripido, discesa sconnessa e di seguito un altro uguale. Per fortuna dopo un po' i dossi si fanno via via più dolci. Si segue la dorsale boscosa che separa le Cinque Terre dalla baia di Levanto. Queste pinete sembrano più risparmiate dalla cocciniglia di quelle dell'Alta Via, tranne che attorno a Colla di Bagari. Si cammina un po' al di qua e un po' al di là dello spartiacque. A ovest c'è la verdeggiante conca di Levanto, con le sue borgate di case gialle sparse sui pendii, che la luce bassa del pomeriggio invernale pennella di chiaroscuri; ci sono molti sentieri che le uniscono anche se talvolta sono poco praticabili a causa della vegetazione invasiva. A est si estende la linea di costa del parco, che si abbraccia nella sua interezza, fino all'isola del Tino.
Superata la Colla di Bagari, si procede ancora per un po' tra i pini, che dal monte Focone lasciano spazio a un ambiente più aperto, di macchia. Qui la pineta è stata distrutta da un incendio alcuni anni orsono. Il terreno si fa sabbioso e in certe zone anche molto eroso, specie dopo che si è confluiti sul sentiero costiero che arriva da Levanto.
Naturalmente vale la pena fare la deviazione fino a Sant'Antonio del Mesco, i resti di un romitorio medievale. A fianco c'è il relitto un po' postatomico di un semaforo della marina. Su un tetto catramato vi trovo una persona stravaccata, mentre verso il mare ce ne sono altre due che stanno fotografando il sole del tramonto con il cellulare. Vado a cercarmi un posto tranquillo più a valle, ma loro vengono anche lì a fotografarsi. La tentazione di provare a scendere verso il promontorio sotto di me è forte, ma non oggi da solo e con la borsa fotografica a tracolla. Il vento è calato e mi godo l'ultimo tepore del giorno.
La luce del sole sta per affievolirsi dietro le velature che arrivano da ovest, ma per me poco importa, perché da qui in poi scenderò all'ombra del promontorio. Dove il sole non arriva, il repentino calo termico mi consiglia di indossare uno strato in più. Il sentiero scende su un terreno eroso, ma è stato risistemato con gradini, anche se trovo sia più comodo evitarli e camminare sulla terra. Non devo essere il solo a pensarla così, perché le tracce che eludono i gradini sono molto battute. Si finisce su una strada che raggiunge le case più alte e la si segue fino al lungomare.
Quando arrivo, il cielo già si è scurito. Per Monterosso ciondolano alcuni turisti, sia italiani che stranieri, mentre il grosso si addensa ai tavolini dei pochi locali aperti. L'escursione si chiude con un giro alla vana ricerca di una focacceria ancora aperta.