Rifugio Nacamuli 2818 m
Valpelline
15 agosto
In un baleno
Alla base delle pareti si accumulano immensi ghiaioni di detrito fine, segno che qui la roccia è molto friabile. Una volta dal rifugio abbiamo visto un'impressionante frana: si è sentito un boato fragoroso e da un canalone molto ripido si è sollevato un nuvolone esteso lungo tutto il canalone, alto e stretto. Dalla base piovevano massi che andavano a rimbalzare sul ghiacciaio sottostante. Quando la nebbia polverosa si è diradata, il canalone aveva completamente cambiato colore: ora si mostrava come una striscia assai più chiara delle rocce circostanti
Diario di viaggio
Si parte dalla diga di Place Moulin, dove finisce la strada della Valpelline. Il lago è davvero bello, con colori tra il l'acquamarina e lo smeraldo a seconda dell'ora e della luce. Si imbocca la strada che lo costeggia, ma la si lascia ben presto per un sentiero che sale leggermente tra radure e larici, con molti scorci sul lago, fino a immetersi su una strada che sale dalla diga. Si passa accanto ad una costruzione lunga e bassa, posta sotto una zona sbancata (relitto della costruzione della diga), in cui è stata ricavata una grande fossa dove a volte si tengono delle esericitazioni di tiro col fucile. Per saliscendi si arriva ad un bivio dove si svolta a sinistra per imboccare il vallone che sale al rifugio.
Si attraversa un alpeggio ancora utilizzato, l'ultimo contatto con la montagna umanizzata. Si risale dolcemente il vallone per pascoli fioriti tutta l'estate, da un mese all'altro cambia solo il tipo di fioritura. In mezzo al vallone scorre un impetuoso torrente dal colore tipicamente glaciale, che poco dopo l'alpeggio va superato su un ponte. Dalle pareti intersecano il sentiero diverse colate di detriti, primo contatto con l'ambiente della seconda parte della salita. Si arriva ai piedi di un salto e lo si supera sulla destra inerpicandosi per dei tornanti. Gradualmente il pascolo si fa più magro e il terreno più pietroso, fino a che l'erba scompare del tutto e il sentiero avanza nel macereto. In cima al salto si percorre un tratto in piano in un piccolo canyon di detriti, al termine del quale c'è un punto in cui si è obbligati a camminare quasi nel greto del torrente; in caso di piogge forti il torrente potrebbeinvadere il sentiero e dare problemi. D'altra parte, da qui in poi il percorso è uno di quelli da evitare assolutamente in caso di fondo bagnato o, a maggior ragione, di forti precipitazioni.
Da qui in poi il paesaggio cambia drasticamente, perché si entra in una zona decisamente aspra e austera. Nell'ampio pianoro sabbioso, il torrente scorre placido e sinuoso. Intorno alla conca si elevano severe pareti di roccia, accanto a cui si fanno strada valli scavate dai ghiacciai, ormai ridotti ai soli circhi, che incombono dal'alto con le seraccate terminali, da cui sgorgano gelide cascate. Alla base delle pareti si accumulano immensi ghiaioni di detrito fine, segno che qui la roccia è molto friabile. Una volta dal rifugio abbiamo visto un'impressionante frana: si è sentito un boato fragoroso e da un canalone molto ripido si è sollevato un nuvolone esteso lungo tutto il canalone, alto e stretto. Dalla base piovevano massi che andavano a rimbalzare sul ghiacciaio sottostante. Quando la nebbia polverosa si è diradata, il canalone aveva completamente cambiato colore: ora si mostrava come una striscia assai più chiara delle rocce cricostanti.
Devo ammettere che a me questa versione di paesaggi desolato e minimale non entusiasma, almeno in questa zona (mentre ad esempio in valle Gesso mi affascina parecchio), forse perché le montagne che chiudono questa comba non mi sembrano niente di speciale. Al rifugio ho invece trovato diverse persone che erano entusiaste di questo ambiente selvaggio. Certo qui l'uomo lascia solo delle orme, il paesaggio su grande scala non ne reca alcun segno, tranne che puntini sparsi.
A causa della franosità dei versanti, si è dovuta scartare la via più comoda di accesso al rifugio, che è percorribile solo in inverno dagli scialpinisti. Dopo il pianoro si attraversa una zona di sfasciumi in condominio con un ruscello, in cui si riesce comunque a individuare il sentiero, che è segnalato molto bene. Inizia qui un tratto molto ripido che fa superare in fretta una parte consistente del dislivello. Nel primo tratto si attraversa una zona rocciosa agevolati da corde e scalini in acciaio, risistemati nel 2010. Il sentiero sale poi erto a tornanti strettissimi nell'unica zona di terreno solido che c'è da queste parti. Dal culmine si comincia finalmente a vedere il rifugio e in meno di mezz'ora lo si raggiunge dopo aver descritto un ampio semicerchio per sfasciumi e un breve tratto su neve.
Subito prima del Nacamuli si incontra il vecchio rifugio Collon, storico ricovero del 1928, che oggi serve da locale invernale. La struttura ha vissuto momenti migliori.
Attualmente (2011) il rifugio è gestito da Gigi Vignone, guida alpina della valle e gran conoscitore di questi posti, di cui è innamorato. La gestione di un posto del genere non è semplice, perché bisogna essere completamente autonomi nella risoluzione di qualsiasi problema. E per qualsiasi intendo molto più di quanto si riesca a immaginare.
Nacamuli, invece, la persona a cui è intitolato il rifugio, era un ragazzo morto in Pakistan a metà degli anni ’80. I genitori hanno fatto una grossa donazione al CAI, con la condizione di usarla per un rifugio dedicato a lui.
Dopo pranzo sono andato a fare una escursione fino al col Collon. L'ambiente era decisamente da alta montagna: pietrame, rocce e un ghiacciaio che ci riversava contro un impetuoso torrente largo almeno tre passi che ci è toccato guadare in qualche modo. Nonostante gli sfasciumi, il sentiero è sempre ben segnato e tracciato. Al colle il panorama è chiuso, perché la valle svizzera curva subito, ma comunque piacevole per via di un laghetto di fusione e belle pareti. Assomiglia molto al fascino austero dell'Emilius. Anche qui c'erano rocce e grandi colate di pietre di tante sfumature diverse.
Siamo scesi nel tardo pomeriggio, per evitare la coda di ferragosto e per godere dei colori del tramonto. Infatti il sole cominciava a colorasi di giallo. In salita avevo puntato una foto da scattare con le luci calde della sera, un torrente visto dal ponticello con la montagna illuminata sullo sfondo, ma siamo partiti prima di quanto desiderassi e siamo arrivati al punto quando le luci non erano ancora calde come speravo, ma spero comunque di essere riuscito a farla venire comunque abbastanza bene. C'erano pure delle nubi a ovest che lasciavano filtrare la luce solare solo a chiazze.
Dopo l'alpeggio abbiamo cambiato strada e siamo scesi direttamente al lago, che poi abbiamo costeggiato lungo una sterrata. Era l'ora migliore per le foto, ma purtroppo la luce solare filtrava solo in una lunga striscia a mezza costa. Però il posto era talmente bello, con l'acqua verde glaciale, i boschi, i ghiacciai sullo sfondo che qualche foto è venuta bella lo stesso. Consiglio a tutti di scendere tardi, perché la posizione del lago è ottimale per gustare la luce della sera. Lungo la strada si superano inoltre diverse cascate, che trasportano una corrente d'aria piacevolmente fresca. Se fossero le 14 verrebbe voglia di saltarci sotto. Un solo avvertimento: il lungolago è infinito. Si continuano a superare svolte e impluvi, ma la diga sembra sempre alla stessa distanza.
Arrivati alla diga, vale la pena di fare un salto nel bar, perché ci sono alcune foto di un'aquila riprese da distanza ravvicinata. La padrona, che tra l'altro è la figlia di Ettore Bionaz, guida alpina morta negli anni '80 e di cui c'è una foto al Nacamuli, ci ha raccontato che una volta, salendo in auto al lago, se l'è vista sul bordo della strada pacifica e quieta. Ha avuto tutto il tempo di scendere, avvicinarla e scattare. La forestale le ha spiegato che dopo aver mangiato, le aquile sono troppo pesanti per riprendere il volo e devono aspettare un po' ferme. Una bella fortuna.