La masca di Ollasca
Val Grana
2 maggio
In un baleno
La chiesa era anche un santuario à répit, dove i bambini morti senza battesimo erano riportati in vita il tempo di un respiro con un rito, per poterli battezzare ed evitare loro la dannazione eterna
Diario di viaggio
Ma quanto sono belle le borgate nascoste della val Grana! Non solo quelle ancora vissute, magari anche solo come seconde case, ma anche quelle dimenticate e immerse nel bosco, che tutto inghiotte e cancella, anche senza bisogno del disastro di Černobyl'. Mi sembra che me ne avesse parlato la cuoca dell'agriturismo di Morinesio, che di qui è originaria. Ad ogni modo, non lo scopro certo io: ho il ricordo di aver letto di un recente libro fotografico loro dedicato, ma non sono riuscito a rintracciarlo. L'anno scorso al Segnavia recuperai un libro di escursioni ad anello tra di esse, e oggi finalmente sono qui a sperimentarlo.
Quanto agli abitanti e ai paesaggi, il fotografo americano Clemens Kalischer dedicò loro struggenti foto in bianconero. Era il 1962, anno in cui nacque la Michelin di Cuneo, che diede un contributo notevole all'esodo dei giovani. «Salgo sempre più raramente in montagna. Tutto dove passo non trovo più il mondo di trent'anni fa. Trovo qualche vecchio che mi racconta di quelli che sono morti, che se ne sono andati. […] Chiudono le aziende familiari povere, che non reggono. Ma via via chiudono anche le altre, che potevano reggere, che bisognava aiutare. Nessuno le ha aiutate; e i montanari, abbandonati a loro stessi, mollano tutto, scappano letteralmente lasciando persino aperta la porta della casa, della baita, della stalla […] E la montagna sta diventando un immenso luna park», commentava Nuto Revelli guardando queste foto negli Anni ’90.
La val Grana è una valle per certi versi anomala nell'arco alpino occidentale, almeno sotto l'aspetto geografico. Per certi versi, mi sembra di indole più appenninica che alpina, perché è molto verde e poco rocciosa, non termina con svettanti Tremila, ma permette invece di camminare sul suo crinale, boscoso in basso e erboso in quota. È anche segnalato un trek, scarsamente dotato di punti d'appoggio, dedicato specificatamente a questa esperienza, la Curnis Auta.
Come l'Appennino, è disseminata di piccoli borghi oggi disabitati quasi completamente, che non hanno ancora trovato i propri Schneider in grado di dare loro una seconda chance. La fama del più solitario (e anche miserabile) di essi, Narbona, ha varcato i confini della valle, ma molti altri meritano un passaggio. In questo anello, visito alcune frazioni sull'adrech della bassa valle, tra Montamale e Monterosso Grana, con un piccolo svalicamento nel vallone di Piossasco in val Maira; non senza vagare per dilatati boschi, che contendono all'uomo gli spazi, e percorrere una porzione del panoramico e frequentato crinale.
Questo anello consente inoltre di entrare in contatto con molteplici aspetti del mondo magico che ruotava attorno alla vita dei montanari, dai riti della morte agli esseri fantastici.
La mia guida propone di partire dalla chiesa di Santa Maria della Valle, la più antica chiesa della val Grana, meritevole senz'altro di una visita. Fu fondata nel XI secolo, terminate le incursioni saracene, dai monaci di san Teofredo, un ordine benedettino francese che nel cuneese aveva molte dipendenze. Le architetture originarie si sono perse tra i rifacimenti, ma sono conservati diversi dipinti medievali. Il santo è poi finito con l'essere venerato a Crissolo come san Chiaffredo soldato tebeo, per un processo comune a diversi santi di montagna. Dovrei raggiungere la chiesetta di Madonna della Neve con un bel ravanage zeccaiolo in un bosco foltissimo, per un pendio non dolcissimo. Declino e proseguo in auto ancora fino al capoluogo di Monterosso Grana, semplicemente Bourgat in dialetto, da cui parte una comoda e sgombra mulattiera. Monterosso ha una storia antica: il Casalis cita una lapide romana, un diploma dell'imperatore Federico II, una concessione mineraria della marchesa di Saluzzo Margherita di Foix. A proposito di miniere: una d'oro ha continuato a essere attiva sino agli anni ‘60, portando però solo stenti e miseria ai suoi conduttori, fino all'esaurimento fisico delle proprie energie, per consunzione.
Dopo aver attraversato la zona più ampia del paese, formata da piccoli condomini come per pendolari, parcheggio di fronte a un bar-discoteca e valico il torrente, su un ponte in pietra e cemento (almeno fino a metà Ottocento era in legno). Oltre c'è un alto edificio, in passato un albergo di cui conserva ancora l'insegna, e una zona cinta da un muro, che oltrepasso tramite una porta. Più in alto ci sono i resti di una torre del IX-X secolo, una vera torre saracena, dunque. Nell'alto Medioevo Monterosso era una dipendenza della grande abbazia di san Colombano di Bobbio, per tramite di quella di Pedona dedicata a san Dalmazzo, che oggi dà il nome al paese alla confluenza della valli Gesso e Stura. Fu abbandonata per le scorrerie saracene, si riprese e cadde definitivamente in declino nel XV secolo, come molte altre del resto.
La mulattiera si inoltra nel fresco bosco procedendo in quota, poco sopra il fondovalle. Quasi subito trovo una deviazione, che consente di raggiungere lo spiazzo della torre diroccata. Costruita su uno sperone, affacciata sulla valle come il viandante di Friedrich e immersa tra la fitta vegetazione: quanto di più picturesque Wordsworth oserebbe immaginare. Inoltre un cartello lungo il sentiero associa alle rovine un'inevitabile racconto romantico di donne, cavalier, arme, amori, con l'aggiunta di fantasmi. Con un po' di ginnastica, risalgo una traccetta e un saltino roccioso, non riesco a capire se di calcare o conglomerato, per andare ad affacciarmi su Monterosso attraverso una breccia del muro. Tornato sul sentiero, sul fango fresco, per la pioggia del giorno precedente, individuo le tracce di due escursionisti e un cane. Raggiunta la radura con la chiesa li incontro: sono una coppia di mezza età con uno schivo border collie.
Mi fermo per una pausa su una panchina. Il luogo è molto appartato, anche se non è distante dal paese, e sembra invitare al raccoglimento per la sua geografia. La chiesa è aperta. L'interno è molto semplice e anche abbastanza consunto. Sopra l'altare è dipinta la data dell'11 agosto 1863. Ci sono un quaderno dove lasciare una firma o un pensiero e un cartello da umarell contro l'incuria. Accanto all'altare due ex-voto tipicamente cuneesi di gente scampata ad incidenti stradali, con collage fotografici visionari e un morigeratamente splatter. Nella canonica fino al periodo tra le due guerre abitò un eremita, a cui le persone del posto procuravano il sostentamento, in cambio di preghiere. Ora ci abita un enorme ragno, che vive rintanato in un buco troppo piccolo per lui e ha intessuto le sue tele attorno a una finestra. Da sotto la scala che conduce al campanile, tento invano di improvvisarmi Rodčenko di bassa lega, e pure senza successo.
Attorno alla chiesa erano sepolti i bimbi morti senza battesimo, che, non essendo cattolici, non potevano essere inumati nella terra consacrata del cimitero ed erano condannati alla desolazione del limbo e, dopo il Giudizio Universale, all'inferno. Il luogo era anche un santuario à répit (del respiro), o della doppia morte: si credeva che pregando fosse possibile farli risorgere brevemente, per il tempo di un respiro, appunto, per poterli battezzare ed evitare loro la pena.
Era un modo per conciliare la credenza in un dio benevolente con l'aspra realtà della vita in montagna, dove un bimbo su quattro (dei battezzati) non raggiungeva il primo anno di vita, e molti altri non erano neppure registrati, non essendo mai entrati nella comunità cattolica con il rito del battesimo. Tradizioni che ci ricordano quanto fosse spietata la vita in montagna, oppressi da leggi naturali impersonali, incuranti dei bisogni e delle speranze dei singoli, e da credenze metafisiche di varia origine. La morte era infatti ben presente nella vita di ognuno, che era percepita come un semplice passaggio verso di essa, a cui erano associati importanti riti sociali, da cui i non battezzati erano esclusi.
Si tratta di credenze già presenti nelle religioni pre-cristiane come quella celtica, secondo cui la vita era un momento di passaggio in cui ci si ancorava a dei luoghi, che si portavano con sé nel mondo eterno dei defunti. I morti precoci erano tuttavia esclusi da questi legami, non avendo potuto frequentarli: erano pertanto condannati a vagarvi in eterno, tormentando la casa di origine e i viandanti nei luoghi in cui erano sepolti.
L'esistenza di questi riti, documentati soprattutto nei paesi francofoni, è provata da testi agiografici, così come da ex-voto nei luoghi di culto e relazioni di parroci. La devozione era intrecciata soprattutto al culto mariano, nella doppia veste di dea madre e di sofferente per la morte del figlio. Al femminile era pure la gestione del rito, aspetto che alimentava la diffidenza del clero e mi sembra che rimandi alle forme di magia mista cristiana e animista esercitata dalle streghe, che proprio in quei secoli della prima età moderna furono oggetto delle persecuzioni più feroci. Talvolta invece si chiedeva l'intercessione di santi o di persone in vita ritenute tali (non di rado gli eremiti).
Il defunto era portato alla chiesa con viaggi anche lunghi, di qualche giorno di cammino, se il luogo era famoso. Si pregava, ad esempio nella forma del rosario in caso di culto mariano, si esponeva il fanciullo a un'immagine sacra e lo si osservava alla ricerca di qualche segno che mostrasse un suo ritorno in vita. Tali segni erano i più disparati: da una piuma messa in bocca per registrare il respiro, fino a sanguinamenti, movimenti del corpicino. In assenza di controlli le spiegazioni possono essere le più varie, dalla suggestione collettiva, a fenomeni naturali non correttamente interpretati (come avveniva nei casi di riti contro il vampirismo), senza poter escludere la frode deliberata, dato il mondo di persone che campava attorno al fenomeno e aveva interesse ad alimentare la credenza nel miracolo.
L'atteggiamento delle autorità ecclesiastiche fu molto variegato e si evolse nel tempo, sulla falsariga della dottrina su battesimo e aldilà. Prima che nel 2007 il limbo scomparisse dagli insegnamenti ufficiali, in cui era entrato pur senza essere materia di fede, a partire dal Concilio di Trento era prevalsa l'ala che disconosceva ai bambini non battezzati qualunque forma di partecipazione alla felicità eterna, alimentando l'angoscia dei fedeli e il bisogno emotivo del rito. A lungo furono solo le autorità locali ad intervenire, con atteggiamenti sfumati e contraddittori. Solo nel Settecento, per effetto di uno scandalo in Svevia e su influsso del razionalismo illuminista, si arrivò a una condanna pontificia. Tuttavia il fenomeno non scomparve e perdurò fino al primo Novecento, spesso con la cauta approvazione del clero locale. Fu accettato soprattutto in zone contese con i riformati, in quanto il destino dei bimbi non battezzati era una ragione di dissidio teologico e questo rito sanzionava la credenza nel limbo cattolico. Qui in valle, fino all'annessione del Marchesato di Saluzzo nel Ducato di Savoia all'inzio del Seicento, i calvinisti erano la maggioranza: le forme barocche della cappella campestre sembrano suggerire una connessione tra questi fatti.
Madonna della Neve aveva una sorgente necessaria al battesimo, una fontana da cui oggi esce un filo d'acqua e dove cambio l'acqua cittadina. L'acqua, qui in veste purificatrice e di connessione tra il mondo sotterraneo e quello di superficie, aveva una notevole importanza nei culti più disparati, diffusi davvero ovunque in ogni forma possibile. Per i morti senza battesimo in valle esisteva pure un rito di fuoco, nella doppia valenza fisica e simbolica di luce nella notte: nei roghi di San Giovanni Battista, si cercava di rendere le fiamme più alte e luminose possibile, affinché rischiarasse la via dal limbo verso il paradiso.
Nell'allontanarmi dal santuario, mi faccio ingannare dalla carta, che attribuisce dignità di sentiero alla via più breve, mentre è un'orrida traccia da capre isteriche, peraltro pure rovinata da un escavatore usato in lavori di taglio del bosco. Ad ogni modo raggiungo il sentiero segnalato, che corre su una dorsale boscosa, di castagni e faggi. I secondi hanno foglie novelle di un verde molto chiaro e delicato: belle così durano pochi giorni, prima di evolvere nella cupezza estiva, e ritorneranno altrettando fascinose solo a ottobre in veste autunnale). I castagni sono invece ancora spogli. Raggiungo un bivio con una croce lignea e quindi un secondo, dove seguo sempre le indicazioni per Ollasca. Attraverso una faggeta diradata dal taglio, nonostante il versante molto ripido non agevoli i mezzi meccanici; le foglie in controluce brillano.
Segue del bosco misto, anche con rimboschimenti di abeti, fino a una radura, dove un pilone votivo perfettamente restaurato annuncia Ollasca di mezzo, che è una meraviglia. In una casa molto stretta credo abitino tutto l'anno, perché hanno i panni stesi al sole. Alla loro fonte riempio il mio bicchiere. Ce ne sono poi altre oggi disabitate, ma molto curate. Ci sono quindi affreschi, tra cui uno dell'onnipresente Giors Boneto di Paesana, un forno e un essiccatoio per castagne, questi posti isolati dalle case, forse per timore degli incendi. Il forno è ancora in uso, l'essiccatoio naturalmente no. Un gatto tra i panni stesi rifinisce il quadretto idilliaco. Da Colletto vedo arrivare i signori con il collie, che mi hanno preceduto facendo un giro più ampio.
Ollasca ha anche una frazione superiore abbandonata. Di pregevole è rimasto soprattutto un edificio con un enorme porticato, tipico delle zone prealpine piovose. A valle del paese, su un pilone votivo discretamente conservato, una mano devota e vandala ha inciso un ringraziamento alla Madonna sulla pittura.
Imbocco la mulattiera per Piatta, che attraversa una zona di pendii dolci e solatii, che erano terrazzati e coltivati a segale, avena e patate, la santissima trinità dell'alimentazione montana (oltre al vino, s'intende). Il bosco è ancora rado, ma sta riconquistando gli spazi. Oltrepasso diversi rii e sorgenti, che sono però secchi. La superficie del terreno è ancora umida per la pioggia di ieri e incontro anche una salamandra tiratardi, ma l'inverno eccezionalmente secco e mite ha lasciato una generale penuria d'acqua: le falde sembrano ancora vuote. In una zona alberata attraverso una pioggia di petali di ciliegio, come nei più sentimentali anime. Raggiungo la strada per Piatta, a cui arrivano in contemporanea a me i due signori, da una zona di bosco: probabilmente a un bivio poco fa non hanno consultato la carta, ma sono rimasti sulla traccia in quota e poi hanno ravanato. Li lascio andare avanti.
Nel primo tratto di strada, un poco più avanti nella stagione, ci sarà una lussureggiante fioritura di Aquilegia atrata. Il tracciato è parecchio ripido e affollato di ciclisti (almeno per gli standard di un vallone marginale), sia in salita che in discesa. Uno, con indosso la divisa di Indurain, si ferma a prendere fiato a un tornante e, quando lo supero, si dà un tono consultando il cellulare. Tralascio il sentiero, che scoprirò in cima essere usato per il downhill, e seguo l'asfalto, più graduale ma che più battuto dal sole, che costeggia vari abitati, quali restaurati, quali diroccati, quali rifatti con mattoni e cemento, ma abbandonati. Nel primo resistono brandelli di un dipinto con san Lorenso, scritto così alla piemontese. C'è anche un castagneto che sembra ancora produttivo, oltre a vasti prati tenuti.
A Piatta inferiore (detta Fre sul cartello), dove le strade sono prati in fiore, alcuni ragazzi stanno consumando birra e salsiccia alla piastra in un cortile. A Piatta superiore, che è poi cinque metri più in alto, si radunano i ciclisti a commentare la salita e le meraviglie tecniche delle proprie cavalcature. Ho quasi l'impressione di essere d'impaccio, mentre occupo una panchina per un boccone di papaya essiccata. La frazione ha due chiese, varie case in una pietra marrone, che ricorda l'arenaria di Langa, un pilone votivo in perfetta forma, edificato quando un ragazzo scampò a un attacco di lupi.
Ai tempi del Casalis i suoi abitanti integravano il reddito comprando foglie di gelso in pianura, per allevare i bachi da seta. A Cargalio nel 1678 era stato fondato un filatoio di seta, che nel primo Ottocento, dopo un periodo di chiusura, aveva ripreso a operare. L'edificio, di notevole pregio architettonico, esiste tutt'ora: caduto in degrado dopo la guerra, è stato restaurato negli Anni ‘90 ed è adibito a funzioni culturali, sopravvissute alle disgrazie giudiziarie del primo artefice della rinascita. Ricordo che una volta venni a vedere una mostra di Escher, un litografo amato dai matematici per la sua visionarietà geometrica, ma per il medesimo motivo anche da chi odia la matematica. Il filatoio non fu un caso isolato nella storia dell'industria di montagna cuneese, ma nel Novecento mancarono le forze produttive in grado di traghettarla verso la modernità, favorendo così l'esodo verso la pianura allo sbocciare del boom economico.
Poco prima dell’esodo definitivo, gli abitanti di questa frazione andavano invece a raccogliere la frutta nel saluzzese, oppure a vendemmiare in Francia. Questi lavori non sembravano loro pesanti, rispetto all'agricoltura di montagna. L'attività coinvolgeva anche i ragazzini in età scolare. Oggi, essendosi dissolta questa manodopera, sono stati rimpiazzati dagli africani, che immigrano qui stagionalmente per la raccolta. Alloggiano spesso in condizioni precarie e girano in bici per la pericolosa circonvallazione di Saluzzo, con manovre azzardate per cui rischiano continuamente di venir stirati dal flusso intenso e veloce di auto e TIR.
Va detto che l'agricoltura di montagna è sempre stata molto stentata, di pura sussistenza: la vera ricchezza erano gli animali. Chi abitava in queste zone prive di grandi pascoli (la montagna finisce subito sopra) era chi se la passava peggio. A Piatta operò l'ultima scuola del comune di Montemale, perché di solito questi insediamenti, dove si svolgeva l'agricoltura estiva, in quota erano più importanti del capoluogo in valle, per l'attività produttiva. L'altro aveva invece piuttosto la funzione di sede di una casato nobiliare che spadroneggiò sulla valle, opprimendo i valligiani al punto che su di essi aleggiavano leggende di masche.
Tralascio il sentiero segnalato, che sale ripido a Colletto, sulla dorsale con la val Maira. Proseguo invece per la stretta stradina accanto alla chiesa. Al termine delle case, pur in assenza di segnalazioni, è evidente la bella mulattiera che taglia in lieve salita i terrazzamenti a monte di Ruata del Cantone. I prati sono tenuti liberi da vegetazione invasiva: vedo vari rami accatastati e anche i tizzoni neri di un recente debbio. Forse l'opera di sfoltimento è tutt'ora in corso. È una bella cosa che i prati siano tenuti, anche se non si può certo chiedere di vedere biondeggiare la segale, perché dovrebbe essere lavorata a mano, con fatica e costi improponibili e antieconomici.
Ho visto l'agricoltura di montagna sopravvivere nella vicina val Maira, dove ci si è dedicati a dei prodotti che possono essere esportati a caro prezzo, con il condimento spirituale dei valori delle alte quote, come il genepy e le erbe officinali. È un modello commerciale di grande successo e ampiamente diffuso, che vediamo tutti i giorni nella pubblicità dei grandi produttori delle merci più disparate: non vende prodotti, ma esperienze e stili di vita. Visto che la montagna è associata a un immaginario romantico dai connotati positivi, sebbene abbastanza fuorvianti, può essere sfruttato per consentire a qualcuno di sopravvivere ancora quassù. Il turismo, qui in Italia, è ancora troppo vincolato ai brevi assalti automobilistici domenicali e agostani.
La mulattiera raggiunge la dorsale, dove corre la Curnis Auta, e dove trovo nuovamente i signori del collie, a cui si sono aggregati due amici. Taglio la dorsale, svalico in val Maira, e proseguo in quota, per un sentiero molto marcato. Valicato un modesto colletto, vedo il sentiero proseguire infrascato e una traccia, marcata da un nastro biancorosso dei ciclisti, precipitare a valle. Dopo un vano impeto filologico, dove sono convinto di aver raccattato la zecca di giornata, consulto la carta e vedo che devo lanciarmi verso il basso. Rotolando nel fango raggiungo un sentiero vero, che sempre in ripida discesa mi porta a monte del prato di Biut, dove intendo fermarmi per la prima parte del pranzo.
La borgata si trova in mezzo a un piccolo praticello, su un solatio pendio molto ripido dell'incassato vallone di Piossasco. Ha una sola casa sistemata in stile e tenuta con tanto di parabola, che dovrebbe essere un rifugio, più una seconda che era stata parzialmente ristrutturata con cemento e giace ora abbandonata. Gli altri edifici, compreso il forno e delle strutture agricole, sono più o meno diroccati, ma sembra impiegati. C'è anche una fonte con rubinetto vicino a degli edifici circondati da filo del bestiame. Questo mi fa pensare che d'estate qualcuno ci porti delle capre o delle pecore.
Al mio arrivo, dei caprioli fracassoni si danno alla ritirata. Mi sistemo su un gradino all'ombra e pranzo, quindi faccio un giro fotografico, senza determinazione: mi sembra infatti che la foto d'insieme scattata all'arrivo sia sufficiente a catturare il genius loci di questo insediamento stagionale di bassa valle, isolato tra boschi e modesti dossi, con le montagne più alte e ancora innevate solo sullo sfondo. Credo che fosse appunto un luogo dove si praticava una magra pastorizia o l'agricoltura estiva.
Riparto e imbocco il sentiero per il colle della Peira, indicato da un cartello con tempi fantasiosi. Percorro un traverso in un bosco in cui si alternano faggi e pini silvestri. Tra le foglie ancora rade compare un'alta montagna innevata, nascosta da una nuvoletta in una giornata quasi serena, che lo connota come Monviso ancor più della sua forma piramidale. In effetti il cielo è insolitamente quieto, per un giorno di maggio. Per un'erta rampa raggiungo il colle.
Prendo a seguire la dorsale boscosa tra le due valli. Nei tratti più radi posso ammirare la pianura con Cuneo e le Langhe in lontananza (la mia amica del cuore riconoscerebbe il Bric Puschera). Tra le montagne delle Marittime, parzialmente avvolte dalle nubi primaverili tumultuose e abbaglianti, riconosco il Matto. In una zona spoglia più in basso noto la traccia del sentiero che unisce Ollasca soprana con Piatta e potrebbe avere il suo fascino. Nel complesso questo tratto è gradevole. Incrocio un po' di gente, in genere coppie etero, di varie età, un solitario di corsa, da cui mi scanso a fatica per l'angustia del sentiero, e un gruppetto di quattro ragazzi. Raggiungo una conca detta Piano delle Masche, dove la sterrata che sale da Ollasca ha permesso il taglio della faggeta.
In genere erano associati alle masche tutti i luoghi che esulavano dal consueto. Uno studio, condotto dall'antropologo di ascendenza roaschina Marco Aime, sugli abitanti di una frazione dell'adiacente Pradleves, mostra che i luoghi delle masche erano luoghi fuori dal consesso civile e dal suo rigido controllo. Esisteva una struttura concentrica, con al centro il borgo, in cui ognuno osservava i comportamenti dei compaesani e vigilava sul rispetto delle norme di condotta condivise. È un modello mentale del tutto generale: nei planisferi mettiamo sempre l'Europa al centro. A mano a mano che si sfumava verso i campi, verso il bosco coltivato e infine verso il bosco selvaggio (mountanho traditouro lo chiamavano i montanari), questo controllo veniva progressivamente meno e si rendevano necessarie credenze volte a impedire la violazione delle regole.
Il piano era un luogo di confine, in cui era possibile conoscere donne di altri paesi. L'attività era dannosa alle rigide norme economiche delle borgate, perché, a causa del diritto napoleonico che divideva l'eredità in parti uguali, un matrimonio intervallivo avrebbe comportato l'assegnazione di terreni a una famiglia dell'altra valle, con evidenti difficoltà a mantenere la produzione attiva. Le masche erano pertanto una credenza magica, ma in quel contesto non irrazionale, in quanto erano funzionali al corpus di valori del villaggio.
I racconti erano poi anche un modo per stabilire delle gerarchie sociali: erano sempre gli uomini a raccontare storie di masche e chi violava le leggi del patriarcato la loro vittima. Il clero giocava un ruolo parimenti importante, perché era il depositario delle formule per contrastarle. I testimoni di Nuto Revelli e Marco Aime raccontano bene come spesso costoro non contrastassero queste credenze superstiziose, per il prestigio e il potere che portavano loro.
Un ulteriore aspetto da notare è il rapporto tra natura e cultura allora opposto a quello odierno: noi cittadini oggi infatti viviamo in un mare di antropocene e dobbiamo andare a cercare isolette di natura in montagna, allontanandoci da casa, mentre allora ne erano assediati nei loro fortilizi.
Scendo lungo la dorsale per un sentiero un poco più accidentato, fino al colletto di Piossasco (colle del Brusà sulla mia carta), dove trovo nel prato una mascherina nera e delle genziane a campanula. Dovrebbero essere di Clausius, anche se non ho mai imparato a distinguerla da quella di Koch, memorizzando quale ha le strisce verdi, né mi porto appresso gli acidi per stabilire la natura delle rocce, come faceva de Saussure: la seconda infatti vive sui terreni silicei, la prima su quelli calcarei. Questo sdoppiamento edafico non è raro: capita anche nei rododendri, ad esempio. Altre volte due specie simili occupano la medesima nicchia ecologica sui due tipi di terreno. In questo caso, so che in questa valle il terreno è sempre di natura carbonatica, per cui vado sul sicuro. Proseguo ancora per un tratto lungo la Curnis, finché trovo il bivio a gomito per Podio, nei pressi di un muro diroccato.
Invertita la rotta taglio un pendio ripidissimo, chiedendomi se il bosco con pini silvestri e betulle sia l'evoluzione di un pascolo arborato. In effetti ricordo di averne visti su pendii altrettanto ripidi, e anche tenuti con pini silvestri, a queste quote (l'albero principe per lo scopo era il larice, ma in genere a quote superiori) e il rudere in cima fa pensare che questa zona fosse colonizzata, per quanto scoscesa.
Attraverso quindi una faggeta, su un pendio altrettanto ripido. Mi trovo in una piega della montagna, quasi oppresso dai circostanti pendii scuri e con poco cielo su di me. Il luogo trasmette una sensazione di isolamento dalla civiltà, perché qui riesco solo a percepire gli immediati dintorni e non ho connessioni visive con paesi o altro. È senz'altro un buon posto per incontrare una piazzola dei carbonai, in cui infatti mi imbatto, sorretta da un muretto. Fu costruita nelle adiacenze di un grande masso con dei pertugi, che magari serviva come riparo o appoggio per costruirvi una capanna: sarebbe interessante un'indagine archeologica. Credo che, se li avessi visti spuntare tutti neri dai loro antri, magari nel crepuscolo di questo luogo buio anche in un pomeriggio di primavera, immerso nel fumo delle pire, mi sarei convinto dell'apparizione di qualche spirito dei boschi: «il viso nero coperto coperto di una barba incolta, dove gli occhi lucenti come dei carboni ardenti donano loro un aspetto assai diabolico» (Klein Rebour).
La percezione dei carbonai da parte dei contadini ereditava la loro percezione del bosco: «Li definiscono istigatori di lupi, signori della pioggia, della grandine, del temporale e della tempesta» (Belmont). D'altro canto, svolgevano l'utile funzione di creature del mondo di mezzo, di mediatori culturali tra la civiltà e il mondo selvaggio: si erano naturalizzati, avevano così appreso i segreti del mondo naturale e si erano in qualche modo assimilati alle sue creature, reali e fantastiche. Pogue Harrrison e Propp hanno mostrato da, punti di vista diversi, come il bosco sia in opposizione al quotidiano, nella cultura europea. Potevano attingere alle sue fonti tramite la caccia e la raccolta, di cui conoscevano i segreti, e rifornire gli stanziali di carne, erbe medicinali, tartufi e molto altro. Tuttavia tra i due gruppi c'era una barriera economica: i contadini quasi non maneggiavano denaro, producendo beni materiali per la sussitenza e barattando il poco sovrappiù, mentre i carbonai producevano interamente per il mercato e si procuravano i beni necessari dal mercato. Per questo, erano considerati dai contadini gente povera, priva di beni immobili, che non aveva un capitale; inoltre la diffidenza per il denaro faceva li ritenere gente che maneggiava soldi facili, e come tali soggetti a facile dissipazione in vizi.
Alla faggeta segue una zona con molto bosso e compaiono quindi gli spazi invasi dai noccioleti, infine i prati di Podio Superiore. La frazione sembra interamente abbandonata. Tutte le case sono nella stessa pietra di Piatta. Discosto da esse, in mezzo a un prato invaso dagli asfodeli, c'è un forno. Tutto intorno prati abbandonati, querce, frassini e qualche albero da frutto fiorito. Speravo di trovare un posto comodo, dove consumare la seconda parte del pranzo, ma mi devo arrangiare su una pietra di un muro a secco.
Proseguo in saliscendi in un bel bosco misto. Trovo un'altra sorgente, ricavata in una piccola caverna di terra e pietre a secco, desolatamente secca anch'essa, come altre in precedenza. D'altronde anche nei diversi impluvi che attraverserò di qui ad Andrio non c'è un filo d'acqua. Trovo un punto panoramico, con vista sul vallone di Cumboscuro, così chiamato per i colore cupo dei suoi boschi, ma ribattezzato Valleverde da qualche ufficio turistico. È il centro propulsivo della cultura francoprovenzale, come amano definirsi lì, dove ogni anno si tiene il Roumiage. La luce purtroppo non è un granché, perché adesso le nuvole sono più estese. Peccato, perché altrimenti il panorama non sarebbe malvagio, grazie alle prime foglie degli alberi e alla neve sulle cime. A un bivio prendo il ramo in salita, su un sentiero secondario (il principale scende più direttamente). Risalgo faticosamente le terrazze di Andrio e in cima vi trovo il paese. Le prime case sono diroccate, mentre quelle più vicine alla strada sono molto ben tenute. I padroni devono avere una certa predilezione per i glicini, nel pieno della fioritura e del profumo. Un vecchio magro sta faticosamente tagliando la legna in un cortile; un barboncino, inseguito da un ragazzo, viene a farmi le feste.
Lungo una pista sterrata fangosa mi porto a Viano, dove sbaglio sentiero e imbocco quello per Colletto, indicato da tacche giallorosse. Quivi giunto, non approfitto dell'occasione per una visita alle case ancora vissute, ma al pilone votivo faccio dietrofront seccato e, per una faggeta diradata, torno al bivio con la croce da cui sono passato al mattino. Riperccorro la dorsale, da cui comincio a fare caso ai rumori della strada, da cui se non altro mancano le rumorose moto, grazie alla neve ancora presente sul Fauniera. Evito il taglio, potendo così godere si una bella visuale sul vallone di Ollasca e le sue frazioni. Raggiungo una pista sterrata nei pressi di un pilone votivo scarnificato delle pitture, ridotto ai soli mattoni, dove c'è un certo viavai.
A passo arrembante mi supera un gruppetto. Una signora vorrebbe dare un'occhiata alla Madonna della Neve, quando le dico che la chiesa è aperta, ma gli altri più avanti la osservano nervosi e lei mi saluta dicendo: «Sarà per un'altra volta. Sono con gli amici». Begli amici, se ti costringono a fare di corsa anche una semplice passeggiata pomeridiana. All'ora della merenda la chiesa è parecchio frequentata: ci sono degli adulti con svariati bambini attorno alla fontana, una coppia di vecchi su una panchina, e successivamente vi transitano gruppi familiari e amicali, un po' meno frettolosi dei primi. Mi fermo a fare merenda. Purtroppo i biscotti si sono sbriciolati: mangiata la mela, non mi resta che il tè liscio.
Lascio a malincuore la chiesetta, fattasi più silenziosa e solitaria, intorno alle 17, per riuscire ancora a rimediare un caffè prima del coprifuoco dei bar. Nell'aria fresca del bosco, nonostante il sole filtri ancora, ripercorro i passi della mattina e sono alle mura, dove sta gironzolando una famigliola. Tento invano una foto al ponte. Il caffè ha un sapore strano, ma non malvagio, ed è molto acido. Lungo la strada del rientro, nei dehors non c'è un tavolo libero. Sembra sia andare al bar la libertà di cui ha bisogno la maggior parte della gente: per fortuna oggi ho incontrato abbastanza persone che apprezzano anche quella di girare nei boschi. Con la pandemia costoro sono aumentati, un danno collaterale benefico. Tra i tavoli esterni di un locale, che sarà sanzionato per mancato rispetto delle norme covid, gente balla della tremenda musicaccia balneare. Io li avrei fatti chiudere solo per questa, ma per fortuna la costituzione lo vieta, anche perché altrimenti mi avrebbero già arrestato per il ritmo tribal-fricchettone che adopero come suoneria.
Per approfondire
- D. Acconci, cadranno le case dei villaggi, Torino 1976
- M. Aime, Il lato selvatico del tempo, Milano 2008
- F. Mattioli Carcano, Santuari à répit, Scarmagno 2009
- G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
- B. De Luca, L'arte del fuoco nascosto. I carbonai del Cansiglio, Sommacampagna 2018
- P. Laguzzi, Andare per borgate in Valle Grana, Cuneo 2018
- M. Aime, Il lato selvatico del tempo, Milano 2008