La casaforte di Pertia 1226 m
Valle di Locana
12 settembre
In un baleno
Questo infatti è un giro per amanti della montagna vissuta, dove non si raggiungono cime prestigiose né si ammirano panorami a perdita d’occhio. Ma qui ci si può fare un’idea di dove vivevano una volta i montanari: in magri appezzamenti di terra strappati con gran fatica alla montagna. Il percorso di snoda su antiche mulattiere che hanno richiesto ingenti lavori di costruzione, ma oggi sono del tutto dimenticate e quasi per nulla percorse
Diario di viaggio
Un bel percorso alla scoperta di un mondo scomparso e anche dimenticato. Questo infatti è un giro per amanti della montagna vissuta, dove non si raggiungono cime prestigiose né si ammirano panorami a perdita d’occhio. Ma qui ci si può fare un’idea di dove vivevano una volta i montanari: in magri appezzamenti di terra strappati con gran fatica alla montagna. Il percorso di snoda su antiche mulattiere che hanno richiesto ingenti lavori di costruzione, ma oggi sono del tutto dimenticate e quasi per nulla percorse. Si trovano qua e là dei passaggi difficoltosi, perché nella bassa montagna i prati abbandonati sono ben presto riconquistati dalla vegetazione arbustiva, che prelude al ritorno del bosco. Tuttavia, quando l’abbiamo percorsa io e i miei amici, il passaggio non era mai impedito. Da Sparone si rimane sul versante solatio della bassa valle di Locana, quindi attraverso il colle di Pertia si passa sull’inverso del vallone di Ribordone e si ritorna al luogo di partenza, che si trova alla confluenza delle due valli. Certamente il migliore momento dell’anno per questo giro è il periodo dei colori autunnali; io e i miei amici l’abbiamo percorso in un uggiosa giornata di settembre, quando le nuvole basse avrebbero penalizzato un giro in quota.
Dal cimitero di Sparone seguiamo le indicazioni per Pertia e, appena entrati nel bosco, troviamo subito un grande sbancamento con tanto di escavatore parcheggiato in un angolo. La mulattiera riparte oltre, per cui c’è da sperare che qualunque porcata facciamo non ne chiudano l’accesso. Il sentiero sale gradualmente procedendo in direzione ovest. Attraversiamo zone selvagge, di grandi massi, bosco e nessun prato, anche se siamo a breve distanza dal centro abitato e c’è pure la vista sul fondovalle industrializzato. Tuttavia l’ambiente non è naturale, perché l’essenza principale del bosco è il castagno, un albero che ha seguito l’uomo nella sua colonizzazione di queste zone marginali.
Nei secoli XI-XII, la pressione demografica spinse gli uomini di allora a coltivare i boschi di bassa e media montagna con il castagno da frutto, che in breve tempo soppiantò le querce. Si compì così un processo anche culturale. Presso gli antichi Romani, che pure conoscevano questo albero, il bosco era visto in opposizione alle coltivazioni: mentre queste erano governate da dei legati alla civilizzazione, quello era in mano agli dei del mondo selvaggio e degli istinti brutali. Le cose cambiarono dal periodo longobardo, quando in pianura i querceti-carpineti naturali furono un poco alla volta sostituiti dai castagni da frutto, mentre in montagna fu diffuso il faggio, che forniva foraggio per gli allevamenti bradi di suini, che nell'Alto Medioevo erano una fondamentale fonte alimentare. Con queste politiche, i boschi vennero antropizzati e entrarono a pieno titolo nello spazio della civilizzazione. Con l'esplosione demografica del Basso Medioevo, le zone di pianura furono dissodate per dare spazio ai cereali e il castagno da frutto occupò le aree in cui non era possibile arare.
I castagni di questa zona hanno perso l’imponenza di quando erano coltivati, ma si capisce che non erano cedui, anche perché in questo magro terreno, impervio e ripido, non era possibile coltivare altre fonti di carboidrati. Oltre ai castagni marca lo spazio umano un'edicola votiva posto nel punto più panoramico di questo tratto. Ogni tanto, intorno ai gruppi di case vediamo minuscoli terrazzamenti, che hanno richiesto imponenti muri a secco, ma su cui c’era spazio per poco più di un orto. Oggi i castagni selvatici li hanno conquistati. La solitaria casa di Prantunera è l’edificio più interessante che incontriamo nel primo tratto. La casa aveva tinte vivaci e un balcone di legno, di cui restano poche assi marce. La fontana butta ancora acqua. Tutto intorno alle case, è fiorita una pianta che produce dei fiori gialli di forma simile a quelli della salvia campestre, che hanno un forte odore di menta.
Di qui a Cuorgnana c’è il tratto più infrascato. In particolare ci sono due punti un po’ scomodi: in un impluvio spoglio, si passa come in un tunnel fra i rovi e bisogna farsi piccoli piccoli per non trascinarseli dietro; più avanti alcuni castagni cedui sono finiti sul percorso, per cui tocca cimentarsi in qualche passaggio ginnico per superarli. Anche se lungo il sentiero ci sono bolli rossi, è chiaro che non c’è una gran frequentazione (lungo tutto il giro non incontreremo escursionisti). Cuorgnana è un borgo un poco più grande, con diverse case e qualche vicoletto. Da qui il sentiero è più pulito. Innanzitutto perché si incrocia la mulattiera che sale da Calsazio, la via più frequentata per raggiungere la casaforte di Pertia, ma anche perché il castagneto lascia spazio alla faggeta, con il suo sottobosco minimo. Il sentiero sale ripido; ad un certo punto la vista si apre sopra un profondo impluvio con alta parete di granito; al colmo c’è un passaggio obbligato tra questo impluvio e la soprastante parete su cui sorgono le grange Betassa. Qui è stata posta una torre oggi diruta, che aveva il compito di bloccare l’accesso ai pascoli dove sorge la casaforte. Il sentiero risale tra faggi e grossi massi e, quando spiana, attraversa una zona di bosco rado: siamo a Pertia.
La casaforte è subito riconoscibile per la sua architettura originale: ha una porta con possenti stipiti e architrave e una fascia di muro costruita a lisca di pesce, possibile firma dei suoi costruttori (un’usanza che si è protratta anche nei secoli successivi), oppure un modo per assecondare gli assestamenti del terreno senza danni (i Romani usavano tecniche simili). I tre moduli in stili e qualità diversi da cui è formata, raccontano di rimaneggiamenti succedutisi nei secoli. Oggi ne è rimasto solo lo scheletro, perché il tetto e le volte interne sono ormai crollate. Intorno perdura uno scampolo di prato spietrato, con alcuni grandi frassini e aceri di monte. Nessuna delle due essenze è qui per caso: la prima era piantata perché le sue foglie servivano come foraggio negli anni magri, la seconda perché forniva dell'ombra favorevole al raffreddamento del microclima e alla conservazione dei prodotti caseari. A monte ci sono le misere baite stagionali dei pastori.
L’origine della casaforte si perde nella leggenda. I racconti tramandati oralmente ne fanno una fortificazione di Arduino, con tanto di passaggi segreti sotterranei per la fuga verso il castello di Sparone, questa sì vera fortezza arduinica; questa leggenda non manca in nessuna fortificazione antica. Tuttavia la costruzione è decisamente posteriore, come i riferimenti storici. La nascita di Pertia va inquadrata nel corso dei diffusi dissodamenti dell’Optimum Climatico medievale. I tre secoli successivi all'anno Mille furono caratterizzati da un clima molto caldo e, ma questo è meno certo, molto stabile. Per dare un'idea di quanto facesse caldo, basti dire che allora si coltivava la vite in Norvegia, mentre, oggi, nonostante il recente riscaldamento, si arriva solo fino alle colline della Mosella in Belgio. Questo ebbe molti effetti positivi, perché consentì di spingere più a nord e più in quota alcune colture che richiedono climi temperati, come la vite e l'olivo: infatti la colonizzazione dell'alta montagna e la nascita del paesaggio che conosciamo oggi risale proprio a quel periodo. Naturalmente c'erano anche dei contro, perché ad esempio certi flagelli tropicali come la malaria e le cavallette si spingevano molto più a nord, ma nel complesso i benefici furono maggiori. Inoltre ci fu uno sviluppo di tecniche agricole migliori, come il giogo per i buoi, che ne aumentava la forza di aratura, o le marcite, zone sottoposte a irrigazione continua che consentiva più raccolti l'anno. Questi fattori produssero una sequenza di annate buone, che permisero un boom demografico, come si direbbe oggi. Questo a sua volta, nell'impossibilità del miglioramento delle varietà, in quanto ancora non si conosceva la genetica, spinse a rendere coltivabili sempre nuove terre, che prima erano incolte. In quel periodo esistevano dei monasteri, come quelli cistercensi di cui abbiamo due esempi in Piemonte a Staffarda e Lucedio, il cui unico compito era quello di disboscare, bonificare e dissodare, per produrre sempre più cereali per sfamare le città in continua crescita. Tuttavia anche i singoli contadini adottavano le medesime pratiche. Proprio allora, tra i secoli XIII e XIV anche questa zona fu strappata alla foresta e trasformata in un pascolo. Oggi può stupire che una costruzione fortificata sia stata posta su un pascolo marginale. Allora però le strutture fortificate fungevano anche da centri di aggregazione della popolazione e non avevano solo funzione militare: il popolo vi trovava protezione durante le guerre, mentre i signori imponevano il proprio prestigio e il proprio controllo sulle terre precedentemente comuni e ora privatizzate.
La casaforte fa la sua comparsa nella Storia nel resoconto che il cronista Pietro Azario scrisse sulle guerre feudali, che insanguinarono il Canavese nel XIV secolo, con una ferocia e uno spregio dei civili che nulla ha da invidiare alle malefatte dei moderni predoni. Peraltro la descrizione ivi contenuta è colma di elementi fantastici, che, anche per motivi propagandistici (durante la guerra Pertia fu occupata dall'eroe preferito del cronista) la dipingono come una roccaforte imprendibile posta su un’altissima rupe («cum sit ejus fabrica per milliare in ripa excelsa»). Pertanto denuncia chiaramente una mancata conoscenza diretta del luogo. La casaforte fu gravemente danneggiata e poi ristrutturata, probabilmente nel corso delle guerre franco-spagnole del XVI secolo, come appare dai segni di un incendio, rilevato da un gruppo di archeologi durante un sopralluogo negli anni ’80 del Novecento. La decadenza della struttura risale ad allora, perché in quel periodo vennero meno le esigenze di controllo unitario sul fondo, che venne parcellizzato tra molte famiglie indipendenti. Probabilmente Pertia non ebbe mai un ruolo militare e in effetti non fu mai attaccata da eserciti: era piuttosto il remoto ricetto della popolazione locale, il posto dove mettere al sicuro i propri beni dagli eserciti del tempo, che supplivano alla mancanza di una moderna logistica per l’approvvigionamento, saccheggiando sistematicamente i territori che attraversavano.
È ora di ripartire. Dopo aver vagolato un po’, rintracciamo il sentiero per il colle a monte delle case. Quasi subito costeggiamo un abbeveratoio in cui è rimasta la vanga che serviva a tenerlo pulito. Più alto, chi ha tracciato il sentiero ha abbandonato la mulattiera per le Grange Betassa in favore di un taglio da capre; ad una sommaria ispezione la mulattiera sembra invasa dal bosco, anche se sulla cartina è riportata. Le grange dovrebbero avere degli edifici di un certo pregio architettonico. In breve valichiamo il colle. Qui il paesaggio cambia un po’. Ai faggi si aggiungono gli abeti bianchi, perché siamo sull’inverso e il clima è più fresco e umido; in più i primi resistono fino a quote inferiori a quelle dell’indiritto. Per questo di qui a Ribordone gli abitati sono di meno e molto piccoli. Il bosco è particolarmente bello dopo una casa tenuta, dove percorriamo un traverso sopra una forra. Negli anni ’80 del Novecento questa zona è stata gravemente danneggiata da un incendio, ma oggi il bosco si è ripreso.
Perdendo quota giungiamo alla mulattiera che unisce Ribordone a Costa, verso cui ci dobbiamo dirigere. Facciamo però prima una puntata verso il capoluogo, per ammirare il ponte medievale e perché speriamo in un caffè. Il ponte è costruito su una forra profonda e un lato poggia solo su una minuscola cengia; come nel caso di altri ponti arditi, esiste la nota leggenda che lo vuole opera del diavolo imbecille. Questa vista è sufficiente a renderci soddisfatti della deviazione; per fortuna, perché per il caffè dovremmo sorbirci tre chilometri di asfalto fino al posto tappa GTA di Talosio. Ne abbiamo un buon ricordo per un’improvvisata cena dopo un’epica gita a Cima Loit, ma il percorso di oggi è già abbastanza lungo e soprassediamo.
Riprendiamo la mulattiera, che procede in quota in belle faggete, attraversando umidi impluvi ricoperti di muschio. La stanchezza si fa sentire: vogliamo fare merenda a san Pancrazio, che è la chiesa più bella del giro, ma prima di arrivare facciamo una sosta ristoratrice di fronte alla modesta chiesa di san Grato, a Costa, l’ennesimo paese abbandonato. Alcune case sono molto grandi. È poco noto che dalle nostre parti certe case di montagna sono così grandi perché il diritto napoleonico prevedeva che la casa fosse divisa in parti uguali tra gli eredi. Si finiva pertanto col prevedere una stanza per ogni discendente, magari anche per quelli definitivamente emigrati nella bassa o addirittura in Francia, che non sarebbero più tornati a risiederci. Dal prato accanto alla chiesa conviene puntare alla strada attraversandolo, perché la sua costruzione ha interrotto la mulattiera e più avanti l’accesso è difficoltoso. È stata usata per costruire una condotta forzata e oggi sta gradualmente tornando in mano alla natura.
Se non si fa caso al gigantesco invaso di cemento, il borgo di Bose dove sorge san Pancrazio è molto bello. San Pancrazio è vestito da soldato romano, perché è uno dei martiri della Legione Tebea, il cui culto è molto diffuso nelle Alpi Occidentali. I legionari soggiornavano nelle province asiatiche e importavano a Roma le religioni orientali, come i culti misterici, lo gnosticismo o appunto il cristianesimo. La chiesa ha un accogliente porticato, dove diamo fondo ai termos per la merenda. Nonostante il paese sia abbandonato, ogni anno si tiene una festa in occasione della festività del patrono.
Accanto alla chiesa parte la mulattiera che scende a Sparone. Lungo di essa si trovano diverse edicole votive, che purtroppo sono in genere molto deteriorate. Chiaramente più nessuno percorre la mulattiera, neanche per venire alla festa annuale. La seguiamo per un lungo tratto, ma poi la lasciamo per un sentiero minore, perché più in basso si perde. Purtroppo dal bivio in giù il percorso è segnalato solo pensando a chi sale, per cui ogni tanto dobbiamo andare per tentativi. Ad Amnera c’è una casa chiaramente ristrutturata in tempi recenti, come si evince dall’uso di mattoni di argilla e di cemento. È la più fantasmatica di tutte quelle viste, perché alle finestre ha tendine consunte e dentro c’è ancora un letto quasi integro. Davanti c’è dell’esotico bambù. Vi giriamo intorno e prendiamo di nuovo a scendere, lungo un sentiero che richiede un po’ di attenzione per non perdere la traccia. Incontriamo anche due surreali cartelli di un fantomatico percorso podistico di Sparone; difficile trattenere il sarcasmo sulla triste fine che farebbe chi provasse a correre qui. Dove termina il bosco raggiungiamo la strada tra grandi cespugli invasivi.
All’imbocco del sentiero non c’è nessuna segnalazione. È un vero peccato, quasi una sciagura, che questi percorsi storici siano abbandonati all’incuria e all’oblio. Torniamo al cimitero per un viottolo tra le ville, i cui cani non si capacitano del passaggio di pedoni.
Per approfondire
- M. Blatto, R. Monti, L. Zavatta, Le Valli di Locana, Piantonetto e Ribordone, Rimini 2010
- W. Beheringer, Storia culturale del clima, Torino 2013
- A. Paviolo, Il “castello” di Pertica, San Giorgio Canavese 1992
- R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
- W. Beheringer, Storia culturale del clima, Torino 2013