Il periplo del Promontorio

Parco di Portofino

San Valentino


In un baleno

Mi rendo conto del silenzio che avvolge questo punto. Nella macchia sentivo, ma distrattamente senza ascoltarli, il fruscio della vegetazione mossa dal vento e i cinguetti dei passeriformi, mentre su questa panchina il sommesso fischio del vento è l'unico sottofondo e mi trasmette una sensazione di lieve irrequietezza e timore, come quando cammino solo nella notte

Il patriarca - Colonia felina di San Rocco
Il patriarca - Colonia felina di San Rocco

Diario di viaggio

Il Parco del Promontorio di Portofino è un mondo variegato di diversità paesaggistiche e naturalistiche, ma anche antropiche. Basti dire che nei luoghi più caldi raggiunge il suo limite settentrionale l'Ampelodesmos mauritanicus, un'erba alta della macchia mediterranea qui conosciuta come lisca, mentre in quelli più freschi il castagno, pianta collinare, arriva a lambire il mare. Inoltre, fin dall'antichità, gli uomini hanno modellato il territorio: al di là degli evidenti terrazzamenti, il diffuso pino domestico, che produce i pinoli così importanti nella cucina regionale ligure, è una pianta importata dagli antichi Romani. In passato le attività agricole e di raccolta, avviate in maniera diffusa dai monaci medievali, interessavano tutto il territorio, mentre oggi sono quasi scomparse e relegate a livello di attività per il tempo libero. Lo sviluppo edilizio e le attività ricreative hanno sostituito l'agricoltura nell'uso del territorio. Il processo, d'altronde comune a gran parte delle regioni montuose del Mediterraneo, prese il via nell'Ottocento e non ha mai mostrato segni di arresto e men che meno di inversione. Questo vale tanto per la terraferma quanto per il mare. I porticcioli non ospitano più i pescatori, ma le barche da diporto e i lussuosi yacht dei ricchi che scelgono questa zona per le loro vacanze, mentre i fragili fondali sono meta di un turismo di massa delle immersioni. La politica del Parco è mirata principalmente alla salvaguardia della natura, che sta conoscendo un progressivo processo di inselvatichimento o naturalizzazione che dir si voglia, in quanto i nuovi fruitori non intervengono più consapevolmente nella cura dell'ambiente, ma si limitano a modificarlo con la loro presenza, come attori inconsci.
Questa traversata con digressioni, che ne segue i tre lati costieri, non senza un'incursione su quello continentale, offre qualcosa per tutti i palati. Mi rendo però conto che è impossibile proporre un singolo giro, che mostri tutto quanto c'è d'interessante. Ad esempio, trascuro del tutto il dito roccioso di Punta Chiappa, una piccola lingua di conglomerato protesa nel mare. Con essa perdo la villa alla genovese costruita da un nobile nel Settecento, dove sperimentò le tecniche di razionalizzazione agricola promosse dall'Illuminismo, e la torretta in cemento della Wehrmacht, il cui dentino oggi caratterizza il profilo della punta vista da Camogli. Inoltre faccio solo marginali accenni alla fauna, perché la sua osservazione richiede una modalità di fruizione diversa dal camminare. Infine, da animale terrestre, perdo completamente la biodiversità dei fondali sottomarini, che giustifica l'esistenza del parco tanto quella di superficie, anche grazie alla stessa orografia tormentata che rende affascinanti e varie le terre emerse.

Santa Margherita Ligure - Valle dei Mulini

Sceso dal treno a Santa Margherita Ligure, mi accorgo che qui l'aria è più mite di quanto pensassi. A Genova, infatti, la temperatura era di appena 4°C e avevo avuto bisogno di ben due pile, una primizia in giornate senza tramontana. La selva di antenne del Monte Fasce svettava su una mammella bianca di neve, scesa fin quasi sulla costa. In attesa della coincidenza, ero uscito dalla stazione per cercare della focaccia e del caffè. Avevo trovato un bar angusto e allungato sulla riva del Bisagno, il torrente che scorre sotto Brignole e la allaga nelle frequenti alluvioni. La barista con accento meridionale e cadenza ligure si lamentava della guida di un parente, che non si ferma mai sulle strisce pedonali. Se sapesse che, nella mia patria, non lo fa nessuno… Le stradine di questa città, tortuose e strette come il suo locale, hanno prodotto una circolazione perennemente ingolfata, ma anche attenta alle regole, l'esatto opposto di quanto hanno partorito le autostrade urbane della mia.
Arrivato al mare, mi fermo e mi libero del pile, che temevo mi dovesse coprire per tutto il giorno. I pensionati passeggiano intabarrati, i gabbiani si assiepano sul loro molo preferito. Costeggio il porto turistico fino al fondo, dove, dietro al benzinaio, trovo l'imbocco di una crosa, che risale la collina tra le numerose ville, edificate negli stili più disparati ed eclettici. Nei ricchi giardini il clima mite permette il rigoglio di una variegata vegetazione esotica, tra cui palme, bambù, cedri, oltre a quella mediterranea di olivi, agrumi e pini. In fondo però anche il pino domestico, quello con la fotogenica chioma a ombrello, ha un'origine remota, in quanto fu portato qui dalle coste atlantiche dai Romani. Qui si è naturalizzato e, con i suoi pinoli, è anche entrato nella cucina regionale; oggi alcuni creativi agricoltori stanno ripetendo l'operazione con i bambù. Per la verità non è che veda tantissimo delle ville, perché sono tutte isolate da alti muri e reti, che mi nascondono agli abitanti e ai muratori che ne stanno ristrutturando alcune. Solo un dobermann si accorge di me e si insinua nella siepe per ringhiare, con il muso infilato tra le sbarre della cancellata, prontamente richiamato da una voce femminile slava.
Le ville non occupano tutto il versante: inframmezzato c'è qualche oliveto, quasi sempre abbandonato, forse anche per l'esposizione sfavorevole. Il pendio, infatti, affaccia a nord ed è in ombra. Il processo di abbandono delle fasce (il nome ligure dei pendii terrazzati) cominciò già nell'Ottocento, con l'urbanizzazione e l'emigrazione verso le Americhe, e proseguì incessante in seguito, con la fine della civiltà agricola e la nascita della civiltà dei consumi. La terra del promontorio era molto avara e per di più i terrazzamenti costringevano a fare tutto a mano con la zappa, senza l'ausilio del bestiame, per cui non c'era lo spazio sufficiente. L'olivo era coltivato in condominio con ortaggi, fagioli o cereali; la tecnica è detta coltura promiscua ed era comune in tutto il Levante, dove non ci fu mai la monocoltura come nel Ponente. I terrazzamenti sono in via di disfacimento, perché sono un artefatto molto fragile. Richiesero un'immane mole di lavoro per essere costruiti, giorni e giorni per pochi metri, senza contare che la terra di riempimento spesso arriva da molto lontano e a spalle, così come il concime. Anche la manutenzione non implica meno fatica e lavoro quotidiano. Il muro a secco è solo il manufatto più appariscente, ma altrettanto importanti sono le opere di regimazione delle acque meteoriche, che ne regolano il deflusso e limitano il potere erosivo. Queste ultime sono le prime a scomparire, invase da terra e vegetazione, e a segnare il degrado del resto. Il destino della zona che sto attraversando è emblematico della sorte di gran parte del promontorio: le attività agricole hanno passato il testimone dell'antropizzazione alla residenzialità diffusa. I nuovi abitanti non abitano più il territorio, ma si limitano a trascorrere delle frazioni più o meno lunghe nel loro recinto fortificato, senza né interagire con l'ambiente, né preoccuparsi di curarlo.
Dove finiscono le costruzioni, posso finalmente ammirare i dintorni. C'è della neve sulle cime della verde dorsale che separa il golfo del Tigullio dall'entroterra, ma meno che una spolverata. Alla cappella dedicata a San Giuseppe raggiungo finalmente il sole e mi affaccio sulla costa verso Portofino. Da qui è ben visibile la Cervara, un'abbazia trecentesca immersa nei fitti boschi del versante orientale del promontorio. Alla sua altezza, lungo la costa c'è il caratteristico scoglio, conosciuto come la “carega del vescovo”, che tutti fotografano quando passeggiano lungo la litoranea, perché un pino vi è cresciuto in cima. La Riviera di Levante è ben delineata fino all'isola del Tino, confine orientale delle Cinque Terre, immersa nel blu dell'ombra e della prospettiva aerea. Alle sue spalle c'è un monte carico di neve, che dall'azimut dovrebbe essere lo Zatta.
Proseguo su una stradina dal fondo lastricato e bordata da un muro a secco moderno, che si riconosce subito, per via dell'uniformità dei sassi, quando invece i muri tradizionali avevano un basamento in blocchi di dimensioni maggiori. Delimita una villa color arancio, circondata da prati all'inglese e olivi decorativi, la casa che invidio di più tra quelle viste, per la sua posizione panoramica. Tuttavia, a rifletterci un attimo, racchiude tutti gli elementi della perdita di identità del territorio, sostituiti da simulacri estetizzanti; magari ha anche una piscina. La stradina prosegue in traverso accanto a dei prati dove in primavera fioriscono le orchidee. Tre MTB arrivano a tutta velocità e mi sfrecciano accanto senza accennare a una frenata. Segue poi un'Ape, accompagnata dal caratteristico puzzo del motore a due tempi, che mi ricorda i motorini che sognavo quando avevo dodici anni. La semplice cappella delle Gave è dedicata a San Girolamo, raffigurato in un bassorilievo mentre scrive la Vulgata, che con un ingenuo anacronismo è raffigurata come libro anziché come pergamena. Intanto dall'entroterra, spunta la cima del monte Ramaceto spruzzata di neve, mentre tra il Tino e la costa riconosco in ultimo piano la caratteristica forma dell'isola Palmaria, di fronte a Portovenere.
Proseguo in quota in un boschetto di lecci, le querce sempreverdi che ricoprirebbero buona parte del lato marino del promontorio, se l'uomo non avesse alterato la composizione vegetazionale. Il bosco si sviluppa tra affioramenti di conglomerato, una delle due rocce del promontorio, che ne copre la sommità e il versante meridionale. È formata da ciottoli arrotondati, depositatesi in ambiente deltizio e cementati da sabbia e carbonato di calcio. La maggior parte dei ciottoli è calcarea, ma con un po' di pazienza se ne possono trovare anche di pietre verdi, rocce vulcaniche tipiche dell'arco alpino occidentale, o di rosso diaspro, una roccia silicea formata da gusci di microrganismi. I muri a secco qui sono costruiti con questo materiale, perché una volta i trasporti erano meno efficienti e per i piccoli lavori si era costretti a fare affidamento sui prodotti locali. Presentano blocchi voluminosi e irregolari, perché il conglomerato tende a fratturarsi a blocchi. Supero alcune case circondate da campi coltivati. Su un pendio ripido hanno piantato dell'Arundo donax, una canna esotica, per stabilizzare i ciglioni. Purtroppo questa canna molto usata negli orti tende a infestare, come ho avuto modo di constatare nei pressi della lecceta, dove ce n'era una colonia spontanea. Il sentiero scende a superare il Fosso dell'Acqua Morta, offrendo un bel panorama sull'incavo del vallone, che punta al mare di Paraggi. Superato il torrente, passo su un versante ombroso, dove il clima deve cambiare un bel po', visto che ci sono dei castagni alla stessa quota degli olivi del pendio solatio. Le castagne erano un'importante fonte alimentare, data la facilità di coltura e il buon adattamento di quest'albero alle zone fresche del promontorio. Inoltre nei castagneti era anche possibile far pascolare gli animali. Era anche usato come legname da costruzione, come del resto quasi tutte le specie arboree qui presenti, ciascuna con le sue applicazioni specifiche, dal fasciame per le barche al carbone di legna. Il percorso sale con una scalinata in cemento, dove mi supera una signora dall'accento tedesco vestita di una tuta nera. Non appena l'esposizione migliora, trovo delle case, tra cui ne ricordo una con dei grandi oleandri; dei tornanti in una lecceta con pini mi porta ad altre case, dove fotografo una mimosa contro il cielo azzurro, da sfruttare per gli auguri a parenti e amiche che compiono gli anni in questo periodo.

Valle dei Mulini (Fosso dell'Acqua Viva)

Sono al mulino del Gassetta, lungo il Fosso dell'Acqua Viva, una profonda frattura del conglomerato, di origine tettonica. Il nome è quanto mai evocativo. In questa valletta umida e ombrosa scorre infatti un corso d'acqua perenne, alimentato dalle sorgenti del monte Pollone. Il rifornimento di acqua non proviene solo dalle piogge, che sarebbero insufficienti, ma anche dalla condensazione: infatti i venti meridionali, saturi di umidità per il passaggio sul mare, quando incontrano i rilievi del promontorio, risalgono le pendici dei rilievi e si raffreddano per l'espansione conseguente alla diminuzione di pressione. È il fenomeno opposto a quando facciamo gonfiamo la camera d'aria della bicicletta l'aria si scalda per la compressione. In conseguenza di ciò, l'umidità relativa aumenta, perché l'aria fresca può contenere meno vapore acqueo, e il surplus condensa. L'acqua non ruscella rapidamente a valle, ma si accumula nel terreno, che svolge un importante ruolo di serbatoio idrico. Nella parte alta del promontorio, è insolitamente spesso e di tipo intermedio tra quelli dei climi temperati e quelli dei climi equatoriali, in quanto si è formato durante fasi di clima più caldo e umido dell'attuale, in cui l'azione di degradazione della roccia era più intensa. La presenza del bosco, con le sue radici che stabilizzano, ha permesso di conservare questi suoli antichi fino a oggi.
Oggi di questo flusso costante di acqua vediamo solo una piccola parte, in quanto una porzione consistente è captata dagli acquedotti delle cittadine rivierasche. Invece nel Settecento era così copioso da alimentare oltre trenta mulini. Erano posti in cascata e collegati da canali, qui chiamati beudi, che convogliavano l'acqua da uno all'altro. Macinavano non solo prodotti locali, ma anche olive, castagne, cereali provenienti da tutto il Levante e dall'entroterra; i prodotti finiti erano poi imbarcati nel porto di Paraggi. Erano affrancati dall'abbazia di San Fruttuoso, i cui diritti feudali si estendevano sul promontorio. L'ultimo chiuse nel 1987, ma già nell'ultimo dopoguerra la crisi era molto avanzata. Il mulino del Gassetta è stato ristrutturato e al suo interno sono presenti alcuni macchinari e dei pannelli informativi, che illustrano il funzionamento di queste strutture. Nella parte alta della valle diversi edifici sono stati trasformati in abitazioni. Discendendola, lungo un sentiero recentemente segnalato, è possibile osservare i pochi resti degli edifici e delle canalizzazioni, invasi dalla vegetazione esuberante. Una molto interessante si trova poco prima di Paraggi, perché si vede bene la canaletta dirigersi verso un torrione che convogliava l'acqua alla ruota.
La valle è pregevole anche da un punto di vista naturalistico, perché il suo clima umido e mite fa prosperare una lussureggiante vegetazione. Tra le rarità, la pteride di Creta, una felce subtropicale, che qui è quasi al limite settentrionale del suo areale. Se si vuole scendere di qui, bisogna poi percorrere la pedonale da Paraggi a Portofino, da cui si possono ammirare le varie ville costruite nel periodo Romantico, quando il Promontorio divenne un centro d'attrazione per il nascente turismo d’élite di gentiluomini. In paese si può scendere al celebre porticciolo, per fare del VIP watching: il jet-set lo frequenta per farsi contemplare e fotografare dalla working class, in una corrispondenza d'amorosi sensi. Come da quell'hair-stylist di barriera, con la vetrina tappezzata di foto di lei insieme alle celebrity, tutte sovraesposte a causa dell'esposimetro starato dagli abiti scuri da gala. Da Portofino si prosegue per San Fruttuoso e ci si riallaccia al percorso descritto di seguito presso lo sbarramento del Vessinaro.

Valle dei Mulini - San Fruttuoso

Al mulino, dove c'è un bar, che però oggi è chiuso, mi fermo su una panca a mangiare un po' della focaccia di cui ho fatto scorta a Brignole. Sto accanto a un ontano fiorito ad ascoltare lo scorrere dell'acqua del ruscello. Proseguo quindi per la stradina, che resta in quota. È lastricata con sassi di fiume, materia d'importazione: oggi può essere più conveniente usare materiali che arrivano da lontano, che usare la materia prima locale. Giunto su una dorsale, mi trovo su un magnifico dosso coltivato a olivi, intorno a Olmi. Lasciati a sinistra i percorsi diretti a Portofino, di cui intravedo la zona alta, e alla Cappelletta, piego a destra e scendo dolcemente allo stagno sul rio Vessinaro, un invaso nato dallo sbarramento del torrente a fini antincendio, che oggi si è naturalizzato. A causa della terribile siccità dello scorso anno, è quasi secco.
Puntando verso Portofino, si trova ben presto il sentiero che scende a Cala degli Inglesi, una piccola cala di grandi massi di conglomerato. Il sentiero di accesso è molto scivoloso, anche a terreno asciutto, per cui è stato attrezzato con catene. È fantastico scenderci quando il mare è turbolento, perché già prima di arrivarci si sente il terreno vibrare per la furia delle onde. Poi, quando si è sulla riva, ci si fa cullare dal frastuono dei flutti che si rifrangono contro i massi e si resta rapiti ad ammirare la superficie spumeggiante e i bianchi spruzzi.
Stavolta procedo invece verso Prato, le ultime case prima del selvaggio versante meridionale. Uscito dal cancelletto che delimita la frazione, mi immergo nella macchia, tra arbusti, pini domestici e lecci. Noto parecchi pini marittimi seccati e uccisi da un parassita della famiglia delle cocciniglie. Si tratta di un insetto originario delle pinete dell'Atlantico che, quando giunse in Costa Azzurra con il commercio di legname, nel nuovo clima divenne infestante e si diffuse rapidamente in Liguria e Toscana, dove oggi sono a rischio le famose pinete costiere. Non esistono metodi efficaci di lotta, in quanto, attaccandosi alla preda, si ricopre di una cera che lo rende invulnerabile ai pesticidi per contatto. L'unico metodo di lotta praticabile è abbattere i pini più infestati e sperare che una quota sufficiente si riveli naturalmente resistente e possa propagare la specie. Proseguendo in traverso, ammiro dall'alto Cala degli Inglesi e giungo a un primo punto panoramico, su una placca di conglomerato, e in breve a Base 0, da cui scendo al punto panoramico a picco sul mare. Da qui lo sguardo spazia all'estremo Levante fino al gruppo del Beigua, coperto di neve, e alle Alpi Liguri, che svettano sulla foschia che cela il Ponente. Più vicino c'è la dorsale che chiude la baia di San Fruttuoso, con la torretta di Cala dell'Oro appiattita contro le rocce retrostanti e a malapena visibile, nella luce di quest'ora, mentre in alto si distingue bene Semaforo Nuovo. C'è un surreale gattino tigrato grigio, che mi domando come possa essere giunto qui. Miagola, fa le fusa e i rotolini sul terreno, ma non si fa toccare. Un'amica esperta mi dirà che probabilmente è in calore.
Da Base 0, risalendo il sentiero diretto a Pietre Strette, a un tornante verso destra c'è la miglior visuale dall'alto della baia con l'abbazia di San Fruttuoso, a cui sono ora diretto. Proseguo in discesa nella fitta lecceta, su terreno umidiccio. Ogni tanto il bosco offre qualche spiraglio sull'abbazia e sulla torretta di Cala dell'Oro. A quota 100 attraverso una zona terrazzata in disarmo, dove la vegetazione spontanea sta riprendendosi lo spazio che gli olivi le avevano sottratto. I rampicanti li stanno soffocando e prima o poi saranno sostituiti dai lecci che li circondano. Queste colture si sono espanse in simbiosi con l'uomo; venuta meno la sua azione, diventano perdenti nella lotta per la sopravvivenza. Il processo di naturalizzazione non avviene solo in superficie, ma anche sottoterra: le lavorazioni agricole tendono a omogeneizzare il terreno, che invece in natura si dispone in strati (detti orizzonti), da quello superficiale di elementi organici in via di decomposizione, fino a quello di materiale minerale poco degradato, a contatto con la roccia sottostante.

San Fruttuoso

Superato l'eliporto, sono alle prime case della frazione, in una stretta cala. Le case sono disposte alla ligure, sfruttando gli anfratti schiacciati tra il pendio e il mare. Il percorso zigzaga per scalette, passando accanto a una veranda, che nella stagione estiva funziona come ristorante. Oggi, passate in secondo piano le attività tradizionali di pesca e olivicoltura, è il turismo la principale fonte di reddito dei pochi abitanti. Mi fermo qualche attimo ad ammirare le onde riflesse sulle trifore della facciata. In pochi passi arrivo allo spiazzo da cui si accede al complesso e scendo alla spiaggia per un'angusta scaletta, che mi porta sotto le arcate alla base dell'edificio e di lì al mare. La spiaggia si formò in seguito a un'alluvione, nel settembre 1915. Prima l'abbazia si affacciava direttamente sul mare, tanto che esisteva una porta, che dall'interno conduceva direttamente all'approdo delle imbarcazioni; in qualche vecchia foto esposta nei locali della zona la si può vedere com'era senza spiaggia. La leggenda la vuole fondata da due discepoli del santo, fuggiti nell'VIII secolo dalla Spagna durante l'invasione araba, mentre i primi documenti storici che la attestano sono della fine del X. Come spesso accadde nel Medioevo, fu fondata in una zona dove preesisteva una presenza Romana: l'uso della baia come approdo e delle sorgenti a monte è documentato già nel III secolo. Successivamente l'abbazia prosperò, grazie ai proventi dell'olivo e della pesca; i suoi diritti feudali erano estesi a tutto il promontorio. Tuttavia fu anche un limite al suo sviluppo agricolo, in quanto il tipo di contratto usato per dare in concessione la terra ai contadini locali, l'enfiteusi, impediva loro di migliorare i terreni o modificarne la destinazione. Cadde in decadenza a causa delle incursioni saracene e della competizione della Cervara. Dopo essere stata secolarizzata, nel XIV secolo fu ceduta ai Doria, che successivamente la usarono come sepolcreto di famiglia.
Sono solo, a parte alcuni operai multietnici, che stanno montando delle impalcature all'attracco dei battelli. Sono l'unico mezzo motorizzato che unisce la baia ai paesi della costa, altrimenti raggiungibili solo a piedi. Approfitto dell'inusuale solitudine per scattare qualche foto priva di presenza umana. La pietra giallina dell'edificio contrasta con il verde scuro degli ulivi e dei lecci, oltre che con il blu intenso del cielo. Purtroppo l'armonia architettonica è guastata da una veranda privata costruita con materiali di risulta e da un soppalco con cabine di plastica. In effetti oggi è andata del tutto perduta la connessione dell'edificio con l'ambiente circostante, in quanto la fruizione del luogo è turistica e balneare e non più agricola. La baia è poi sovrastata dalla torre di avvistamento fatta edificare dai Doria nel XVI secolo, all'epoca delle scorribande ottomane, come quella del leggendario Dragut, che nella vicina Rapallo in un'occasione rapì un centinaio di fanciulle. Mentre sono fermo sulla spiaggia a mangiare un boccone, mi perdo a guardare il mutevole luccichio del mare, che ondeggia pigramente sotto il sole. Tento anche di fotografarlo, come se non avessi mai imparato che un soggetto ammaliante e un soggetto fotografabile sono due cose ben diverse.
Molto bello anche l'interno, che nel corso dei secoli ha subito moltissime aggiunte e rimaneggiamenti, ma conservando una certa coerenza stilistica. Chi ha presente le abbazie benedettine dell'Italia centrale, qui troverà elementi familiari, ma in scala ridotta, a volte persino claustrofobica, indubbiamente ligure. A me sono piaciuti soprattutto il minuscolo chiostro, edificato in due riprese su due livelli, e la luminosa sala affacciata sul mare con le trifore gotiche, dove sono esposti i reperti archeologici trovati durante gli scavi.

San Fruttuoso - Semaforo Nuovo

Prima di ripartire, prendo un caffè al bar. Non mi fanno lo scontrino e per la toilette mi dirottano sui servizi dell'abbazia, ma il caffè è forte e gradevole. Riparto sempre a malincuore da San Fruttuoso. La mulattiera medievale lastricata con il conglomerato lascia la frazione passando dalla torre Doria, da cui si gode una bella vista a volo d'uccello sul complesso e la spiaggia, per poi risalire dei pendii terrazzati, sempre con il conglomerato. Tra i blocchi cerco pervicacemente qualche pietra più trendy del comune calcare e la mia costanza è premiata prima da un ciottolo di quarzite, poi da quella che sembra della calcite, anche se non o con me del wc-net per mettere alla prova la mia ipotesi. Altre volte ho riconosciuto delle pietre verdi, mentre non ce l'ho mai fatta a trovare del rosso diaspro, una roccia silicea diffusa in val Graveglia, nell'entroterra di Lavagna. Non sono mai riuscito a capire se gli oliveti che sto attraversando siano ancora produttivi o se siano tenuti ordinati sono a fini turistici: anni fa ricordo di aver visto un cartello che avvisava di trattamenti, ma non ricordo di aver mai visto reti. Inoltre già poco lontano dal tracciato sembrano abbandonati, a mo' di villaggio Potemkin.
Incontro le capre inselvatichite che girano per il promontorio, portate qui dal Parco per contenere la vegetazione del sottobosco, non più raccolta dai contadini, e di conseguenza i frequenti incendi estivi. Il becco sta brucando avidamente dei ciuffi d'erba. Di solito è più comune incontrale nei pressi di Cala dell'Oro o sui torrioni a est delle Batterie, lungo il sentiero attrezzato che corre vicino alla costa, in zone meno antropizzate e più impervie. Qui conducono una vita senza padroni né predatori, perché la morfologia tormentata, la folta macchia mediterranea e gli spazi ridotti del promontorio non sono adatti ai lupi, comuni sul vicino Appennino. Raggiungo il letto del torrente che causò l'alluvione. È secco, ma come osserverò in un punto dove la roccia non è coperta di terra, invisibile scorre dell'acqua dentro la terra, che, come già osservato, svolge un fondamentale ruolo di spugna idrica. A monte del secondo attraversamento sono evidenti dei gradini artificiali nel letto, costruiti per ridurne l'impeto durante le piene; purtroppo tra il terriccio spunta una forchetta di plastica di qualche picnic. Del muschio sulle pietre fa intuire quanto possa essere umido, questo impluvio dove si raccolgono le acque.
Incrocio una signora vestita pesantemente (io sono in maglietta, come del resto lo ero stato per tutta la sosta sulla spiaggia). Presso il rifugio, che si trova al limite superiore dei terrazzamenti, un uomo sta sfrondando degli olivi. A monte, dove comincia la macchia, ci sono delle strisce di terra arate dai cinghiali. Nella mia guida degli anni Ottanta nemmeno erano citati tra la fauna del parco, mentre oggi, dopo le introduzioni di ibridi prolifici da parte dei cacciatori e l'abbandono di castagneti e querceti, che offrono loro grandi quantità di cibo, sono onnipresenti. Attraverso poi la zona della sorgente Caselle, captata da un vecchio acquedotto, dove c'è anche una fontanella, che nella stagione calda deve essere davvero provvidenziale. Lungo i letti dei ruscelli un occhio più attento del mio potrebbe vedere dei pisoliti, minuscoli granelli bianchi, formati da oggetti vari rivestiti da carbonato di calcio depositato dall'acqua sorgiva. Qui si stacca un sentiero, conosciuto come Via dei Tubi, che segue l'acquedotto; moderatamente avventuroso, da una decina d'anni può essere percorso solo in compagnia di una guida del parco. Un po' per volta la macchia è sostituita da un bosco a prevalenza di lecci. Più in alto fa la comparsa qualche castagno ceduo. Questo incavo umido che alimenta la sorgente è una barriera al propagarsi degli incendi, che nella stagione secca qui sono frequenti.
Specie nelle giornate di tramontana, all'approssimarsi della dorsale del promontorio, si avverte un evidente calo di temperatura: sul versante continentale il clima è decisamente più fresco. Oggi il vento è moderato, ma lo sbalzo termico è lo stesso marcato. Arrivo e Pietre Strette, un punto sulla dorsale caratterizzato da alcuni turriti blocchi di conglomerato, a cui non sono mai riuscito a scattare una foto decente. Vi vedo arrivare alla spicciolata diversi escursionisti, tutti provenienti dal versante continentale e tutti ben più coperti di me. Anche i sentieri da cui arrivano loro sono medievali e avevano lo scopo di far comunicare l'interno con i porti, perché la maggior parte dei commerci avveniva via mare. Per prima cosa vado a cercare un punto panoramico sul Tigullio, alle cui spalle risaltano i monti coperti di neve. Mi fermo brevemente su una panchina e quindi ritorno sui miei passi, per imboccare il sentiero diretto a Toca. Resto ancora un poco nell'aria frizzante dell'ombra, per poi tornare finalmente al sole e nel tepore della macchia mediterranea.
A una manciata di passi dal primo punto panoramico sulla costa, sulla radice di un arbusto noto una strana escrescenza giallastra, dalle circonvoluzioni di una peonia arruffata, probabilmente un fungo parassita. Dallo spiazzo panoramico posso ammirare dall'alto la baia di San Fruttuoso e Cala dell'Oro, l'insenatura adiacente a ovest, che precipitano verso il mare. La seconda prende dall'essere stata scelta come approdo dai contrabbandieri, grazie al suo isolamento. Una volta esisteva un sentiero oggi scomparso che scendeva fino alle sue sponde. Sia il suo mare che le sue pendici sono una zona a protezione integrale, dove è vietata ogni attività umana. Queste aree sono ridotte a minuscole isole nell'oceano dell'Antropocene. Vedo anche meglio la costa fino al Tino e alla Palmaria, ora che il sole è girato e le illumina da questo lato. Il secondo punto panoramico, su una lastra di conglomerato, offre una vista migliore degli stessi soggetti. Qui c'è un cartello che contiene tutto quello che c'è da sapere sull'Ampelodesmos mauritanicus, un'erba alta diffusa sulle coste del Mediterraneo occidentale, comune sul promontorio, dove raggiunge il limite settentrionale del suo areale. Già ne avevo vista nel tratto tra Olmi e Base 0 e molta altra ce n'è tra qui e Semaforo Nuovo. Nell'ottica di uso delle risorse locali, tipica della passata civiltà della sussistenza, era usata al posto della paglia per costruire sedie e ceste o anche i tetti delle case; anche il cordame della piccola tonnara di Camogli era intrecciato con quest'erba. Le foglie servivano invece come mangime per il bestiame. Seguono altri tratti di macchia folta alternati a zone più panoramiche. Il promontorio disegna poi un incavo, una delle fratture tettoniche del conglomerato dove si accumula l'acqua. E in effetti la vegetazione cambia subito aspetto: alti alberi, un cespuglio di ontano, che riconosco dai lunghi fiori penduli, e delle felci.
Sono quindi alla selletta chiamata Toca, da cui, con una breve digressione, raggiungo lo straordinario punto panoramico di Semaforo Nuovo. Si chiama così per la presenza di un radiofaro per la navigazione, posto qui in posizione dominante. Il panorama si apre verso ovest: Genova, con il monte Fasce già sgombro di neve, il gruppo del Beigua che ce l'ha ancora e le Alpi Liguri che svettano sul mare di foschia che avvolge il Ponente. Il sole ormai basso disegna le forme delle montagne con le ombre della sera. Sotto di me ci sono i dirupi che mi separano dalle Batterie, la zona di bunker della Seconda Guerra Mondiale, dove termina il sentiero attrezzato che corre più in basso rispetto a quello percorso da me. I dirupi quasi nudi scendono poi fino al mare, dove terminano con alte scogliere. Verso est, è delineata contro il mare la torretta sul promontorio che delimita Cala dell'Oro, un faro seicentesco. Vado a sedermi sulla panchina nei pressi del grande pino domestico, accanto alla prima fioritura di narcisi trombone. Mi rendo conto del silenzio che avvolge questo punto. Nella macchia sentivo, ma distrattamente senza ascoltarli, il fruscio della vegetazione mossa dal vento e i cinguetti dei passeriformi, mentre su questa panchina l'unico sottofondo è il sussurro del vento, alternato a momenti di silenzio assoluto. Mi trasmette una sensazione di lieve irrequietezza e vago timore, non legato a nessun pericolo materiale, come quando cammino solo nelle notti di luna. L'introspezione non dura però molto, perché una piccola orda di cani curiosi anticipa quattro signore di varie età, che parlano ininterrottamente, senza pause tra le parole dell'una e quelle dell'altra. Probabilmente arrivano da Portofino Vetta, dove di solito lasciano l'auto i merenderos che nelle belle giornate festive affollano questo posto. Si vanno a sedere sulla panchina affacciata verso le Batterie. Quando se ne sono andate, ci torno per superare la staccionata e scattare qualche foto.

Semaforo Nuovo - Camogli

Intanto il sole calante scalda sempre meno, per cui mi sono coperto un po' e tale resto anche quando riparto, perché ora devo affrontare una zona ombrosa. Infatti il sentiero, che scende verso Mortola, attraversa un pendio esposto a nord, dove vegeta un bosco mesofilo della collina, nonostante sia affacciato sul mare. Tra i rami spogli scorgo un po' di panorama sul mare e Camogli. Su terreno umidiccio e scivoloso, supero un orrido incavo, dove deve scorrere un torrente durante la pioggia, e successivamente una zona franosa stabilizzata con tecniche di ingegneria naturalistica. Ad un tornante tralascio un sentiero non segnalato, che dovrebbe essere quello della Via dei Tubi. Anche qui, come alle Caselle, nessuna palina; il Parco sembra voler scoraggiare i potenziali trasgressori sperando che non scoprano l'accesso:security through obscurity, direbbero gli informatici, una strategia che non ha mai funzionato granché. Tuttavia non posso negare che un evidente cartello di divieto sarebbe un incentivo irresistibile alla trasgressione. Confluito sulla comoda pista che arriva dalle Batterie, attraverso ancora dei letti di torrenti secchi. Prima delle case, trovo una sorgente, dove riempio la borraccia per portarmi un po' di acqua buona in città. La sua presenza indica che sono nel punto in cui il conglomerato si sovrappone ai calcari del Monte Antola, l'altra roccia del promontorio, che, meno fratturati, bloccano il deflusso sotterraneo dell'acqua e la fanno venire alla luce.
Giungo alle prime case, con i loro orti, gli alberi da frutta, i motorini e gli Ape sullo stretto viottolo di accesso. Arrivo alla piazzetta di San Rocco quando il sole sta per sparire nel mare. In un primo momento è nascosto da qualche velatura, ma, mentre sono fermo a prendere appunti, trova un varco tra le nubi. Mollo allora tutto sul muretto e mi precipito a scattare foto ai dintorni. Intanto la gente entra in chiesa alla spicciolata, perché, vista l'ora, sta per cominciare la funzione delle Ceneri. Imbocco quindi la crosa per Camogli, osservo i pigri gatti della colonia felina e richiamo chi mi aveva trovato con il telefono staccato per la gita. Sono in mezzo alle abitazioni e ho perciò esaurito la voglia di concentrami sull'escursione.
Salutato dalle grosse e rumorose oche del ruscello accanto alla pedonale, entro in Camogli e vado a cercare la focaccia al formaggio di Recco nel locale di fiducia. Ho ancora il tempo di appoggiare la fotocamera sulla balaustra, per fotografare al crepuscolo la chiesa sulla spiaggia e poi due adolescenti che mi chiedono un ritratto romantico con il loro cellulare. Lascio i tavolini dei locali sul lungomare, che attendono gli innamorati, e salgo alla stazione. Sul treno, invece di leggere il Darwin che mi aveva tenuto compagnia nel viaggio di andata, ascolto un vecchio marocchino, dai modi gentili e l'alito alcoolico, cercare invano di circuire una giovane africana nera, con improvvisate storie di vita vera. Lei sembra divertita dalle attenzioni, ma naturalmente si guarda bene dal dargli il suo numero di telefono, che lui le chiede insistentemente. È il suo modo di santificare la festa consumistica degli innamorati.

Per approfondire

AAVV, Ecologia del paesaggio del Monte di Portofino, Segrate 2013
G. Brancucci - A. Ghersi - M.E. Ruggiero, Il paesaggio terrazzato ligure: da valore ambientale e culturale a elemento di rischio, Geologia dell'ambiente, anno IX n.2 2001
A. Girani - S. Olivari, Guida al Monte di Portofino, Genova 1986
S. Olivari - A. Rotta, I mulini dell'Acquaviva, Genova 1988
E. Poggi, Rocce della Liguria, Gavi 2011

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San Fruttuoso - Chiostro
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San Fruttuoso - Molo
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Lunetta negli oliveti di San Fruttuoso
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Semaforo Nuovo
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Lisca (Ampelodesmos mauritanicus)
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Mortola
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Camogli da Mortola
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San Rocco
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Ruta
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Il patriarca - Colonia felina di San Rocco
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Camogli
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