Sentiero Glaciologico Federico Sacco al Ciardoney
Valle Soana
29 luglio
In un baleno
Il sentiero glaciologico di Ciardoney non presenta alcuna qualità instagrammabile, ma è raccomandato per chi cerca il contatto con la natura lontano dalle attrezzature contemporanee per turisti
Diario di viaggio
Federico Sacco (1864-1948) è stato un geologo piemontese. Oltre che all’opera di ricerca scientifica con pubblicazioni sulle riviste dell’epoca, dedicò tempo all’attività di divulgazione al grande pubblico, non solo scrivendo su riviste popolari di montagna e turismo, ma anche organizzando escursioni guidate da lui stesso. Naturalmente si occupò anche di questo ghiacciaio, a cui sale il sentiero segnalato e a lui intitolato nel 2023, e più in generale della valle in cui si trova, la val Soana sul versante piemontese del Gran Paradiso.
Il ghiacciaio di Ciardoney non presenta alcuna qualità instagrammabile, dal momento che è modesto nell’estensione, tanto da essere destinato a estinguersi forse persino prima di me, se le previsioni climatologiche ed epidemiologiche sono corrette, e pure nella morfologia, consistendo unicamente in un piccolo bacino di accumulo. Tuttavia ha avuto la sorte di essere uno dei più studiati d’Italia, con primi rilevamenti nel tardo Ottocento e una serie di misure di estensione e massa continue dal 1986, dopo alcune sporadiche nel decennio precedente, effettuate dalla Società Meteorologica Italiana, SMI, nota in Piemonte per il suo bollettino meteo anticommerciale Nimbus. Per queste ragioni è stato incluso dal World Glacier Monitoring Center di Zurigo tra quelli campione, per studiare l’andamento planetario delle superfici ghiacciate.
Pertanto il sentiero non può certo competere con Fellaria per le foto di paesaggi mozzafiato con strafiga, anche al di là della ben diversa accessibilità, dal momento che per arrivare all’attacco bisogna superare un dislivello di 1400 m in oltre 4 ore di cammino. Invece per chi cammina per toccare con mano le meraviglie della natura, l’anello fino al bivacco Revelli accoppiato al sentiero consiste in un viaggio dalla bassa montagna terrazzata fino al mondo delle nude pietre sterili, dal Mediterraneo all’Artico, senza contare tutta la storia alpinistica celata sulle cime, che si possono ammirare dal basso. Si può spezzare in due giorni sfruttando il bivacco all’attacco del sentiero, che tuttavia ha appena quattro posti letto e non ha fonti d’acqua nelle vicinanze, ma richiede un approvvigionamento quasi a valle.
Del ghiacciaio è interessante non solo il lato naturalistico, ma anche quello antropico dell’etimologia del nome, che pare far riferimento al cardo (em>ahciardòn in dialetto). In questo caso sarebbe il classico nome portato dalle pendici verso le parti alte dei monti, che i montanari lasciavano innominate, un po’ come la vicina vetta della Grande Arolla prende il nome valdostano del pino cembro. Tuttavia un’altra ipotesi più speculativa fa invece riferimento ai cardòun, le punte metalliche sopra i cancelli per impedire il passaggio, che prendono il nome sempre dalle punte del cardo: in quest’altra eventualità sarebbe arrivato dalle guglia rocciosa della Grand’Uja a monte del ghiacciaio.
Per avere ore di luce a sufficienza, mi alzo alle 4, ma senza essere andato a letto abbastanza presto, per cui poi mi fermo un quarto d’ora a Pont, a pisolare in auto per non rischiare colpi di sonno lungo la stretta e tortuosa strada della val Soana. Qualche auto cala in direzione opposta, ma ben più numerosi erano i TIR sulla tangenziale di Torino già alle 5. Sacco, che era meno frettoloso di me, già qui notava depositi morenici, rocce levigate e massi erratici di gneiss ghiandone, quindi depositati dopo aver viaggiato fin dal cuore del massiccio cristallino del Gran Paradiso. Dopo aver ammirato tingersi di rosso alcune delle cime che andrò a vedere da vicino, verso le 6.30 sono a Forzo, ultima frazione di questo vallone raggiungibile in auto. Qui però il piccolo parcheggio è interamente occupato dai villeggianti, tra cui ci sono alcune targhe francesi, probabilmente discendenti della corrente migratoria transalpina che ha spopolato la valle nel Novecento. Sono pertanto costretto a retrocedere per cercare posto a Molino, dove un signore si accinge a montare in sella a una moto per scendere a valle.
Dal ponte stradale, che ha sostituito quello della mulattiera, metto in fuga un airone cinerino dal greto del torrente, che invece non aveva mosso ciglio mentre ero passato due volte in auto. Dal retro del paese, dove ancora nessuno si aggira tra le case, imbocco una mulattiera erbosa, bordata dalle grosse pietre ricavate dallo spietramento dei prati sul fondo del vallone. Lo spazio disponibile tra i due ripidi fianchi della valle e l’ampio letto ciottoloso del torrente non è molto, ma un gregge di capre ne approfitterà a breve, non appena sarà liberato dalla rete, dentro cui lo proteggono dai lupi dei cani neri che mi salutano rumorosamente. Un asinello in un recinto di filo probabilmente gradirebbe delle coccole o meglio ancora una mela. Lo stesso nome locale della diramazione di Forzo, Achura, ovvero oscura, parebbe far riferimento proprio alla sua profondità e scarsa insolazione.
Il sentiero segnato esce dai muretti e taglia nel prato fino al lariceto, che cresce sulle pendici del monte, tra estese pietraie, dette clapey nel dialetto francoprovenzale della valle, in questo abbastanza simile al piemontese ciaplè, ma altrimenti considerato incomprensibile dai canavesani. Attraversandole è spesso ancora perfettamente piallato, nonostante sia venuta meno l'abbondante e gratuita manodopera che se ne occupava.
Analizzo qualche punto di vista per riprendere questi tratti assieme allo sfondo di rilievi blu che si perdono nella foschia, ma non riesco a individuare nessuna prospettiva favorevole. Adoro le dorsali senza dettagli e rese composizioni astratte di pure forme di tonalità di blu, che si perdono all'orizzonte per l'amplesso delle ombre del sole basso e della foschia. Dovrò aspettare l'alpe Surina per ricavarne una foto accettabile.
Il sentiero si inerpica ripido, nel lariceto dal fondo pietroso, sul pendio che sbarra la conca di Forzo da questo lato. L'erba del sentiero è stata tagliata di recente, immagino dai pastori, e in qualche punto ancora profuma. A quota 1500 circa trovo uno spiazzetto con un bassorilievo della Madonna con Bambino, un ex-voto del 1955; entrambi hanno un'espressione mesta. Oltrepasso dei recinti per le mucche e i cavalli lasciati aperti, perché nel frattempo il bestiame si è spostato ai pascoli superiori. La scorsa settimana scendendo incontrai il pastore, che saliva a torso nudo accompagnato da un cane molto affettuoso per andare a transumare dall'alpe intermedia ai pascoli agostani. Mi disse che, prima di rientrare a valle, li porta ancora nel vallone di Umbrias, dove ci sono dei piccoli prati tra estesi accumuli morenici, che però ora si stanno appena rigenerando dopo lo scioglimento della neve.
Il sentiero presenta qualche passaggio invaso da sorgive d'acqua, che lo trasformano in pantano. Ogni tanto interseco il filo di una teleferica dismessa. Il paesaggio non è molto esteso, per la profondità della conca in cui mi trovo ed è dominato dal picco roccioso arrotondato del monte Colombino. Da qualche parte trovo pure una sorgente sfruttabile, da cui mi abbevero abbondantemente, perché la temperatura è tutt'altro che fresca sin dalle 7 e pure l'umidità favorisce la sudorazione. Ho portato solo un litro e mezzo d'acqua, perché la cartina mostra una sorgente lungo la discesa e il frigo era pure vuoto di frutta, per cui di dissetante ho solo una pesca e un cuore di bue.
Dopo un primo edificio in disuso in una radura con vista sul Meal, la lama di roccia pianeggiante che separa il pendio di salita dalla gola in cui scorre il torrente, raggiungo l'alpe Surina. L'edificio in piedi nel 2016 è parzialmente crollato. Il pendio si addolcisce e al bosco fitto si sostituiscono dei prati e il lariceto rado pascolato, tra numerose rocce montonate, le rocce levigate ed arrotondate dall’azione abrasiva del ghiacciaio. A valle la foschia è davvero densa, ma per ora non vi è accenno di risalita di nubi. Mi siedo cinque minuti su una pietra e inizio a dar fondo alla borraccia. Questo è anche l'ultimo punto in cui il cellulare ha un po' di rete, perché poi non avrà possibilità di connessione fin quasi all'arrivo.
Verso le grange Vasinetto il bosco scompare del tutto e il pendio si addolcisce ulteriormente, fino quasi a pianeggiare. L'edificio è ridotto allo scheletro, mentre in buone condizioni è la casa di caccia Vittoria, che si trova sul margine del pianoro, su un rilievo dove le rocce montonate sono così arrotondate da sembrare quasi delle circonvoluzioni dei capelli della principessa Leyla. In effetti, il termine fu coniato proprio pensando alle parrucche settecentesche, che erano dette montonate perché lisciate con il grasso di pecora. L’Adamo immaginifico non è altri che il celebre de Saussure, lo scienziato illuminista svizzero che promosse la scalata del monte Bianco e viaggiò a lungo per le Alpi, incuriosito soprattutto dai fenomeni geologici. La creazione del nome è descritta nel capitolo 40, paragrafo 1061 dei Voyages dans les Alpes ed è ambientata a una lega di distanza da Bourg St. Maurice, il nome attuale della celebre Agaunum dei tebei, ai piedi del Gran San Bernardo.
Lascio sulla sinistra l'arduo sentiero diretto al lago Gelato, che in quota risale lungamente delle pietraie disagevoli che pochi giorni fa mi hanno respinto alla sola vista, sebbene da anni volessi raggiungerlo per la sua posizione arroccata in un severo circo glaciale a quasi 3000 m. Mi dirigo verso uno spumeggiante torrente, che scorre in un incavo roccioso per poi precipitare a valle del pianoro, anche con una cascata che vedrò al rientro. Vado a sporgermi dal punto di vista del ponte, sul sentiero diretto al casotto dei guardiaparco presso l’alpe Muanda, per riassumere in una singola foto le precedenti descrizioni, senza dimenticare i valloni blu di sfondo, quindi ritorno sul sentiero, che rimonta il breve pendio fino al pian di Geri. Vedo un primo cavallo nero, quindi al piano ve ne sono altri accanto a dei puledri sdraiati. Più spostati pascolano dei vitelli. Intanto appaiono di fronte le cime rocciose che chiudono il vallone, dall'aguzza Uja (ovvero guglia) di Ciardoney al triangolo equilatero del Monveso di Forzo.
Il sentiero, ora molto meno strutturato, per non dover guadare due volte, permane sulla stretta lingua di terra tra il copioso torrente e il detrito a grossi blocchi che scende dalle pareti sovrastanti e a volte ci si arrampica sopra, senza tuttavia essere eccessivamente disagevole. Tutto d'un tratto il torrente vira bruscamente verso nord, verso un dosso roccioso, da cui scende con rapide. Mi fermo su un sasso a mangiare del cioccolato molto amaro e a spalamare la crema solare, visto che sono oramai le 10.
Il sentiero risale le pendici erbose e fiorite del dosso, a tratti più evidente, a tratti meno. Rischio di grattuggiare il ginocchio dove sbaglio svolta, seguendo la traccia più marcata, e lo riaggancio per una placchetta. In cima al dosso lambisce il torrente, che scorre in una gola rocciosa, e svolta a 180°, restando sul margine del pendio risalito e puntando verso l'edificio abbandonato dell'alpe Pian delle Mule. Oltre il torrente pascola il più nutrito gruppo di mucche e vitelli visto sinora. Mi sembra che sia qui che noto un campanula barbata dal colore molto slavato, di un bianco lattiginoso, anziché del solito viola. Oltre la baita punto per la diretta una china erbosa abbastanza ripida, magari un cordone morenico come quello che chiudeva il piano precedente, su tracce non sempre particolarmente segnate e marcate, fino a sbucare su un nuovo pianoro ondulato. Nel paesaggio la roccia prende il sopravvento, anche se io continuo a restare su prato sassoso, su cui so spingono gli animali più avanti nella stagione, come testimoniano dalle fatte bovine. Compare il puntino giallo del bivacco Revelli in cima a un salto roccioso, che dovrò salire aggirandolo da destra. Prima però passo da un delizioso laghetto del colore del cielo ai primi chiarori; lascio il sentiero per andarlo a fotografare con dei fiori di rododendro in primo piano.
La salita terminale preve un po' di pietraia e pure una placchetta, che dovrò pure discendere, perché è oltre il bivio con il sentiero di discesa, diretto al piano della Valletta e al Gran Fumà. La botte metallica del bivacco compare solo a una manciata di passi dalla meta.
All'ora degli ospizi e degli ospedali consumo la prima metà dei ceci con pomodori conditi con olio, lime e origano, accompagnati da pane di segale. L'ultimo è l'unico ingrediente in comune con i pasti tradizionali dei montanari, mentre il resto arriva dalla bassa.
Come anticipato, sono circondato da un teatro di punte di roccia nuda, che hanno attratto gli alpinisti sin dall’età delle prime esplorazioni delle Alpi. Prima di elencare alcuni dei cittadini che per primi salirono queste punte, va citato un montanaro soanino che accompagnò come guida non pochi di costoro e lasciò loro impressioni positive: è Giulio Rastoldo, detto Gidio, classe 1839. La capacità di muoversi sui terreni d’alta montagna gli derivò senz’altro dalla sua professione di cacciatore di camosci, che allora si rifugiavano nei recessi più reconditi per sfuggire alla predazione antropica. Fu però anche appassionato di flora alpina e violinista. «Poiché sempre allegri sono i buoni» e «gli allegri amano danzare», («for the good are always the merry», «and the merry love to dance»), come poetava Yeats a proposito proprio di un violinista popolare in The fiddler of Dooney, i soanini amavano assai fare festa, nei giorni dei patroni, ai matrimoni, ai battesimi. Gli alpinisti descrivono le loro guide locali come di «spirito fino e anche un po’ mordente, proprio dei furbi alpigiani». Gidio salì molte delle cime qui attorno, e anche la Torre Lavina, che ho visto di sfuggita in salita e vedrò meglio al ritorno, a cui era specialmente legato.
A nord la cima più notevole è il Monveso di Forzo, dalla forma perfettamente piramidale, che fu salito la prima volta da Martino Baretti nel 1866, con tutta probabilità assieme a Gidio Rastoldo, che lo accompagnò in quattro anni di esplorazioni mineralogiche nel gruppo del Gran Paradiso, di cui lasciò poi alcune monografie sui primissimi bollettini CAI. Non lasciò invece cronache della scalata, ma solo un biglietto in cima, che fu trovato nel 1885 dai successivi salitori, una cordata di britannici guidata dal celebre reverendo Coolidge, oltre che due istruzioni minime sulla via da seguire nella sua prima monografia. Il Monveso e l’adiacente Rocca Azzurra in dialetto sono dette Forqueta, perché assomigliano ai denti di un forcone.
Il picco più ontologico di tutti è senza dubbio la Grande Uja di Ciardoney, dalla forma inconfondibile a sud-ovest del bivacco. Fu salita la prima volta da Bobba e Vaccarone, due mostri sacri dell’esplorazione delle Alpi Occidentali, nel 1894. Furono coadiuvati, oltre che da guide valdostane, anche da montanare della valle, una donna tarchiata e due robuste giovani che fecero da portatrici, trasportando sulla nuca le vettovaglie fino alla Muanda, un alpeggio tra Vasinetto e Pian delle Mule. Era allora comune che il lavoro di trasporto fosse a carico delle donne, anche perché gli uomini emigravano stagionalmente all’estero e tornavano solo d’inverno nei paesi di residenza.
A sud del bivacco, oltre una grande colata di pietre, c’è la parete fratturata della punta Gialin, che ha in realtà due punte gemelle, una accessibile più facilmente, solo per interminabili, estenuanti e disagevoli pietraie, accanto a un torrione un pelo più elevato che richiede qualche passo di arrampicata esposta. Nel primo gruppo di salitori, nel 1879 guidati appunto dal Rastoldo, vi era anche una pioniera dell’alpinismo femminile, la contessa Carolina Palazzi-Lavaggi, che conobbe anche un’eco internazionale per le sue prime e in una conferenza al CAI di Torino cercò di illustrare i vantaggi dell’alpinismo nella formazione non solo dei maschi, per cui lo vedeva propedeutico al servizio militare, ma anche delle fanciulle, che non voleva solo rilegate accanto al focolare come si usava allora. La scorsa settimana ho provato anch’io a raggiungere il lago nel circo glaciale sul versante opposto, per una via parallela a quella della contessa, ma, essendo stato scartato persino dal servizio civile, non ho avuto la tempra per vincere tutte quelle pietraie. Per la verità, già nel 1867 il Baretti scriveva che si poteva salire al Gialino da Pian delle Mule in circa tre ore, anche se pareva inattaccabile; nel qual caso, sarebbe presumibilmente asceso con il Rastoldo, che conosceva già bene quelle pendici ove cacciava camosci e poi nel 1880 avrebbe mentito spudoratamente alla contessa dicendo che la cima era «vergine di piede umano». Ad ogni modo, ella non trovò alcun segnale o biglietto in vetta.
Lo sguardo verso la pianura si perde invece in una densa e impenetrabile foschia. Era più limpido quando salii nel 2016, tanto che annotai di aver scorto le torri di raffreddamento della centrale dismessa di Trino.
Senza indugiare troppo, rimandando al rientro un giro dentro il bivacco, mi avvio per il sentiero, che discende in direzione ovest, verso la base delle morene lasciate dal ghiacciaio di Ciardoney durante la Piccola Era Glaciale, i secoli di clima freddo occorsi in Europa tra XVi e XIX secolo dopo il periodo mite bassomedievale, nei quali le superfici ghiacciate alpine conobbero una notevole crescita. Va detto che i cartelli riportano semplicemente un numero e per sapere cosa c’è da osservare bisogna avere con sé il depliant, che si può scaricare dal sito del parco e che si trova in alcuni esemplari anche dentro il bivacco, come scoprirò al ritorno.
Il primo punto di osservazione è già all'attacco e mostra una cosa invisibile. Infatti alla base della Punta Gialin c'è un immensa fiumana di pietre, che sotto nasconde un segreto cuore freddo, in cui pietre e ghiaccio formano un tutt'uno e si muovono all'unisono come un ghiacciaio: con termine inglese è chiamato appunto rock glacier, ghiacciaio roccioso. Scendo tra massi ed erba, su percorso agevole per il tipo di terreno.
Giungo così alla base dello spuntone roccioso del bivacco e comincio a calpestare i minuti sfasciumi delle morene, i depositi di sfasciumi trascinati dalla forza abrasiva del ghiacciaio, dalla caratteristica forma a gianduiotto. Quella depositata dalla fronte del ghiacciaio alla massima estensione è ancora intatta, caso non frequentissimo, perché sono le prime a sparire per l'erosione delle acque di fusione. Risale a poco dopo il periodo napoleonico, quando in una recrudescenza del freddo i ghiacciai conobbero la massima espansione. Il sentiero risale la morena laterale, che è compatta e assestata e pertanto molto meno arrancosa di altre sue omologhe, seppure la salita ripida sotto il sole a picco non sia l'esperienza più amena della gita.
Dove c'è il segnale di un rilevamento della fronte tardo ottocentesca, vedo scendere due signore sulla quarantina, che si rivolgono a me in inglese. Sono provate dalla faticosa salita dal Pontese al colle Ciardoney, che si svolge su una pietraia non rognosa ma interminabile e devono proseguire ancora fino al Davito, valicando un ulteriore colle. Mi dimentico di chiedere loro di dove siano, ma sul diario del sentiero, alla stazione di osservazione in cima, scoprirò che arrivano dalla Repubblica Ceca. Scendono poco dopo pure due signori con una bottiglia di minerale francese appesa allo zaino, da cui fuoriesce un tubicino per bere a mo’ di camelback, con cui scambio solo un saluto. Raggiungo quindi una zona con estese rocce montonate, su cui si vede anche bene l'orientazione dei minerali dovuta ai processi metamorfici di tensioni meccaniche e riscaldamento, per la subsidenza durante il sollevamento della catena alpina.
Manca poco al traliccio che segna il punto di rilevamento e ha pure una webcam, ma non si può messaggiare agli amici dicendo di guardarci in diretta su internet, perché il cellulare non prende. La prova che siate realmente esistiti qui, per citare i Kinks, ve la dovete fabbricare con le vostre manine. Il traliccio si trova al margine di un pianoro completamente glabro, verso il cui fondo ci sono i rimasugli del ghiacciaio, oggi non visibile in quanto sommerso dall'abbondante neve primaverile, che qui ha terminato di fondere pochi giorni fa, tanto che nessuna piantina è ancora spuntata. Non sono certo i paesaggi alpini che prediligo, in quanto apprezzo prevalentemente la montagna fin dove è vegetata, ma esiste una numerosa schiera di escursionisti, non alpinisti da Crête de Rochefort si badi bene, che invece la gradisce di qui in su.
Verso valle invece il paesaggio consiste in una conca quasi pianeggiante, separata in due dalla spina caudale del bivacco, a malapena percettibile come puntino, fino al salto tipico dei paesaggi glaciali, oltre cui la valle scompare lasciando vedere le catene di monti canavesani perdersi nella foschia. Risale qualche nube, ma si fermerà prima del salto. Appunto poi che verso la Valle d'Aosta vedo una montagna piramidale, che mi ricorda la Grivola vista dalla via di discesa in Valsavarenche dell' Alta Via 2, ma evidentemente non può esserlo perché sto guardando verso Champorcher: è infatti la Rosa dei Banchi.
Ritorno sui miei passi. Nei pressi delle rocce montonate faccio caso alla fioritura rosa di una pianta a cuscinetto, i vegetali d'alta quota che si sono adattati al clima rigido sviluppandosi lungo il terreno, dove fa più caldo e il vento è più debole. Ci tenevo a portare a casa una foto di queste creature estreme con il contorno del deserto di roccia: ci vado quasi sopra, monto il grandangolare per ingigantirla rispetto all'Uja di Ciardoney, verifico la distanza e curo la profondità di campo in modo da avere tutto a fuoco. Non è particolarmente creativo, ma vengo raramente a queste quote e ho pochi scatti simili.
Sulla morena riesco a perdere i segnavia e ondeggio un po' senza costrutto, prima di estrarre il GPS per capire dove sono passato in salita, anche se obiettivamente il terreno non è ostico e potrei scendere come capita fino al risalto roccioso.
Le due escursioniste ceche si stanno rilassando sulle brande del bivacco. Incurante di loro, scatto un paio di foto all' interno con il fisheye circolare e il cavalletto da viaggio, che ho portato proprio con questo scopo. Andandosene mi chiedono se ho previsioni meteo aggiornate e io dico quello che ricordo per domani. Curioso un po' all' interno, scrivo una firma sul diario e guardo le vecchie foto in bianconero dei due alpinisti a cui è dedicato.
Sono Gino Revelli e Maria Celeste Viano, il primo un forte e consolidato alpinista che aveva già visto in faccia la morte, la seconda una ragazza di appena vent’anni ma già con esperienza alle spalle (anche il fratello e la cognata erano alpinisti). Entrambi erano membri della GEAT, sottosezione del CAI Torino che è proprietaria del bivacco e ne cura la manutenzione. Nel luglio 1955 morirono nel canalone di Lourousa, sulle pendici dell’Argentera nelle Alpi Marittime, mentre scendevano dopo aver effettuato la traversata della Catena delle Guide, scivolando dal ripidissimo nevaio che ne occupa il fondo. In loro ricordo fu anche posta una lapide accanto a un laghetto alla sua base, nei pressi del sentiero militare che risale il vallone omonimo, e alla loro ne sono succedute molte altre, perché su quel nevaio è morta più gente che nelle guerre napoleoniche.
Noto che in una cassetta ci sono i depliant del sentiero glaciologico, che io avevo stampato a casa dal pdf sul sito del Parco. Intanto le due signore stanno cercando una via per scendere direttamente sul piano della Valletta e le devo perciò dirigere sul versante opposto, dove c'è l'unico percorso segnato. Finisco intanto la borraccia da un litro e mezzo, ma la cartina riporta una sorgente lungo la discesa.
Tra molte pietre, qualche fazzoletto erboso e una placca torno al bivio e prendo verso Nord. Quasi subito mi imbatto in una nuova placca che termina più ripida di come parte, con due gradini metallici di sostegno. C'è chi non crede alla verginità di Maria prima, durante e dopo il parto: quanto a me non credo nell'aderenza delle suole e cerco pertanto sempre una protuberanza dove appoggiare i piedi. Non essendocene nel tratto liscio me la cavo con una ignominevole strisciata di sedere, metodo CulEMann l'ho sentito chiamare.
Per pietraie di media taglia, stabili e agevoli, scendo al piano della Valletta, il classico laghetto glaciale impaludato, sbarrato a valle da un arco morenico anziché dalle più comuni bancate di rocce montonate, osservabili in compenso lungo i fianchi, da cui però il sentiero non transita. I segnavia lo raggiungono dove il torrente, che nel piano si allarga e divide in mille rivoli, lambisce la pietraia, costringendomi a qualche equilibrismo per non mettere i piedi in acqua. Poi devo studiare bene il guado, perché i paletti indirizzano dove non vi sono appoggi. Dato che il torrente è in piena per il disgelo dovuto al gran caldo, accoppiato all'abbondante neve in quota, gironzolo un po' fino a individuare una linea dove le pietre sono abbastanza fitte da consentire un passaggio, lungo cui devo anche sedermi su un masso e calarmi sulle pietre oltre. Penso che peraltro sarebbe facile guadare a piedi nudi dove non ci sono pietre sul fondo, ma non ho voglia di trafficare per mettermi scalzo.
Devo quindi bordeggiare il placido torrente azzurrino per il tanto lungo quanto idilliaco piano, seppure ancora privo di eriofori per la stagione ancora per poco acerba. Varie volte mi giro per provare a fotografare l'incanto con lo sfondo delle cime. Trovo indicato il bivio e segnalato il sentiero per il colle della Valletta e il Davito, riportato invece come non segnato sulla mia mappa. Qui il mio non è sempre marcato, ma non si può sbagliare; ogni tanto lo spazio tra torrente e pietraie è davvero risicato.
Al fondo vedo anche il muro di nuvole, facendomi sperare in un'apparizione dello spettro del Brocken, ma vanamente poiché si dissolveranno prima del mio arrivo. Prima della discesa il sentiero presenta una maggior costruzione e anche qualche scelta di percorso spettacolare, come su una cengia montonata contro una parete.
Il torrente piega quindi verso destra, dirigendosi al pian di Geri. L'andamento del torrente mi parrà parecchio imperscrutabile, fino a quando a fine gita non prenderò in mano la carta e ne ripercorrerò il percorso con la memoria.
Raggiungo il margine del piano e scendo in un canale erboso, passando accanto alla presa d'acqua del casotto del Parco (osservando distrattamente non vedo possibilità di rifornimento) e infine raggiungendolo. Si trova in posizione dominante sulla sottostante valle, in parte coperta da nubi. Mi fermo a mangiare il pomodoro, l'unica fonte d'acqua rimastami. Spero di scorgere la sorgente che la cartina indica 150 m più in basso. Transita un piccolo banco di nebbia, regalandomi un istante di frescura; credo che avrei potuto vedere lo spettro se fossi stato una trentina di metri più in basso, perché ho il sole alle spalle.
Mi affaccio su una successione di gradini erbosi ondulati con qualche roccia montonata, alla cui base già scorgo il lungo e basso edificio del Gran Fumà. Fortunatamente faccio caso a un sommesso scroscio di acqua e noto una sorgente in un buco del prato. Esce appena un filo d'acqua, quanto basta a riempire un po' di volte mezzo bicchiere e placare la sete.
Proseguo per prati, noto una seconda modesta sorgente, questa più facile da scorgere perché da una macchia di ontani si riversa sul sentiero. Vedo un paio di grandi larici solitari, uno al riparo di una parete, uno isolato nel prato con vista sulla Torre Lavina. In questo mi piace credere si sia ritirato lo spirito di Gidio, per ammirarla senza interruzione. Il nome di questa montagna non parrebbe derivare alla radice indoeuropea per scivolare (da cui la slavina e il piemontese losa), perché nei documenti più antichi disponibili i pascoli sottostanti sono detti “la vinà”, con il significato di piccoli pascoli; altre ipotesi fanno riferimento alla radice preindoeuropea vin che significa parete rocciosa, come in Cervino. Apprendiamo questi antichi toponimi, meno corrotti dei nostri da secoli di trascrizioni, da dei documenti seicenteschi e settecenteschi, con i quali venivano certificati i danni causati dalle frequenti alluvioni e annesse frane della Piccola Era Glaciale, che si caratterizzò anche per un aumento dei fenomeni estremi, questo a livello globale e non solo continentale come il freddo. Questi certificati, detti documenti di corrosione, erano molto importanti per i montanari, in quanto li sgravavano dal pagamento delle tasse sui terreni ed edifici danneggiati.
Supero un paio di passaggi da capre, uno nuovamente di sedere, e ai piedi di un dossetto starei quasi per seguire uno scarico, se non vedessi i segnavia nel prato. Dalla cima del dosso scendo al Gran Fumà, prima del quale ho visto di lontano due uomini trafficare nel prato. All'alpe ci sono invece una signora e una ragazza. Non vedo né segnavia né tracce e, dopo qualche titubanza, faccio che entrare nell'aia tra gli edifici, scavalcando il filo che li delimita; da valle mi pare di capire che si debba invece girare all'esterno. Il nome deriva dal fumier, il francese per letamaio, un emblema dell'economia circolare di una volta. Sul versante piemontese del Gran Paradiso sono sparsi altri alpi con nomi analoghi.
Verso sud vedo intanto la cascata del rio Pisone, come si chiama in questo tratto il torrente, precedentemente Geri. Entro nel filo in cui pascolano dei vitelli da carne piemontesi, che stanno nel fresco del sottostante lariceto e la via mi porta a imitarli. Posso innanzitutto rinunciare al cappellino, essendo ormai in ombra, con sollievo per il caldo che provoca, nonostante d'estate tenga i capelli molto corti. Tuttavia il fresco è ben altra cosa. Dopo un tratto in saliscendi, la calata si fa più decisa, ma soprattutto trovo finalmente una fonte da cui posso bere un litro abbondante e riempire la borraccia.
La discesa prosegue sostenuta, replicando l’ambiente di salita, un lariceto roccioso con sorgive che ogni tanto impaludano il sentiero. Sento canti di passeriformi (in salita avevo provato a identificare una specie di fischio con l’oracolo digitale, ma il responso rimandava a un gabbiano), disturbo un camoscio, che di dilegua per balze che non riuscirei ad affrontare nemmeno se mi facessero una ferrata, devo fare molta attenzione a non calpestare un orbettino fiducioso che non vuole sapere di levarsi dal sentiero. Ci sono dei larici imponenti, ma finisco con il fotografare un gruppetto di alberi esili e alti.
L’affaccio su Boschiettera, dal ponte in legno, è desolante, perché le case in rovina paiono prevalere, ma da dentro l’aspetto pare più curato e c’è pure un pilone votivo di fine Ottocento, dallo stile quasi fanciullesco, in eccellente stato. Certo la posizione nello spronfondo della valle non è felicissima. Il nome è tipicamente medievale, in ricordo dei boschi roncati per lasciare posto alle colture e che oggi dopo l’abbandono si stanno rigenerando. Seguo le indicazioni per Boschietto e ci arrivo per clapey (il più esteso dei monti qui sopra è chiamato prato fiorito, non so se per il già citato spirito sagace dei soanini o storpiatura militare), massi erratici, terrazze abbandonate, lungo un sentierino ondulato. Attorno alla frazione c’è un grazioso pratino.
Per raggiungere la bianca chiesetta dedicata alla Madonna della Neve devo varcare l’ennesimo filo del bestiame (solo da Boschiettera ne avrò valicati quattro o cinque). Questa frazione è più solatia: vedo le ombre seghettate delle cime poco più a monte, segno che è appena calata la sera. Ha anche dei villeggianti, nonostante il giorno feriale e l’assenza di accesso stradale; il primo che incontro è un adolescente intento a telefonare sui muretti che delimitano lo spiazzo di fronte alla bianca facciata. Lo imito per farmi tenere una ciotola di riso dall’osteria di Molino (stimo che non sarò lì che alle 20.30), ma con gran scorno scopro che sono al completo. Potrebbe essere stato qualche san Cristoforo o un angelo custode ad aver addensato tanta gente, perché il giorno dopo scoprirò che ho dimenticato la patente nei pantaloncini, con cui ieri ero andato a prendere una vaschetta di gelato: se fossi incappato in uno dei controlli notturni anticiucchi avrei preso una bella multa. Avviso poi casa che sono ancora vivo, perché il mio ultimo accesso a WhatsApp risale alle 6.30. Frattanto ho quasi svuotato la borraccia, cosicché alla fine lo stimolo della pipì arriva, per la prima volta dall’ora di pranzo. A furia di bere acqua gelata sento persino della frescura, nonostante l’aria sia tiepida e la pietra del muretto ancora calda.
Senza dedicarmi alla visita della frazione, proseguo lungo il sentiero che parte da sotto il sagrato. Subito trovo un guado su un copioso torrente, facilitato da massi piatti solo per metà, quindi per latifoglie scendo fino a congiungermi in un prato con il sentiero di fondovalle da Boschiettera. A un bivio lascio il sentiero per Tressi e passo dalla parte opposta del torrente su un ponte di legno. Il suo fragore mi accompagna da Boschiettera e ora il punto di vista elevato, con le nuvole nello stretto pertugio di cielo visibile a monte e con l’oscurità crepuscolare nel bosco, offre una visione quasi gotica. Calpestando rocce montonate raggiungo un gruppetto di case diroccate, indi proseguo tra vari passaggi disagevoli o molto fangosi. Incrocio un signore con un caschetto da cantiere.
A Forzo sono accolto da una cane bianco assai rumoroso, così come la bastardina di un gruppo di villeggianti su una terrazza. All’auto scopro che l’osteria per stasera si è dotata di un camioncino supplementare, mi pare per cuocere le pizze. Dopo un viaggio liscio tra sera e notte, scopro che lo schifezzaio di fiducia è inaspettatamente chiuso, mentre quello per carnivori terminerà il servizio poco dopo la doccia. Al kebabbaro è avanzato un unico panino che aveva erroneamente tenuto per il figlio, e nemmeno una patatina: sarà la mia colesterolica ma sconsolata cena. Me lo millanta come iper piccante, ma non godo neppure di questo piacere sadomaso: è solo marketing fuffaro, perché i miei spaghetti olio aglio e peperoncino sono infinitamente più lacrimogeni.
Per approfondire
- P. Acutis, Addio, Gino, Monti e Valli, Anno X, n.3 luglio-settembre 1955
- M. Baretti, Studi sul gruppo del Gran Paradiso, Bullettino trimestrale del Club Alpino Italiano, 10-11, 10/1867-1/1868
- M. Baretti, Per rupi e ghiacci : frammenti alpini, Torino 1875
- M. Baretti, Per Valsoana e Valchiusella ad Ivrea, Torino 1876
- M. Bertotti, Appunti storici e corografici sulla Valle Soana nei secoli XVII e XVIII, Cuorgnè 1982
- G. Bertotti - A. Paviolo - A. Rossebastiano, Le valli Orco e Soana : note sui nomi delle località, torrenti e montagne delle valli Orco e Soana e sul loro significato, Cuorgnè 1994
- M. Blatto - L. Zavatta, Val Soana, Rimini 2010
- F. Farina, Valle Soana, Ivrea 1909
- G. Novaria, Le guide del Paradiso, 1995
- G.R., Un accademico del CAI e la sua compagna di cordata sepolti da una slavina di neve e ghiaccio in Val Gesso, Gazzetta del Popolo, 5 luglio 1955
- M. Baretti, Studi sul gruppo del Gran Paradiso, Bullettino trimestrale del Club Alpino Italiano, 10-11, 10/1867-1/1868