Intorno a Riomaggiore
Cinque Terre
19 febbraio
In un baleno
Arrivo al santuario, una chiesa semplice, con un bel porticato, affacciata su Riomaggiore e chiusa sul lato mare da due romantici filari di pini secolari, che nel tardo pomeriggio invernale proiettano ombre lunghe. La vista spazia dall'isola Palmaria a Punta Mesco, i due estremi delle Cinque Terre. Un uomo e una donna sono seduti sulla panchina affacciata sul mare, intenti a parlare fittamente, indifferenti a ciò che li circonda
Diario di viaggio
Questo giro esplora la zona delle Cinque Terre attorno a Riomaggiore, percorrendo tratti dei suoi diversi ambienti: tre borghi (Riomaggiore, Manarola e Volastra), le rupi costiere, i celebri vigneti dello Sciacchetrà, patrimonio Unesco, le foreste miste dell'Alta Via, per terminare passando da un romantico santuario, perfetto per godersi il tramonto.
L'anello può essere naturalmente percorso in entrambi i versi, ma consiglio quello descritto qui, perché in quello opposto bisogna affrontare quando si è già stanchi l'impervio sentiero della Beccara (a proposito: un paio di bastoncini possono fare comodo); in questo invece la si affronta alla partenza. Inoltre così le salite sono concentrate nella prima parte. Come punto di partenza e arrivo ho scelto Riomaggiore anziché Manarola, perché la sua stazione ferroviaria è meglio servita.
Stando ai tempi sul sito del Parco ci vogliono circa otto ore per percorrere l'intero giro, mentre secondo i cartelli sul campo ci vuole quasi un'ora in meno; i secondi mi sembrano più realistici. Il dislivello supera di poco più i 1000 m (altimetro mio). Le salite e le discese sono molto concentrate in strappi ripidi, che si alternano a lunghi tratti con molto spostamento e dislivello minimo.
Tanto per cambiare è chiusa per frane la Via dell'Amore, un collegamento nato per effettuare i lavori della ferrovia, poi trasformato in comodo lungomare lastricato. Riaprirà in primavera. Passo allora dal sentiero della Beccara, l'antica via di collegamento tra Riomaggiore e Manarola, un tracciato moderatamente impervio ma davvero spettacolare. Consente di capire quanto fossero difficili i collegamenti tra questi paesi, che per la natura del territorio sono rimasti ai margini dallo sviluppo e per questo oggi sono diventati così attraenti.
L'imbocco del sentiero non è tanto ovvio, perché non è segnalato da nessuna parte e all'inizio bisogna puntare in direzione opposta a Manarola. Chiedo lumi a tre signori con l'aria di non essere turisti, che stanno scendendo verso la stazione chiacchierando amabilmente; mi dirigono nella direzione giusta, dove trovo le prime tacche e le paline. Salgo delle scale, arrivo al parcheggio di un condominio e di lì imbocco il sentiero, che è subito molto stretto e un po' esposto, nella migliore tradizione del luogo. Varcato un ruscello su un ponte di pietra, comincia un'erta e sconnessa gradinata, una successione di scalini poco profondi ma almeno larghi, che affronta il pendio di macchia mediterranea per la pendenza massima. Prosegue in questo modo, interminabile, quasi fino alla cima della dorsale, 150 metri più in alto. Nel salirla immagino a scenderla un mio amico con problemi al menisco: per lui sarebbe meno doloroso lasciarsi rotolare fino alla base. Di questo tratto non ho foto, anche se mi fermo ogni tanto a guardare il panorama, perché si domina la zona nuova di Riomaggiore, con alcuni condomini moderni e il viadotto della provinciale. La zona caratteristica non è invece visibile, perché si trova oltre una dorsale.
Accaldato nonostante l'aria frizzante, arrivo in cima, dove il pendio si fa più dolce e il terreno è coltivato a vite. Qui i locali devono essere molto territoriali o i turisti (che possono arrivare anche in auto) molto invasivi, perché abbondano cartelli scritti a mano che intimano di stare al di fuori delle proprietà. Molte di queste sono poi chiuse da recinti elettrici, che dalle dimensioni sembrano più pensati come deterrente per un umano che per un agile capriolo o un possente cinghiale. In cima trovo due orientali saliti da Manarola, che mi salutano con un ciao e un sorriso. In discesa il sentiero è largo quanto basta a una persona magra, ma almeno alterna ai soliti erti gradini, qui pure stretti, qualche tratto in piano dove riposare le ginocchia.
A Manarola non ho voglia di gironzolare per il borgo e proseguo quasi subito. Dopo un tratto un po' suburbano, dove la mulattiera che evita la strada è sacrificata e deve passare in ambienti anche cementizi, finalmente si imbocca la bellissima mulattiera lastricata in ardesia, che conduce a Volastra. Costruita a inizio Novecento per migliorare i collegamenti tra i due paesi, richiese un anno di lavori e un certo dispiego di mezzi e manodopera. Attraversa fasce di ulivi, alcune delle quali ancora tenute. Su una di queste, un contadino sta bruciando delle frasche in mezzo agli alberi. Supero una bella costruzione rurale e mi viene voglia di fotografarla, ma nel cortile ci trovo un ragazzo intento e leggere e desisto.
A Volastra mi metto alla caccia di un caffè, ma con mio scorno entrambi i bar sono chiusi. È aperto almeno il commestibili, dove però la commessa mi fa sapere con cortesia ligure che la focaccia è finita; ripiego allora sulla torta di verdure. Dato che è quasi mezzogiorno, approfitto delle panchine e della fontanella accanto alla chiesa per mettermi comodo e mangiare un boccone.
Quando riparto scopro che il sentiero da percorrere è chiuso: un'ordinanza comunale affissa all'imbocco ne vieta il transito, a causa di lavori di ristrutturazione ad un edificio che vi insiste, per dirla nel suo gergo burocratico. Fino al prossimo gruppo di case bisogna passare per la provinciale, che corre un po' più a monte. È un vero peccato, perché questo è proprio il tratto che attraversa i celebri vigneti terrazzati dove si coltiva l'uva per lo Sciacchetrà, il passito delle Cinque Terre. La stagione migliore per venire qui dovrebbe essere metà novembre, il periodo dei colori autunnali, se non fosse che quella è anche la stagione delle alluvioni. Mestamente seguo l'asfalto e mi accorgo che prima un gruppo di francesi, poi due inglesi sono sul sentiero. Faccio mente locale sul fatto che l'ordinanza è scritta solo in italiano, ma qui la maggior parte degli escursionisti è straniera, come tutti sanno (infatti la sera in stazione due liguri, vedendomi vestito da camminatore, si rivolgeranno a me in inglese). Gestioni italiane. Sempre più mesto proseguo ormai per l'asfalto, che tuttavia mi offre una visione aerea dei vigneti, anziché una dall'interno: ci sono i pro e i contro. Ad ogni modo ora scendo al sentiero appena ci riesco, ma ormai la zona coltivata è terminata e comincia la pineta.
Ora si entra nella zona intorno e lungo l'Alta Via, in cui si avverte meno la mano dell'uomo, anche se questa non è completamente assente: la pineta è infestata dalla cocciniglia, un parassita portato dal commercio del legname, alcuni castagni cedui sembrano gli eredi di vecchi castagni da frutto abbandonati, uno strano monolito di cemento si erge nel bosco della dorsale, come le antenne per telecomunicazioni su una cima; da una cava sul fianco del monte si odono i motori dei camion accelerare e le ruote sbattere nelle buche della strada. Lo stesso fatto che ci sia un sentiero implica che ci sia la presenza dell'uomo da tempo, d'altronde: i contadini delle Cinque Terre sfruttavano anche i prodotti del bosco. Anche questo, in un certo modo, è un paesaggio antropizzato, anche se privo dell'ordinata bellezza delle case colorate o dei terrazzamenti. In Italia i luoghi selvaggi sono di fatto assenti; al massimo ci sono aree più o meno rinaturalizzate, abbandonate dopo che lo sviluppo dell'agricoltura e la fine dell'economia di pura sussistenza hanno reso non redditizie certe zone marginali.
Il sentiero prosegue in piano ancora per un po', fino a confluire su quello che sale da Corniglia. Di qui comincia una prima impennata che in breve porta alla carrozzabile e poi di lì ne segue una seconda fino all'Alta Via, che corre sulla dorsale. Lungo la salita incrocio una signora tedesca che scende. «Buongiorno». «Buongiorno a lei». Qualche ghiandaia stride al mio passaggio. Il sentiero confluisce nell'Alta Via su un avvallamento della dorsale chiamato Cigoletta sui cartelli e Sella NO del Monte Marvede sulla mia carta (la Cigoletta è posta un po' più a ovest). Qui ho terminato la gran parte della salita di oggi. Mi concedo quindi il pasto principale, sulle rudimentali panche di tronchi decorticati, preparate da chissà chi. Dal mio stesso sentiero delle voci indecifrabili annunciano una coppia di francesi. «Bonjour». «Buonsjorno». I due tengono un conciliabolo attorno alla cartina e poi si dirigono verso Soviore.
Io invece quel tratto l'ho percorso lo scorso anno, per cui stavolta vado ad est, verso Portovenere. Il primo tratto è un'ombrosa lecceta, dove fa anche abbastanza freddo. Per terra sono frequenti le arature dei cinghiali a caccia delle ghiande. Si alternano poi tratti misti di castagni cedui, querce e pini. Rispetto al tratto verso Soviore, dove ricordo interi tronchi coperti di licheni, qui mi sembra che ce ne siano di meno. Tuttavia sono più abbondanti che dalle mie parti e prosperano pure sui castagni cedui, grazie al favorevole clima oceanico. Il sentiero si mantiene ora sul lato marino, ora su quello che dalle mie parti si chiamerebbe inverso, il lato esposto a nord, qui verso la terraferma. Il sole che, data la stagione, corre ancora basso, supera a malapena il dosso sommitale, arriva radente su questo versante, proiettando la mia ombra sui tronchi lontani. Adoro farmi questi selfie. In questi tratti si scorgono tra i rami spogli le propaggini settentrionali delle Alpi Apuane e l'Appennino toscoemiliano con le cime coperte di neve. Qui invece i primi crochi annunciano già la primavera. Su questo confine di parco si vedono anche alcune cartucce di plastica vivacemente colorata e due torri di appostamento per cacciatori, moderatamente preoccupanti a due passi dal sentiero.
Il mio programma prevederebbe di scendere a valle dalla Sella La Croce, ma mi accorgo di esserci arrivato prima del previsto. Decido allora di proseguire in quota e di rimandare la discesa, soprattutto per passare dal Santuario di Montenero, sopra Riomaggiore: qui ogni paese ha un santuario a monte e quelli visti finora mi sono sempre piaciuti. Su un tratto di strada sterrata facilmente accessibile faccio qualche incontro: un uomo col cane, una coppia di pensionati, due ciclisti. In una zona di radure mi si aprono degli scorci verso Riomaggiore e la strada dei santuari, la sterrata che corre a mezzacosta. Segue poi una zona sulla dorsale con molti alberi caduti e segati per riaprire il sentiero.
Il mio tratto di Alta Via termina al colle del Telegrafo, dove mi imbatto in un po' di civiltà: qualche auto parcheggiata, un po' di fermento attorno al rumore di una sega elettrica, un bar. Mi avvicino alla ricerca del caffè che oggi non ho ancora bevuto. Intravedo dalle finestre che all'interno sembrano affaccendati. «È aperto?» «Di cosa ha bisogno?» «Di un caffè» «Un caffè glielo posso fare». E così ne rimedio uno migliore di quello che mi sarebbe toccato a Brignole, dove al ritorno ceno in attesa della coincidenza: lì ha vinto l'appalto una marca che non mi piace. Mi intrufolo cercando di non intralciare due donne intente a pulire il pavimento, assaporo, dò l'euro al barista, ringrazio, saluto e me ne vado.
Lungo la discesa ritrovo i gradini, per cui non provavo nostalgia. Si attraversa una zona distrutta da un incendio. Mi intrometto tra due escursionisti intenti a fotografarsi in mezzo agli orti e li supero, perché se devo aspettare che abbiano finito faccio notte. Arrivo al santuario, una chiesa semplice, con un bel porticato, affacciata su Riomaggiore e chiusa sul lato mare da due romantici filari di pini secolari, che nel tardo pomeriggio invernale proiettano ombre lunghe. La vista spazia dall'isola Palmaria a Punta Mesco, i due estremi delle Cinque Terre. Dovrei esserci già stato anni fa in una gita CAI, ma non ho nessun ricordo. Un uomo e una donna sono seduti sulla panchina affacciata sul mare, intenti a parlare fittamente, indifferenti a ciò che li circonda; ad un certo punto si alzano con aria soddisfatta e se ne vanno. Giro un po' alla ricerca dell'inquadratura che renda al meglio l'atmosfera e poi mi siedo a fare merenda. Non posso concedermi lunghe pause, se voglio arrivare a fotografare Riomaggiore prima del tramonto e prendere il treno delle 18, il penultimo buono per tornare a casa stasera. Intanto arrivano i due che ho superato e si mettono a fare un po' di caciara, guastando l'atmosfera rarefatta del momento.
Mi mancano ancora molti gradini prima di arrivare. Le mie ginocchia avrebbero apprezzato un paio di bastoncini per ammortizzare i colpi, ma sono talmente fastidiosi quando si fotografa che li porto raramente. Per fortuna l'unico postumo sarà un po' di indolenzimento al termine del primo tratto in treno. Costeggio una villa minimale in ottima posizione, percorro un tratto di strada prima di trovare altri gradini che mi conducono alle case alte di Riomaggiore. Lungo il tragitto una molesta famigliola tedesca scaccia col suo trambusto un gatto rossiccio assiso su un muro, che stavo tentando di fotografare.
In paese gironzolano abbastanza persone, nonostante il giorno feriale di bassa stagione. Mi dirigo lesto verso il porticciolo, dove trovo al primo sguardo il posto che avevo già individuato dalle mille foto viste su Internet. Purtroppo la posizione migliore se l'è presa un tizio che se ne sta svaccato a pasticciare il telefonino e non sembra avere alcuna intenzione di andarsene. Perché mai dovrebbe? Così mi metto un po' discosto, tendendomi nel vuoto per eliminare i disturbi dall'inquadratura e tentando invano di tenere la macchina in bolla. Nel primo piano della vista grandangolare metto un'agave, una pianta messicana che ormai associamo al Mediterraneo, un po' come la polenta di mais al Veneto. Immerso nella concentrazione dello scatto, mi dimentico di godermi la vista. Compiuto il dovere, mi dirigo alla stazione. Il treno della sera è mezzo pieno di gente vestita da ufficio, che da La Spezia torna verso i paesini della costa.