Gran Bosco di Salbertrand
Valle di Susa
9 giugno
In un baleno
Una delle prime escursioni dopo il primo lockdown Covid, con foto risalenti invece a giri autunnali tra le nebbie
Diario di viaggio
Escursione interamente all'interno del Gran Bosco di Salbertrand, un vasta oasi di bosco mesofilo di conifere: salendo dal fondovalle alle praterie alpine incontriamo pini silvestri, abeti bianchi, abeti rossi, larici e pini cembri. Giace su un versante nord ricco di sorgenti, nonostante la valle presenti il caratteristico clima arido endoalpino (e infatti le zone circostanti presentano una vegetazione xerofila), ma probabilmente le frequenti nebbie compensano con la condensazione. D'altronde anche io ho scelto questa escursione in un periodo di condizioni meteo fortemente instabili, dopo aver constatato dal pluviometro locale che qui stava piovendo sensibilmente meno che altrove. Il bosco poggia su un substrato di calcescisti che intersecano la superficie a franapoggio, ovverosia con i piani di frattura più o meno perpendicolari ad essa: lo si può osservare all'inizio del sentiero 2, in un raro affioramento roccioso poco prima del ponte sul torrente. Pertanto il pendio si presenta parecchio ripido e scosceso ed è soggetto a frane diffuse, a volte estese, come una che danneggiò severamente il bosco durante un'alluvione nel giugno 1957, oltre a molte altre minori nel corso degli anni.
La storia dell'impiego del legname si perde nella notte dei tempi. Il primo documento che cita una segheria è di fine Trecento. Dopo il passaggio di questa zona al Ducato di Savoia (Trattato di Utrecht, 1713), il legname fu impiegato per alcuni grandi monumenti barocchi di Torino, come la Palazzina di caccia di Stupinigi, la Basilica di Superga e il Teatro Regio (quest'ultimo distrutto da un incendio nel 1936 e poi ricostruito in stile moderno con tanto di scale mobili e moquette). La produzione di legname diede tanto benessere, che il comune di Salbertrand potè esentare i suoi cittadini dalle tasse e destinare risorse per ricostruire dopo calamità come gli incendi (il bosco è infatti in gran parte di proprietà comunale, non senza una lunga storia di contese con i comuni limitrofi). Tuttavia, data la difficoltà di trasporto lungo la strada diretta a valle, percorribile a mala pena dai carretti, a lungo l'utilizzazione primaria del legname fu la produzione di carbone, che ne riduce al minimo l'ingombro. Per quanto riguarda l'autoconsumo dei montanari, i tagli erano limitati alle zone di ceduo di proprietà; si raccoglievano però i rami caduti e il legno scadente dai boschi comunali, ogni volta che ci si spostava all'interno del bosco, ad esempio nei trasbordi per rifornire gli alpeggi e scaricare i formaggi.
Visto l'ambiente attraversato, i panorami a lunga gittata si contano sulle dita di una mano, mentre è alto l'interesse naturalistico, per la varietà di situazioni incontrate.
Potrei andare in auto fino all'imbocco del sentiero, ma preferisco invece parcheggiare al fondo del paese, in modo da doverlo attraversare tutto, in quanto lo ricordo gradevole. La via principale è una tipica via medievale, sufficientemente storta, su cui si affacciano case intonacate con ingressi ad arco e sottopassi a volta. Ci sono poi moltissime fontane. La fontana in pietra du Milieu, formata da blocchi di gneiss, è datata 1524 e servì di modello nella riproduzione del borgo medievale edificato a Torino a fine Ottocento, in occasione di un'esposizione. L'architetto del borgo contribuì anche a salvarla dai progetti di modernizzazione voluti dal comune, che l'avrebbero fatta smantellare. Accanto alla fontana c'è un antico ostello dei viandanti, che si trovava lungo la frequentata strada di Francia, via di transito di pellegrini diretti a Santiago, Tours o Roma, di eserciti e mercanti. Sulla facciata si è conservato un pezzo di affresco, restaurato in anni recenti.
Grazie a dei lavori a un edificio, la via è chiusa alle auto. Nella mattina feriale, in giro c'è solo una signora in attesa del suo turno di entrare nella panetteria. La bella chiesa ha una struttura romanica, con rifacimenti gotici cinquecenteschi (in montagna sono sempre stati in netto ritardo rispetto alle correnti culturali). All'interno contiene delle statue lignee e degli affreschi, ma purtroppo oggi è chiusa. Da notare che all'esterno presenta il simbolo del Delfino di Francia, in quanto fino al Trattato di Utrecht (1713) questa zona fece parte degli Escartoun, una regione autonoma alpina all'interno del Delfinato. Per questo, i dipinti della chiesa recano gli sfregi degli ugonotti, i protestanti francesi.
Guado prima la statale del Monginevro grazie al sottopasso pedonale, quindi la ferrovia diretta all'ottocentesco tunnel del Frejus su un cavalcavia (un lungo treno carico di automobili attira il mio sguardo, ma non riesco a trovare un pointe de vue adatto a una foto) e infine l'autostrada, diretta alla galleria stradale del Frejus, per un tunnel che ne fora il terrapieno. Non so come abbiano fatto i poveri lupi a sopravvivere a tutto ciò e a espandersi verso le valli di Lanzo; in effetti in questa valle gli investimenti non sono rari. Passate le ultime case e l'area sportiva, la sterrata si inoltra tra bellissimi prati fioriti, bordati da muri a secco con il culmine fatto di pietre disposte a coltello, forse per impedire lo scavalcamento delle capre, gli animali domestici più aborriti dai forestali e dai contadini. Sui fianchi della valle i boschi sono verde scuro, mentre le cime più alte, nascoste dalle nubi, sono state imbiancate ieri dalla persistente instabilità di queste settimane. Il rombo dei motori e il rollio degli pneumatici ancora sovrastano il canto degli uccelli, che oggi mi accompagnerà per tutta la durata dell'escursione, anche se la mia distrazione me lo farà sentire solo a sprazzi. Seguendo le indicazioni GTA, mi districo tra le numerose piste che attraversano questa piana, chiusa a valle da uno sbarramento roccioso, quindi forse una antico lago glaciale poi colmato dal detrito di falda. Raggiungo così infine l'area attrezzata della Pinea, da cui parte il sentiero 2, che ho scelto per la salita.
All'area trovo una coppia di anziani con i nipotini, che portano a visitare le attrattive del posto. La prima è la ricostruzione dell'imbocco di una miniera, a ricordo dell'attività estrattiva della zona, in passato assai capillare. La seconda è una grande ghiacciaia, costruita nel Primo Novecento insieme a un laghetto artificiale per alimentarla. Nell'Ottocento l'uso del ghiaccio aveva preso piede, sia a fini alimentari che medici, e aveva generato una diffusa attività di produzione sulle montagne. Precedentemente era estratto dal ghiacciaio della Galambra, a oltre 3000 m di quota e condotto a valle tra mille difficoltà e pericoli. Produrlo in valle fu un'impresa industriale, che sfruttava la vicina stazione ferroviaria per esportare a Torino il prodotto e si avvaleva di complessi sistemi ingegneristici per alimentare la ghiacciaia nel periodo invernale e sfruttarla in quello estivo, oltre che della forza dei più robusti tra i montanari. Cadde in disuso dopo la Prima Guerra Mondiale, quando nacquero le macchine frigorifere, in grado di produrre il ghiaccio direttamente in loco, grazie al ciclo dell'ammoniaca di cui era partita da poco la produzione industriale con il processo Bosch-Haber. Mio padre, nato negli Anni Trenta, ancora vide i carrettieri che la mattina giravano per i quartieri poveri con il ghiaccio da vendere a chi ancora non poteva permettersi il frigorifero domestico. Accanto alla porta della ghiacciaia mi imbatto in una mascherina chirurgica abbandonata nell'erba. Salgo quindi al soprastante laghetto artificiale di alimentazione, profondo appena un palmo, presso cui c'è una riproduzione di una sauna, opera dell'architetto finlandese Alvar Aalto, edificata in legno con la tecnica blockbau. Oltre a me e ai signori sulla riva gironzolano le formiche rufe, che dipendono dagli aghi morti per la costruzione del nido.
Imbocco il sentiero, che sale subito ripido nel bosco misto di abeti bianchi, rossi e pini silvestri. Gli abeti qui in basso hanno tutti gli aghi novelli, molto più chiari della media, ben sviluppati, mentre in quota la loro formazione sarà solo all'inizio. Trovo subito una bella fioritura di elleborina bianca o celefantera maggiore, un'orchidea dai caratteristici fiori quasi sempre chiusi. Con un traverso mi avvicino al fragoroso torrente, che oltrepasso su un ponticello, per poi riprendere a salire. Oltre alle conifere ci sono anche dei maggiociondoli, nell'esplosione della fioritura e anche degli aceri di monte e dei faggi di piccole dimensioni. Questi ultimi qui devono essere al limite estremo del loro areale, in quanto prediligono piuttosto le zone prealpine a clima più piovoso. D'altronde anche abeti bianchi e rossi prediligono zone più piovose. I secondi hanno poi bisogno di un clima continentale con precipitazioni estive, come nelle Alpi settentrionali, mentre in Piemonte i massimi sono equinoziali e l'estate è più arida, perché ancora in parte influenzata dal Mediterraneo. I naturalisti ritengono che questi abeti siano una variante adattata al diverso clima. Raggiungo la baita di Bussoniere, su un piccolo prato dove sono fioriti i gigli di monte. Chinandomi a fotografarli, mi rendo conto di quanto zuppa di rugiada è l'erba e di come lo sono anche già i miei scarponi. Per fortuna sono ancora abbastanza nuovi e riusciranno a tenere fuori l'umidità. Dopo un tratto molto ripido tra gli abeti, raggiungo Case Cuin, anche qui tra maggiociondoli fioriti. Negli ampi prati a monte sta spuntando della genziana maggiore, nota per la sua radice amara adoperata per un liquore. Dopo il bivio per Etanche, entro in un bellissimo bosco di abeti bianchi dal sottobosco spoglio. Trovo quindi un poggio erboso, con altri gigli di monte, dove il sentiero, dal fondo terroso sempre regolare ma ripidissimo, finalmente spiana per una cinquantina di metri. Nonostante faccia abbastanza fresco e sia in maglietta, sto sudando per lo sforzo e l'umidità da sauna. Il sentiero entra quindi un ripido bosco di abeti bianchi, dove ci sono molti alberi a terra, anche spezzati.
Ad un certo punto, il sentiero modera la sua pendenza, si ampia e va a congiungersi con il sentiero 1, partito anch'esso da Pinea. Comincia prima a piovigginare, poi a piovere sempre sottile ma più fitto. Mi fermo sotto un abete e indosso il guscio ma anche uno strato suppletivo, perché il tratto ripido è terminato e fa molto più freddo di quanto troverei gradevole per godere la pioggia sulla pelle. Prima di raggiungere la strada tra Monfol e Seu, vedo degli escrementi di cervo sul sentiero, con le piccole olive già separate e non raggrumate come nelle fatte primaverili.
I cervi furono immessi a più riprese negli anni Sessanta del Novecento, ricorrendo a esemplari provenienti dalla Jugoslavia, ottenuti in cambio di stambecchi forniti dal Parco del Gran Paradiso. I metodi di cattura, trasporto e immissione furono alquanto rudimentali, con il risultato che non pochi esemplari morirono a causa delle operazioni. A ciò si aggiunsero delle esercitazioni militari in zona, che costarono la vita a una madre (il cucciolo non fu mai più ritrovato). Ad ogni modo, sui giornali dell'epoca articoli colmi di retorica accolsero benevolmente il ritorno di questi animali allora estinti. Si manifestò subito un comportamento che ancora oggi attira la curiosità umana e genera ondate di video da ogni angolo delle Alpi, ovverosia l'abitudine di alcuni esemplari di trascorrere l'inverno rifugiandosi nei paesi di fondovalle. Tuttavia il primo esemplare che ci provò ebbe una sorte grama, perché sparì della circolazione senza lasciare traccia, secondo voci di paese trasformato in salami per la sua mal riposta fiducia nel genere umano. Gli ungulati si trovarono molto bene nel bosco, tanto che neanche vent'anni dopo si denunciarono i danni agli alberi e alle colture dovuti alla loro presenza (adorano i germogli di qualunque cosa), senza contare i pruriti di chi voleva arredare il salotto con i loro trofei. Si generarono le condizioni a favore della apertura della caccia (che sotto forma di bracconaggio era sempre esistita), a beneficio di danarosi cacciatori, prima che l'arrivo dei lupi, di cui sono la preda favorita insieme ai caprioli, instaurasse un metodo naturale di regolazione del loro numero.
Imbocco la pista verso Monfol e attraverso un bel bosco di abeti misti a larici, con fioriture di anemoni e botton d'oro nelle radure. Questa pista fu costruita dal corpo forestale su pressione dei montanari, che videro così notevolmente migliorate le possibilità di accesso al legname. C'é una piccola zona devastata dal vento. Al primo bivio a sinistra, imbocco la strada con le indicazioni per l'Assietta, che sale a tornanti in un rado bosco, dove compaiono i primi pini cembri, che assieme ai larici costituiscono il margine superiore del bosco. La presenza di cembri a questa quota, come di abeti rossi al limite inferiore dei larici, indica che questa zona è stata poco sfruttata per il pascolo, perché altrimenti i larici formerebbero un bosco quasi puro: si prestano infatti a mantenere un pascolo al di sotto, grazie alla loro chioma rada, per cui sono stati ampiamente diffusi dall'uomo nel passato. Intanto la pioggia cala d'intensità e tra gli alberi vedo la valle completamente avvolta nelle nuvole. A un successivo bivio prendo nuovamente verso l'Assietta. Dopo due ore di ripida salita, sento i morsi della fame e decido di cercare un posto dove fermarmi; i siti tuttavia scarseggiano, perché non c'è altro che erba bagnata. Finalmente trovo una pietra che si può prestare allo scopo e mi accomodo (detto molto ottimisticamente), mentre continua a cadere un pioggerellina sottile. Non mi fermo pertanto a lungo e apprezzo il tè del termos sopra ogni alta cosa.
Riprendo il cammino in un bel bosco di radi larici, con qualche abete rosso e qualche cembro. Compaiono anche i rododendri, in procinto di fiorire, e verso un impluvio anche dei sorbi e degli ontani. I rododendri segnano il limite superiore degli abeti rossi, perché in essi si annida un fungo, che ne causa l'ingiallimento degli aghi più giovani, quelli che svolgono la maggior parte della fotosintesi. Questa malattia è detta ruggine dorata. Intanto il cielo sopra di me è un po' schiarito e intravedo pure il sole. Nell'impluvio, dove scorre un ruscello, ci sono molte piantine giovani e coeve di larici, come se negli anni scorsi fosse caduta una slavina in grado di spazzare tutto. Qui si vede come il larice sia molto più rapido del cembro a rinnovarsi e per questo più diffuso. Sempre qui, noto della lastricatura in pietre di fattura militare e dei muri a secco verso valle. Raggiungo un bivio, dove la pista fa un tornante a destra e io proseguo invece dritto lungo la strada dei cannoni, più stretta. La strada si rivela moderatamente fangosa per dei rigagnoli non adeguatamente regimentati.
Degli squarci nella vegetazione e nelle nuvole mi fanno scorgere in lontananza Montagne Seu, dove arriverò più tardi. Tra pini cembri sempre più numerosi, a quota 2100 arrivo a una altro bivio, dove imbocco il sentiero in discesa. Proseguire per la strada dei cannoni andrebbe anche bene, perché finirei comunque sul sentiero GTA da cui scenderò. Tuttavia salirei più in alto, oltre il limite del bosco, dove la temperatura calerà repentinamente, e già qui ho bisogno dei guanti.
Salire più in alto sarebbe stato interessante per osservare il portamento degli alberi al limite superiore della vegetazione, dove sono sottoposti a un forte stress climatico, che ne limita la possibilità di espandersi a monte. Tuttavia spesso questo confine non è fisso, ma mobile, per effetto dei cambiamenti climatici. A ciò va aggiunto l'intervento umano, che sin dal Neoltico, cioè da quando esiste la pastorizia, ha abbassato artificialmente questo limite, per aumentare la disponibilità di pascolo. Indagini polliniche su una torbiera nei pressi del col Blegier, sul crinale, hanno mostrato che in tempi recenti si è drasticamente ridotta la diffusione di pino mugo in quota. Invece, per quanto riguarda il passato, in corrispondenza di una drastica riduzione di pini a favore della prateria nel tardo Neolitico, non sono state trovate tracce di incendi, a differenza che in molti altri laghi alpini.
Scendo quindi per un sentiero meno marcato, ma sempre adeguatamente segnalato. Il sentiero perde quota tra boschi, a volte fitti a volte radi, di larici e cembri, che un poco alla volta sono sostituiti dagli abeti rossi. C'è un folto sottobosco di cavolaccio alpino (Adenostyles alliariae) e più diradato veratro. Le grandi foglie della prima pianta indicano che qui il clima è umido ed entrambe amano un terreno ricco di azoto; non so se ciò sia dovuto solo alla fertilità del suolo oppure se indichi il passaggio di mandrie di vacche. Una cosa che ho anche notato sin dalla partenza è la scarsezza di pietre e rocce affioranti: non credo che sia dovuto a spietramento perché non vedo i relativi mucchi di pietre; credo invece che ciò sia dovuto alla facile sfaldabilità dei calcescisti, che abitualmente producono suoli del genere, come nel caso dei grandi pascoli della Valle d'Aosta interna. Inoltre qui va aggiunta l'abbondanza di materiale organico, che penetra fin nelle profondità. Nel fango del fondo noto delle impronte di ungulato, credo anche stavolta un cervo, anche se la deformazione del fango e le strisciate per la ripida discesa le rendono difficili da decifrare. Forse è sceso a bere a una delle numerose sorgenti che trovo lungo questo primo tratto di discesa.
Dove gli abeti si fanno più numerosi e sostituiscono i cembri, incontro qualche nido di formica rufa. Poco prima che il sentiero termini sulla strada, un rio strabordato ha provocato un po' di paciugo. Scopro a mie spese che non devo seguire il segno del 7, che porta nella zona più melmosa, ma il simbolo del sentiero natura che corre poco più a monte su fondo più
asciutto (ma sempre nell'erba zuppa). Supero quindi un secondo rio, più copioso ma più disciplinato, e raggiungo una magnifica radura di erba novella cosparsa di fiori, con tanto di narcisi e una bella vista sull'alta valle, coperta di nubi solo nelle sue cime più alte chiazzate di neve. Un altro rio e un'altra radura più avanti sono alla strada dell'alpe La Sella.
Dato che ora mi trovo nel bel mezzo di una schiarita, con cielo blu, sole e aria mite, mi tolgo gli strati, che mi proteggevano da prima di pranzo, e resto in maglietta. Imbocco la pista erbosa in salita e tra radi larici e qualche cembro, risalgo il fioritissimo prato dell'alpeggio, con vista sullo scuro bosco risalito stamattina e sull'alta valle. Tra fiori magnificenti, oltrepasso due fonti e una stazione meteorologica e arrivo ai rustici edifici dell'alpeggio, dove sono stato preceduto da due escursionisti canuti, che si sono appropriati dell'unico posto comodo e sono impegnati in una discussione sulla staratura dell'altimetro, da cui traggono i più foschi vaticini bernacchiani. Controllo il mio tarato alla partenza con il GPS e mi sembra che sia più o meno preciso. Dopo una vana esplorazione in certa di un'alternativa per sistemarmi, mi acquatto su un mattone di cemento traforato, che sorregge una fioriera, e mangio la seconda parte del pranzo. I due devono invece ancora mangiarlo per intero, a giudicare dal numero delle portate che estraggono dagli zaini.
Intanto il cielo va coprendosi di nuvoloni bitorzoluti e l'aria rinfrescandosi nuovamente. Lascio l'alpe ben coperto mentre riprendono a cadere goccerelle di pioggia, proseguendo in piano lungo la pista in direzione delle GTA, dove termina. Il sentiero scende abbastanza ripido tra larici, qualche abete rosso e un paio di sorgenti. Scorgo uno scoiattolo rosso che subito si dilegua tra i tronchi. Il sentiero sbuca dal bosco in radure fioritissime, transitando accanto a un capanno di avvistamento. In una radura ci sono fitti larici giovani. Con vista sulle montagne a nord di Salbertrand, parzialmente libere da nubi, arrivo a Montagne Seu, i cui tetti di lose grazie al sole rispuntato brillano contro il bosco scuro. In paese c'è solo il gatto del rifugio Arlaud, i cui gestori sono scesi in paese per commissioni. Sulla porta sono affisse le meticolose istruzioni a cui i clienti devono attenersi, per consentire alla struttura di funzionare nonostante l'epidemia, che costringe le persone al distanziamento fisico, ovverosia la negazione dello spirito di condivisione del rifugio. Faccio una puntata alla semplice chiesa, massicciamente restaurata in anni recenti (la trave di colmo precedente risaliva al Seicento). Ha avuto una storia travagliata, in particolare circa un secolo fa, quando infiltrazioni di acqua la misero a dura prova. È dedicata a san Cosma e damiano, la cui festa cade nel giorno tradizionale della demonticazione: questa borgata non era altro che la resisdenza estiva dei pastori di Salbertrand. Nonostante la sua posizione isolata, fu coinvolta in alcuni eventi storici importanti: fu asilo durante la peste manzoniana, vi trasitarono i valdesi durante il glorioso rimpatrio, fu ospedalde dei francesi durante la battaglia dell'Assietta, un evento segnate per l'identità piemontese. Mi siedo sulla panca di fronte alla fonte del rifugio a terminare le provviste, approfittando dell'aria nuovamente mite. Sulla facciata in pietra del rifugio sono intercalate delle travi di larice. Ho visto questa tecnica impiegata in vari posti e ho sentito altrettante versioni sul suo significato: qui un cartello sostiene che serva a ripartire i carichi e compensare gli assestamenti del terreno.
Lascio Montagne Seu con un traverso nei prati, tra grandi alberi, ed entro quindi in un fitto bosco di abeti rossi, dove vedo una fatta di cervo. Anche qui trovo alberi che sembrano tranciati da tempeste di vento, a volte con le radici divelte. Già da quota 1600 il brusio dell'autostrada comincia a sovrastare il canto degli uccelli, nelle zone più esposte, dove non è attenuato dagli alberi o dalle pieghe del pendio. Da case Bergè scendo per un ampio sentiero, che sembra aver avuto accanto dei filari di pini, per guidare la transumanza del bestiame. I pascoli di quest'alpe dovevano essere un tutt'uno con quelli delle sottostanti grange d'Himbert, perché lungo la discesa il bosco non diventa mai fitto, ma ci sono al massimo alberi sparsi tra i prati. Queste ultime, sul lato rivolto a valle, presentano degli ingressi con archi. A monte invece uno spiazzo è deilimitato da un alto muro a secco, indice forse del notevole sbancamento necessario a ricavare spazio per loro, su questo pendio molto ripido. Nei dintorni c'era anche una miniera di stagno. A valle degli edifici compaiono delle latifoglie naturali, come dei ciliegi e dei maggiociondoli nel pieno della fioritura; già intorno alle grange Bergè c'erano delle latifoglie piantate, come un acero di monte e un biancospino, oltre al solito frassino. Delle successive grange è rimasto solo il muro rivolto a valle.
Continuo a scendere ripidamente (mi resterà per qualche giorno un indolenzimento ai muscoli delle gambe, a causa di questa discesa, in un periodo ancora di scarso allenamento dopo il blocco). Tra la vegetazione di conifere, ci sono dei faggi molto striminziti e molto in sofferenza. Tratti di bosco fitto si alternano a quelli che sembrano dei pascoli arborati, con i pini silvestri al posto dei più consueti larici; d'altronde neanche questi fanno tanta ombra e anche in natura presentano un sottobosco di prateria, quindi forse si prestano. Dove mi affaccio su una valletta, vedo poi un filo nuovo per il bestiame e odo degli scampanii, ma dal fitto del bosco non riesco a vedere gli animali; più sotto vedrò tracce di vacca. Scorgo intanto la ghiacciaia poco sotto di me: sono quasi arrivato. Da un punto panoramico, un pannello informativo consente di notare le fasce vegetazionali del versante opposto, parecchio più arido di questo. Per un bosco fresco (ora apprezzo più il fresco del caldo, perché grazie al sole di giugno la temperatura è salita rapidamente), arrivo a un bivio della sterrata che stamane mi ha portato a Pinea.
Prima di ficcarmi tra autostrada e ferrovia, dove soffia la caratteristica brezza pomeridiana dal fondo della valle di Susa, ripasso tra i bei prati fioriti del mattino. Nei pressi del campo sportivo, faccio caso a un traliccio dei telefonini più alto del campanile. In paese le mamme con i bambini sono tutte radunate sul marciapiedi, perché i giardini con i giochi sono interdetti per l'epidemia. Dato che nel bar c'è un singolo avventore, decido di osare il primo caffè da marzo. Indosso la mascherina, così come fa la barista al mio ingresso la sua tricolore, lasciando però scoperto il naso. Evito di socializzare con l'operaio che sta bevendo una Ceres al banco, l'operazione più semplice grazie al mio carattere. Quando la signora mi porge la tazzina, mi avvicino al banco, la afferro e mi vado a sistemare su un tavolino. Terminato, copro di nuovo la faccia e vado a restituire la tazzina e a pagare. Il caffè era forte e buono: valeva il modesto rischio.
Ripasso per la via principale del paese, dove mi fermo a fotografare la fontana di Milieu. Conto di includere amche una passante con mascherina, ma lei è coscienziosa e si mantiene sul lato opposto della strada, cosicché riesco a riprenderla solo di lontano, prima che esca dall'inquadratura. All'arrivo all'auto, alla testata della valle lo Chaberton è quasi libero dalle nuvole e abbondantemente innevato.
Per approfondire
- C. Baccon, Salbertand: una comunità e i suoi boschi, R. Sibille, A. Dotta [a cura di],Comunità e gestione dei boschi nelle Valli di Oulx e Pragelato, Salbertrand 2013
- N. Faure, R. Sibille [a cura di], Hotel Dieu e Bachà 'd Mei 'd Viera : l'Ostello dei pellegrini e la fontana du Milieu di Salbertrand, Pinerolo 2016
- R. Morandini et al., Gran Bosco di Salbertand, Arezzo 1969
- H. Reisigl - R. Keller, Guida al bosco di montagna, Bologna 1995
- O. Rey, Lu travou du bō a Sabëlträn : l'economia boschiva a Salbertrand, Salbertrand 2007
- O. Rey, L'istuārä du glà 'd Sabëltran : la storia del ghiaccio di Salbertrand interamente raccontata e illustrata da Oreste Rey, Salbertrand 2003
- M. Vaschetto, Il Gran Bosco di Salbertrand, Torino 1983
- N. Faure, R. Sibille [a cura di], Hotel Dieu e Bachà 'd Mei 'd Viera : l'Ostello dei pellegrini e la fontana du Milieu di Salbertrand, Pinerolo 2016