Cima delle Saline 2612 m
Parco naturale del Marguareis
21-22 giugno
In un baleno
Piego a destra e raggiungo la prima cima, il cui nome evoca i balli delle streghe con il demonio. In effetti l’ambiente minimale regala sensazioni un po’ ultraterrene, anche se forse più metafisiche che demoniache. Nelle culture tradizionali, tutto ciò che esulava dall’ordinario aveva una sfumatura nefasta e andava evitato
Diario di viaggio
«Anche in valle Pesio, al Marguareis, le montagne sono favolose»Pastore ruas‘cin
Esaltante escursione negli ambienti carsici del parco naturale del Marguareis. Attraversa un’infinità di ecosistemi diversi, dal bosco piovoso coltivato dai monaci, fino alle praterie d’alta quota, al principio della fioritura. Un interessante orto botanico consente di approfondire la conoscenza degli habitat molto diversi tra loro che si attraversano. Alcune sezioni del percorso sono molto frequentate, mentre altre sono una garanzia di solitudine e incontri con i selvatici, in particolare il vallone di Piaggia Bella.
L’escursione parte da Pian delle Gorre, dove al mio arrivo stanno falciando l’erba del prato di fronte al rifugio. Il caratteristico odore permea l’aria. Bevo un caffè, riempio la borraccia alla fontana e mi incammino nella foresta di abeti bianchi monumentali. Questi alberi furono coltivati dai monaci della vicina Certosa di Pesio, perché sono un’ottimo legname da costruzione. Si adattano molto bene al clima piovoso di questa breve valle delle Alpi Liguri, stretta tra l’umidità della Pianura Padana e quella del mare. La mulattiera scende e varca il torrente del Saut, le cui rocce sono ricoperte di muschio verde scuro. Su un secondo ponticello di legno supero poi il Pesio. Qui i torrenti hanno tutti portate copiose, per cui i guadi sono possibili solo ad alta quota, mentre qui in basso sono necessari i ponti. Mi dirigo quindi verso l’osservatorio faunistico, un enorme recinto dove il parco alleva i cervi. Una femmina giovane se ne sta vicino alla rete, poco lontano dal sentiero. Proseguo poi accompagnato dallo scroscio del torrente, nella foresta di faggi e aceri.
Supero di nuovo il Pesio e a stretti tornanti salgo al gias Fontana, oggi abbandonato. Il termine occitano gias designa la lettiera di foglie e paglia della stalla e, per sineddoche, l’alpeggio nel suo complesso. Questi alpeggi di bassa quota erano una stazione intermedia tra la pianura, dove le greggi svernavano, e gli stazionamenti estivi in alta montagna; la sosta avveniva tanto durante la monticazione tardo-primaverile, quanto lo scaricamento autunnale. In breve varco nuovamente il Pesio, ai piedi di una cascata, uno dei miei posti di montagna preferiti. Nel fitto della foresta, il torrente precipita con fragore e poi scorre placido tra massi ricoperti di muschio e, in questa stagione, anche di fiori. Non la fotografo, tanto qui ci sono già venuto con il cavalletto per uno scatto con tutti i crismi. Da tempo immemorabile ho in programma di ripetere lo scatto con le brume autunnali e con la neve, ma non mi sono mai applicato.
La mulattiera riprende a salire nel fitto della faggeta, dove incontro un sorprendente frassino: sopravvive in questo consorzio per lui insolito, elevandosi per raggiungere la luce accessibile solo molti metri sopra il terreno. Forse si è stabilito qui quando i faggi furono tagliati per produrre legan da carbone ed è sopravvissuto in qualche modo. Alcuni sentieri non rappresentati sulla mia cartina si staccano dal percorso principale, lasciandomi con la curiosità di scoprire la loro destinazione. Intorno ai 1600 metri, il bosco si dirada e ben presto mi trovo al sole. Al bivio per il gias Vaccarile mi fermo e mi spalmo generosamente di crema solare, perché al solstizio non si scherza. Proseguo per il passo del Baban su un sentiero meno tracciato, ma comunque sempre individuabile. Segue una cengia pianeggiante sotto picchi di calcare in parte coperti di vegetazione. Compaiono i pini mughi dal portamento cespuglioso, tipici delle Alpi Orientali, che in quelle Occidentali si rivengono soli qui. Il sentiero panoramico mi offre scorci sulle cime circostanti e anche sulla bassa valle e la pianura.
Arrivo al passo del Baban, sinonimo di babau: il nome designava i saraceni arrivati dal mare, le cui bande di predoni nel Medioevo trovarono rifugio su queste montagne solitarie, prima che iniziasse la monticazione e fossero colonizzate permanentemente dall’uomo. Ancora oggi in certi paesi del Piemonte si commemora la loro cacciata con una festa. Il colle è la porta di accesso al Conca delle Carsene, una grande conca carsica senza sbocco, le cui acque si riversano negli inghiottitoi, per finire in sorgenti molto più a valle o a volte addirittura in mare aperto. Qui vicino c’è il gias dell’Ortica, dove spero di trovare un po’ d’acqua, ma invano, perché il fontanile per le bestie è chiuso. Mi fermo al sole per la prima pausa lunga. Mangio mezzo panino, qualche frutto e mi metto in pantaloni corti.
Un escursionista solitario arriva dalla mulattiera del passo del Duca, salvo poi dileguarsi nel nulla. Questa mulattiera avrebbe dovuto essere una strada militare, che portava dalla valle Pesio fino alla strada che univa i forti del colle di tenda, in valle Roya, allora italiana. Tuttavia lo scoppio della guerra ne lasciò a metà i lavori. Percorrendola, si vedono ancora gli abbozzi dei tornanti e i muri a secco che avrebbero dovuta sostenerla. La seguo fin quasi al passo del Duca, incantato dalle fioriture calcaree, che sono tra le più spettacolari. In questo ambiente d’alta quota, ma con clima influenzato dal mare poco distante, vivono molte specie endemiche e altre rare nel resto delle Alpi. Tra queste la bellissima aquilegia maggiore, tipica dell’Appennino, qui al suo limite settentrionale, che sfortunatamente oggi non vedo fiorita. Mi piace anche molto l’anemone narcissino, che come dice il nome assomiglia a un narciso; questo sì che oggi è abbondante.
Prima del passo, che mi porterebbe fuori dalla conca, lascio la mulattiera e imbocco il percorso segnalato fuori sentiero diretto al colle Scarason. Non c’è una traccia, se non per tratti brevi e discontinui, ma bisogna seguire le tacche biancorosse. Con la buona visibilità di oggi non è un problema, ma non mi avventurerei qui in un giorno di nebbia, perché in certi punti sono lontane le une dalle altre. Bordeggio il margine orientale della conca, tra stupende forme erosive carsiche. Arrivo ad affacciarmi a un colletto da cui si può guardare oltre, verso il rifugio Garelli e Porta Sestrera, da cui transiterò domani. Al salire della quota, le fioriture cambiano natura e si fanno più sparse; tra le più alte c’è la genziana di Clausius, quella con i cinque petali blu scuro. Tra gracchi che volteggiano, costeggio qualche piccolo nevaio residuo. Il cielo si copre parzialmente di nubi che risalgono dalla pianura.
Al colle mi affaccio sulla val Roya, in Francia, che è più solatia. Visto che è presto e non manca più molto (già vedo il colle dei Signori dietro cui c’è il rifugio don Barbera), mi fermo oltre un’ora, incurante del vento frizzante. Finisco i viveri di oggi e faccio qualche giro nei dintorni per cercare i punti di vista migliori. Di qui si dominano le Carsene. Attendo che il moto delle nubi mi consegni la luce migliore e poi la fotografo. Anche la visuale sull’altro versante è molto fotogenica. Invece la pianura è avvolta da un cappa d’afa e le Alpi Occidentali sono tra le nuvole.
In discesa seguo un po’ il sentiero, che per la verità fa un giro un po’ contorto. Trovo però una scritta su una roccia, che sembra indicare un scorciatoia. Proseguo in quella direzione e mi imbatto in un sentiero segnalato. Tuttavia ben presto mi accorgo che punta in tutt’altra direzione. Taglio allora decisamente per prati, passando accanto a una costruzione militare visibile già dal colle. Nel tragitto sorprendo una marmotta, che lancia un lacerante fischio di pericolo e si lancia verso la tana. Arrivo così alla strada, che seguo per un breve tratto, fin dove trovo le segnalazioni per la mulattiera che conduce al colle dei Signori, evitando la carrozzabile.
Questa zona carsica è davvero affascinante, per le rocce modellate dall’acqua e per le fioriture. Oltre che per le marmotte, che oggi proprio non si aspettano di vedere qualcuno, perché le colgo sempre di sorpresa. Sono tutte grasse, perché questa primavera ha piovuto molto e l’erba è cresciuta rigogliosa. Scatto molte foto, ma non alle marmotte, perché ho con me solo il normale. Al colle mi aspettano anche delle orchidee.
Fuori dal rifugio i gestori stanno tagliando legna. Un ciclista e due coppie di coniugi, una italiana e una francese, prendono il sole. Dentro mi accoglie una ragazza un po’ annoiata ma cortese e disponibile. Una tazzona di tè con la torta mi ristora, una sparagnina doccia fredda mi lava via la crema solare. Data la natura del luogo, lontano da sorgenti, qui l’acqua va usata con molta parsimonia: la doccia è da 15 litri. Intorno alle 19 da Limonetto arriva una coppia di anziani tedeschi. Stanno percorrendo la GTA (Grande Traversata delle Alpi), un sentiero ideato diversi decenni fa, che corre lungo tutto l’arco alpino piemontese. È stato reso popolare in Germania da un geografo, Werner Bätzing. Oggi sono quasi solo i tedeschi a percorrerla. La tappa che arriva qui è molto lunga, ma è definita la migliore di tutte sulla guida. È stata scritta da due escursionisti tedeschi per un editore di Monaco di Baviera, che poi l’ha anche fatta tradurre in italiano. È recente: quando nel 2012 percorsi la parte Walser, ai piedi del Monte Rosa, dovetti usare una guida inglese, perché non vi erano pubblicazioni italiane. Qui siamo quasi al suo capo meridionale, anche se molti la prolungano fino a Ventimiglia, per una conclusione nell’esotico Mediterraneo.
Per cena accendono la stufa, per scaldare la sala da pranzo. Il ciclista, che ha preso sole senza crema ed è diventato tutto rosso, ha freddo e si fidanza con lei. La sera faccio due passi nella luce infinita del solstizio per vedere se riesco a fotografare almeno un po’ di tramonto, ma purtroppo il cielo è quasi tutto coperto. Stanotte c’è la luna quasi piena e l’attrazione delle rocce calcaree che brilleranno nel buio non è da poco, ma sono partito senza cavalletto e senza obiettivo luminoso: l’escursione di domani sarà già abbastanza faticosa anche viaggiando leggero. Magari ci tornerò, tanto il rifugio è aperto fino ad ottobre.
Al mattino faccio colazione presto, insieme a due signori tedeschi diretti in valle Vermenagna. Parto alle 7, mentre la valle è ancora in ombra. Uno strato in più del solito mi protegge dall’aria frizzante; due panini giganti e un po’ di frutta mi daranno il conforto materiale necessario. Nei primi venti minuti scendo per la Valle dei Maestri, dove sono affascinato dalle formazioni carsiche oltre il torrente, illuminate dalla luce radente del mattino. Il successivo sentiero per il colle del Pas è poco tracciato, segno di una scarsa frequentazione. Proseguo all’ombra ancora per un po’, superando in traverso alcuni valloni. Miei unici compagni sono marmotte che si dileguano alla mia comparsa e alcuni camosci che fuggono a rotta di collo per il pendio. Per alcuni metri un fringuello alpino cinguetta furiosamente intorno a me: forse l’improvvido ha fatto il nido proprio accanto al sentiero. Attraverso vari valloni minori, fino a sbucare al sole poco prima di affacciarmi su quello che conduce a Piaggia Bella. Indimenticabile la vista da questo punto panoramico, compresa tra le pareti vicine affacciate su prati verdi e le dorsali blu della lontana val Tanaro. Quando il sole è appena sopra il pendio, vedo delle orchidee illuminate da luce radente e scendo a fotografarle. Con lo sguardo già puntato verso di loro, non mi accorgo che poso il piede su una pietra instabile e solo con il supporto dei bastoncini evito di rotolare per terra.
Avanzo quindi in quota verso la testata del vallone, mentre il suo incavo guadagna quota e si avvicina a me. Lo raggiungo nei pressi di Piaggia Bella, un conca erbosa punteggiata di massi bianchi. Il bivacco degli speleologi la domina da un dosso. Il cuore di queste montagne calcaree nasconde un intrico di cunicoli, paradiso degli alpinisti al contrario. Al mio arrivo dei camosci, tra cui alcuni cuccioli, si allontanano senza troppa agitazione. Alcuni di loro hanno un pelo arruffato, perché stanno ancora perdendo la casacca invernale: fino a poco tempo fa ha spesso piovuto e solo ora sta improvvisamente scoppiando il caldo estivo.
Il sentiero risale l’ultimo pendio per il colle con regolari zig-zag, che permettono di guadagnare quota quasi senza faticare. Questo andamento è tipico dei vecchi sentieri tracciati dai montanari, che avevano bisogno di spostarsi in maniera agevole. Quelli tracciati a soli fini escursionistici non hanno questa accortezza e spesso affrontano il pendio dritto per dritto: ne avrò qualche dimostrazione a breve. Al passo si apre la vista verso la cerchia alpina oltre la pianura: il Rosa e il Cervino sbucano sopra il mare di foschia non ancora marroncina, grazie alle piogge dei giorni scorsi. La valle Pesio risalita ieri è già sotto le nuvole arrivate dal basso, mentre altrove il cielo è sereno. Al colle soffia una brezza fresca, che mi consiglia di stare ancora coperto.
Dal colle seguo lo spartiacque diretto a est, che in quota mi porta ai piedi del pendio che sale verso cima Pian Ballaur. Da qui fanno la comparsa alcuni paletti, che alternati a stele di pietra e ometti, indicano la via. In questo ambiente piatto, senza alberi né massi, è il modo più efficiente di segnalare il percorso. Su qualche paletto si vede anche qualche resto di vernice bianca e rossa, ma ormai quasi scomparsa. Con buona visibilità non ci sono problemi, ma con la nebbia non mi avventurerei mai su di qui. Dritto per il pendio, che fin qui non è troppo ripido, arrivo a una dorsale piatta, che si affaccia sulla croce della Cima delle Saline, da cui mi separa un profondo avvallamento nivale. Piego a destra e raggiungo la prima cima, il cui nome evoca i balli delle streghe con il demonio. In effetti l’ambiente minimale regala sensazioni un po’ ultraterrene, anche se forse più metafisiche che demoniache. Nelle culture tradizionali, tutto ciò che esulava dall’ordinario aveva una sfumatura nefasta e andava evitato. Alcuni camosci si mettono al riparo. Alle mi spalle fa la comparsa il Monviso, che al passo era nascosto.
Al primo ometto di cima, non bisogna puntare a quello dell’anticima, che si affaccia sulla Valle dei Maestri, ma affrontare di petto il ripido pendio erboso sulla sinistra, sempre seguendo pali e ometti. Con l’aiuto dei bastoncini tengo a freno la gravità che mi trascinerebbe a rotolare verso il basso e in breve sono sul fondo dell’avvallamento, tra nevai residui. Tenendomi un po’ sulla sinistra, rimonto quasi per la massima pendenza l’ultimo prato e con non poco sforzo sono alla croce di vetta, tra pietre bianche.
Appena arrivato in cima, vado avanti e indietro tra le due croci per cercare l’imbocco del sentiero per il passo delle Saline e lo trovo segnalato da un ometto. Sono molto indeciso sul da farsi e anche un po’ ansioso, perché le descrizioni del canalino che mi aspetta mi hanno infuso preoccupazione. Sono molto scarso quando c’è da disarrampicare. Meglio tornare al colle del Pas o scendere alle Saline? Tra l’altro oggi il Garelli è chiuso, per cui la prima opzione, oltre a comportare uno terzo strappo sfiancante, vorrebbe dire nessun ristoro e niente acqua fino alle 19. Non scatto foto dalla vetta e non mi guardo neanche tanto intorno. Ho solo voglia di togliermela, come dicono al CAI. Non so perché si venga assaliti da questo desiderio, che non ha né capo né coda: affrontare una difficoltà dieci minuti prima o dopo non cambia la vita. Alla fine prevale il desiderio di trovare un ristoro al Mondovì e decido di scendere di qui. O almeno questa è la razionalizzazione che mi sono costruito a posteriori: di quei momenti ho ricordi un po’ confusi e vaghi. Scendo e scopro che il canalino si percorre tranquillamente camminando: è solo un sentiero un po’ ripido con qualche sasso sul terreno. Non mi sembra possibile che per ’sta cosa la gita sia classificata EE, tanto che per un po’ penso che il canalino vero si più sotto, dove vedo che la pendenza del pendio aumenta. Tuttavia mi accorgo presto che non è così. Mi mangio allora le mani per non essere stato più razionale in cima.
Il sentiero affronta il ripido pendio con pochi tentativi di tornante. Tre francesi e due italiani in senso opposto salgono piano piano, quasi centellinando le forze. La brezza fresca della cima si placa, per cui la temperatura sale vistosamente. Dove posso posare lo zaino senza timore che rotoli giù, mi fermo per riporre lo strato supplementare che mi ha protetto dal colle del Pas.
Al passo delle Saline trovo due signore che stanno scattando foto a tutto quello che vedono. Mi scosto dalla loro visuale e vado a sedermi sul prato al sole, a mangiare un panino. L’erba, che dalla partenza mi sta inzuppando gli scarponi, è ancora umida, ma non il fatto non mi turba perché so che col sole di oggi a breve sarò asciutto. Il nome del passo ricorda il commercio del sale tra la costa e l’entroterra. Le Vie del Sale sono diventate di moda tra gli escursionisti negli ultimi anni, ma nessuna passa da questa zona remota, perché preferiscono percorsi più agevoli. Ad ogni modo, qui il sentiero diventa molto tracciato, perché vi passa la GTA: a volte ci sono solchi multipli, dai tagli alle vie affiancate di quando il sentiero diventa troppo eroso e gli escursionisti vi camminano sul bordo.
Tra dossi ricoperti di rododendri fioriti scendo verso la valle Ellero. Da questo lato, la Cima delle Saline precipita con pareti verticali e anche strapiombanti. Scatto un sacco di foto. Dopo un breve cammino tra erosioni carsiche, arrivo sul fondo della valle, dove passa una pista sterrata che conduce a degli alpeggi. La seguo in discesa tagliando un lungo tornante per prati e arrivo al rifugio Mondovì. Il rifugio è in una poszione fantastica, in una conca ai piedi di pareti calcaree. Ammiro il paesaggio per la prima volta, perché quando ci passai nove anni fa le nuvole basse lo nascondevano. Sui prati ci sono persone obese e famiglie con bambini piccoli: è chiaro che si arriva in auto poco distanti. La mia intenzione sarebbe di prendere un caffè, fare rifornimento d’acqua e a andare a finire i panini al lago Biecai. Tuttavia è proprio ora di pranzo, per cui mi si accende una lampadina e alla fine mi fermo a mangiare una polenta con il Raschera, il formaggio tipico di questa valle. Un’ora e mezzo di pausa nel fresco della sala da pranzo ci voleva proprio, dopo gli strappi della mattina.
Quando riparto è l’ora peggiore per le foto, tra sole allo zenit e prospettiva aerea che sbiadisce le cime, ma non riesco lo stesso a frenarmi dallo scattare. Il primo tratto è infatti tra picchi di calcare coperti di vegetazione e rododendri fioriti. Mi riprometto di tornarci con la luna. Mi aspettano ancora due ore di salita, ma molto graduale, da quello che ricordo dal passaggio precedente. Incrocio diversa gente, tra cui anche i due anziani coniugi tedeschi, che ieri sera erano arrivati alle 19 al don Barbera e oggi sono diretti al Mondovì per la via più breve. Passo nei pressi del lago Biecai, che ha ormai quasi completato il processo di interramento, destino di tutti i laghi glaciali, ed è diventato un pianoro prativo.
In salita cerco di seguire fedelmente il tracciato storico, evitando accuratamente i tagli. Questi accorciano sì il tragitto, ma per vie più ripide che comportano uno sforzo maggiore. Molti escursionisti fanno giri brevi e vogliono arrivare il prima possibile alla meta, mentre per chi percorre lunghe escursioni sono molto meglio i sentieri storici dei montanari, che avevano le sue medesime esigenze. Nell’ultima mezz’ora di salita, molti dossi mi sembrano il colle, forse più per la mia stanchezza che per l’orografia ingannevole. Finalmente passo ai piedi del colle del Pas, dove sono transitato stamattina, per giungere a Porta Sestrera, dove si apre il panorama sul rifugio Garelli e sulle pareti settentrionali del Marguareis, la cima più alta della zona che dà il nome all’area protetta. Saluto invece la Cima delle Saline, che mi seguito alle spalle nell’ultimo tratto di salita.
Con una breve discesa sono al rifugio, oggi chiuso, come detto, dove mi fermo due minuti sulle panche esterne. Non imbocco la via più breve per il Pian delle Gorre, ma mi dirigo invece verso il laghetto ai piedi del Marguareis, dove c’è un orto botanico che voglio visitare. Lo raggiungo con un traverso ondulato sopra il profondo vallone omonimo. Il lago è poco più di una pozzanghera con un palmo d’acqua, ma è trasparente ed è circondato da grossi massi. Si trova ai piedi di un impressionante canalone detritico, detto dei Torinesi, che consente un accesso alpinistico alla vetta. Mi siedo su uno dei massi e do fondo alle riserve alimentari, visto che è proprio ora di merenda. Lascio poi lo zaino al cancello dell’orto e lo risalgo tutto. È molto interessante perché consente di legare le varie piante agli ambienti in cui prosperano, che in questa zona sono molto diversificati: dalle zone umide ai ghiaioni calcarei. Ogni pianta può sopravvivere sono in un ambiente ben preciso. Peccato però che i cartelli riportino solo i nomi scientifici dei vegetali e non quelli comuni con cui li conosco.
Tornato all’ingresso, rimetto lo zaino in spalla e comincio la discesa nel vallone, per il sentiero accanto al torrente. La scorpacciata di panorami e luoghi d’interesse mi ha ormai saziato, ma mi fermo lo stesso ogni tanto a scattare qualche foto. Passo da un alpeggio non ancora caricato e dall’imbocco di un sentiero per il passo del Duca, non segnato sulla mia carta. Come sempre nei rientri pomeridiani, la temperatura aumenta vistosamente al calare della quota. Prima di raggiungere l’ombra nel profondo del vallone, mi fermo a un pianoro erboso con alcuni grandi massi di calcare già vegetati. L’ombra della sera è ormai vicina e non la dispregio affatto, dopo due giorni sotto il sole solstiziale. Nonostante i primi faggi e il vicino torrente, non è per nulla fresca: chissà che caldo deve aver fatto in pianura! Mi volto spesso a guardare gli ultimi scampoli delle pareti del Marguareis, prima di immergermi definitivamente nella foresta. Il sentiero segue il torrente del Saut e lo varca su un ponticello, in un punto buio in cui i massi del letto sono ricoperti di muschio. Non fotografo la scena, tanto anche qui sono già venuto con il cavalletto. Trovo un po’ di sole e una fonte fresca al gias Sestrera, dove mi ricongiungo al sentiero diretto che arriva dal Garelli.
Scendo ormai distratto nel bosco misto di abeti e faggi, senza notare la piazzola dei carbonai che pure so esserci a bordo sentiero. Giungo alla mulattiera del passo del Duca nell’unico tratto in cui è divenuta strada sterrata, com’era nel progetto iniziale. Mi perdono per non avere la forza, più psicologica che fisica, di andare a vedere la cascata del Saut, che sarà senz’altro magnifica, con tutta l’acqua che c’è nel torrente. Allego foto di repertorio. Accorcio i bastoncini ormai inutili e proseguo fino al Pian delle Gorre, dove l’erba ha ancora il profumo del taglio di ieri. Bevo un caffè e vado a casa senza cena, tanto mi sono già abbuffato a sufficienza a pranzo. Mi aspetta la prima doccia fredda volontaria della stagione.
Per approfondire
- B. Gallino - G. Pallavicini, La vegetazione delle Alpi Liguri e Marittime, Peveragno 2000