Santuario di Sant'Anna di Vinadio 2010 m
Valle Stura di Demonte
24 luglio
In un baleno
I cuneesi vi sono devoti, soprattutto per ringraziare i loro dèi di averli fatti uscire illesi dai frequenti e letali incidenti stradali di questa provincia, che solo il lockdown del Covid-19 ha saputo ridurre temporaneamente
Diario di viaggio
Il santuario dedicato a sant'Anna, madre della Madonna, a quota 2010 m nel vallone omonimo presso Vinadio, nelle Alpi Marittime, è una chiesa moderna d'alta quota, il più alto santuario d'Europa, sostiene il suo sito. I cuneesi vi sono devoti, soprattutto per ringraziare i loro dèi di averli fatti uscire illesi dai frequenti e letali incidenti stradali di questa provincia, che solo il lockdown del Covid-19 ha saputo ridurre temporaneamente.
Si trova tra montagne di dura roccia granitica, dove le forme del glacialismo si conservano tutt'ora in mille laghi di circo, nelle giornate estive trasformati dai merenderos in tante piccole verdi Pampelonne.
Sul pellegrinaggio a piedi
Con questo itinerario ho raggiunto il santuario a piedi, percorrendo su bei sentieri due valloni paralleli, dove non c'è il rischio di trovare traffico, neanche di pedoni. Quello di Lasciauda o Insciauda è verde e gradevole, ma tutto sommato ordinario, mentre quello di Tesina è assai articolato e roccioso, decisamente più affascinante. Entrambi gli accessi richiedono una mezza giornata di cammino, che può essere quindi spezzato in due giorni, associandolo alla permanenza al santuario, dotato di variegata offerta alberghiera, per dedicarsi alle relative pratiche devozionali.
Curiosamente invece i religiosi propongono un pellegrinaggio a piedi, che si svolge lungo le trafficate carrozzabili di accesso, prima facendosi sbarbare dai TIR diretti allo stabilimento dell'acqua minerale, quindi tra effluvi e i rombi di orde di camper e moto. Ricordo di averne visti di costoro, una notte in cui ero salito in valle per fotografare l'eclissi di luna, camminare in squadriglia lungo la statale con le pile frontali. Qualcuno l'ho anche superato il mattino della gita, guidando verso i Bagni, mentre camminava a bordo strada.
Una cosa insensata per la mia religione escursionistica, ma probabilmente non per la loro, come del resto la mia via di accesso sembrerà reciprocamente incomprensibile, tanto da non essere neppure presa in considerazione, pur essendo facilmente accessibile: come insegna Borges, le cose appaiono paradossali o ovvie in base alle premesse che accettiamo. A me il santuario interessa perché, sebbene raggiungibile in automobile, è espressione della religiosità della natura, sufficientemente isolato dalla modernità inquinante e frettolosa, per quanto avrei preferito che restasse accessibile solo tramite mulattiera, come san Besso o il Miserin. Sono andato in pellegrinaggio escursionistico in altri luoghi analoghi, quali Montallegro o la Sacra di San Michele, raggiungendo l'imbocco dei sentieri con il treno o il bus, mentre non mi sognerei di fare lo stesso per un luogo di culto urbano. Per curiosità in passato ho percorso uno dei vari cammini di ispirazione religiosa, marciando a lungo su strade anche asfaltate: sebbene abbia apprezzato alcuni aspetti sociali dell'esperienza, le varie abbazie visitate e le chiacchierate con i monaci, ho concluso che non lo rifarei. In una paesino, presi un caffè a casa di un assiduo frequentatore di pellegrinaggi a piedi, una realtà molto viva in quelle zone: non conosceva nessuno dei sentieri dei dintorni.
Infatti per costoro non pare esserci alcuna differenza, nessun genius loci della camminata in montagna che la distingue dalla quotidianità cittadina, se non la grande tribolazione per la distanza e il dislivello: un mero atto fisico di penitenziagite, senza nessuna gioia o gratificazione per la comunione con la natura, o tutt'al più con la gioia limitata all'azione comunitaria socializzante. Un po' come quelli che vanno tutti insieme in pullman ai saldi di un outlet o alla spiaggia, anziché andarci con l'auto propria. Gli avi rurali avevano una percezione molto chiara della sacralità di certi luoghi lontani dal consesso civile, anche testimoniata da frequenti leggende che ratificavano come quella specifica localizzazione e non un'altra andasse scelta. Non di rado ha varcato i confini delle religioni, susseguitesi nel corso dei secoli: sono mutati gli dèi, ma i luoghi dove incontrarli e i percorsi per avvicinarli sono rimasti gli stessi.
D'altronde, lo studiatissimo pellegrinaggio cognese di san Besso si svolge su sentieri anche molto lontani dalle strade e sperimenta un genius loci molto sentito, arricchito anche da elementi pre-cristiani di culto della rocca, tutt'uno con i poteri taumaturgici del santo. Purtuttavia, anche lì il viaggio è scandito unicamente da sessioni di devozione svincolate dall'ambiente ed è del tutto marginale rispetto ai riti in situ. Per me invece il culto e la devozione consistono nell'arrivarci a piedi tra faggi e massi erratici, sentendo la pioggia, il vento e il sole sulla pelle: il percorso è altrettanto importante della meta.
La montagna è abbastanza grande per dare spazio a tutti, senza pestarsi i piedi.
Il vallone d'Insciauda
Parcheggiamo l'auto in un angolino a Strepeis, per sfuggire al grande parcheggio a pagamento per camper. Per prima cosa, cerchiamo di assicurarci un posto all'aperto per la cena, ma un locale è ancora chiuso, mentre nell'altro nicchiano su questa richiesta, per motivi di loro organizzazione interna, come scopriremo la sera.
La frazione si trova a breve distanza dalle Terme di Vinadio, dalle acque solforose e clorurate. Da qualche anno sono chiuse, ma lo stabilimento è in ristrutturazione, quindi forse è prevista una riapertura. Nella Belle Epoque si presentava modesto, rispetto ad altri analoghi in stazioni rinomate, pur se fornito in termini di servizi sanitari.
Oltre il torrente, seguendo varie indicazioni per il passo di Bravaria e il santuario, finiamo su una pista sterrata, diretta nel vallone di Insciauda. La pista ha fondo terroso, a volte riportato da poco da una ruspa, senza compattarlo. In origine doveva essere una strada o una mulattiera militare, come indicano alcuni muri, qui nel bosco, e le file di pietre ai bordi del sentiero, nei pressi del passo. Sembra essere posteriore al 1896, quando un viaggiatore passato di qui parla solo di sentiero, e di poco anteriore al 1915, quando è citata come recente in un articolo sulle terme: risale quindi al periodo della Santa Alleanza, come molte altre opere analoghe. Per un lungo tratto, il fondo del vallone è molto incassato. Il torrente scorre alla base di pendii boscosi, con alternanza di canaloni di slavina e coni di deiezione sul lato opposto, mentre il nostro sembra meno soggetto a tali fenomeni.
Il bosco è composto principalmente da abeti bianchi, faggi, aceri di monte e sorbi, più in alto anche da abeti rossi. Molte di queste specie evocano l'elevata quantità di precipitazioni di questi monti, influenzata anche nella distribuzione annuale dal vicino mar Mediterraneo. La copertura arborea non è continua, ma alternata a radure. Ad ogni modo, i raggi del sole sono ben lungi dal raggiungerci, per la profondità del vallone. Più in alto i larici prendono il sopravvento.
Una volta, da qualche parte quaggiù, esisteva una fonte fresca e attraente, ma velenosa per i sali di rame disciolti. Un apposito cartello avvertiva del pericolo l'ignaro viaggiatore assetato. Fu sepolta dalla costruzione della strada.
Il sole fa capolino in cima al pendio, ma solo per pochi istanti: poi le nuvole lo ricoprono. In quota soffia un forte vento, che le fa apparire e sparire rapide dietro i monti, anche più della vcelebrità per un post su Tik Tok. Soprattutto nel corso della mattina, le vedremo addensarsi e dissolversi senza tregua. Gli scrosci di pioggia non saranno però che brevi e fiacchi, da farci indossare solo il coprizaino. Il loro effetto principale sarà lasciare uno straterello di sabbia sahariana sulla mia auto. Il terreno resterà invece riarso e polveroso: a fine gita i miei scarponi saranno ricoperti da una patina chiara e impalpabile. L'implacabile siccità di quest'anno da qui a meno di un mese costringerà molti comuni montani del cuneese a ricorrere alle autobotti. La precedente risale solo al 2017 ed era culminata in autunno con terribili roghi.
La pista termina al torrente. Lo superiamo su massi e seguiamo un sentiero, in ambiente sempre più aperto di cespuglieti e larici sparsi. Ancora più in alto compare qualche cembro. Tra la vegetazione arbustiva si distinguono i mirtilli, che sono belli maturi e succosi. Come un diseredato che raccattava le cicche di Gitanes, prima che si diffondessero i filtri da sigaretta, marciamo con occhio vigile fisso al terreno e con naturalezza ci chiniamo a raspare qualche frutto. I lamponi sono invece ancora molto acerbi.
Raggiungiamo un piano dove il vallone si apre un po', lasciamo una traccia, che da vecchi fili del bestiame sembra diretta a un alpe, raggiungendo un bel pianoro ondulato, rivestito di ginepri e larici. Un poco più sopra, a quota 2050 circa, il mio amico mi implora una pausa. È totalmente fuori allenamento e si sente mancare le forze. L'ho coinvolto in questa gita lunga in quanto non arriva mai al crollo; nonostante pesi quasi 100 kg, in passato ha salito la normale del Monviso praticamente in solitaria, perché gli altri del gruppo erano giovani atletici e l'avano mollato indietro. Ci fermiamo, mangiamo un po' di frutta e beviamo il caffè, che durante i periodi di chiusure pandemiche ho preso l'abitudine di portare con me. Lui invece porta una fiaschetta di grappa, che però a me non piace.
Riprese le forze, superiamo l'ultima ora di salita, tra larici sempre più radi, rododendri, cordoni morenici e bei pianori fioriti: di oggi ricorderò soprattutto i tanti garofani rossi, dai grandi epilobi a quelli quasi rasoterra, mi sembra Dianthus pavonius, una specie subendemica delle Alpi meridionali e dei Pirenei.
Al santuario
Al colle ci strapazza un ventaccio, per cui non ci fermiamo a lungo, nonostante il panorama sul vallone di Sant'Anna sia apprezzabile. Il santuario appare minuscolo e lontano. Il sentiero taglia per un considerevole tratto un ripido pendio di rada vegetazione arborea, toccando anche un laghetto alto un palmo, con rigogliosi eriofori e bistorta, e aggirando alcuni cordoni morenici nudi; resta sempre precipite sul profondo vallone al cui fondo corre al strada per il santuario e il colle della Lombarda. Oltrepassati i laghetti, incontriamo qualche persona che vi sale, di età e composizione molto variegate, in genere quasi senza zaino. Prima avevamo visto tre ciclisti solitari. Il sentiero è sempre buono, al massimo con fondo di ghiaietta un po' scivolosa. Solo subito oltre il colle in un punto una frana l'ha cancellato e il taglio che lo sostituisce è molto ripido e ha un fondo detritico abbastanza scivoloso. Oltrepassiamo dei rii smunti.
Al santuario c'è meno gente di quanto pensassi, equamente distribuita tra i vari punti di attrazione. La chiesa, il cui pavimento è in salita verso l'altare, è popolata da curiosi come noi, oltre che dal personale del santuario intento ad armeggiare attorno all'altare. Facciamo un giro ad ammirare gli ex-voto appesi alle pareti, i quadri con cui i fedeli ringraziano per un beneficio ricevuto. Sant'Anna, madre della Madonna, è uno dei personaggi dei vangeli apocrifi che ce l'ha fatta, entrando nel culto cattolico. L'inclusione nel calendario dei santi avvenne nel 1584, per qualche secolo persino come festa di precetto, ma chiese e culto risalivano già ai primi secoli della cristianità, tanto in oriente quanto in occidente. I racconti sul suo concepimento sono mutuati da storie sia ebraiche che greche e sono persino più leggendari di quelli della figlia, come ella una sorta di dea madre asessuata. La santa ha vari patronati, di origine non sempre identificabile, ma qui il più sentito è appunto quello della famiglia, che le è più connaturato.
I quadri più recenti sono quasi tutti di gente scampata ad incidenti stradali. I cuneesi vivono dispersi tra molti paesi, senza un vero centro; “sette sorelle” sono dette le città più popolose della provincia, con notazione mutuata dalla divisione dell'impero petrolifero di Rockfeller. Esiste inoltre un'occupazione capillare del territorio, fatta di centri commerciali e industriali sparpagliati a macchia d'olio, a volte più estesi del paese a cui afferiscono. Vi girano su strade extraurbane adatte alla velocità, per cui il tasso di mortalità stradale è parecchio elevato, anche se non da primato. I vecchi torinesi raccontavano vari aneddoti dispregiativi sui cuneesi alla guida, risalenti a quando questa era una zona rurale arretrata in rapporto al centro industriale: il più diffuso era sul perché tenessero le luci accese di giorno, reso obsoleto dalla riforma Lunardi del 2002. Mio padre me l'avrà raccontato decine di volte, ma io ve lo risparmio.
Una volta, invece ben diverse erano le grazie che la santa elargiva: oltre a quelle contro la peste, epidemie varie e malattie allora incurabili, ritornano con frequenza quelle contro gli incendi. Oltre che della legna per le strutture interne, in questa valle dove mancano gli gneiss, in passato si faceva ampio uso della paglia di segale per fabbricare i tetti. È un ottimo materiale, leggero e in grado di durante quarant'anni, ma facilmente combustibile. Oggi, venuta meno l'agricoltura di montagna, i tetti sono in lamiera, come in certe zone delle Alpi francesi, e conferiscono un aspetto un po' desolato ai paesi.
Quanto all'edificio ecclesiastico, una cappella con annesso ospedale per viandanti, pare risalire al tardo Medioevo. Questa funzione è oggi quasi completamente venuta meno, perché auto e treno hanno completamente rivoluzionato i modi di attraversamento dei monti. Non restano che i viandanti della GTA, una goccia nel mare dei turisti che salgono fin qui in giornata. Don Meyranesio, parroco di Sambuco, cita atti del XII secolo, ma egli sfornò più documenti antichi che nutelle la Ferrero.
Una storia riportata in loco riferisce la narrazione fondativa di un'apparizione della santa a una pastorella, mentre un opuscolo edificante del primo Novecento parlava di viandanti. Di sicuro il masso, dove tale apparizione è ambientata, spicca nettamente nei dintorni spogli ed è di per sé un luogo che si presta ad evocare il sacro o comunque l'insolito, il famoso genius loci del santuario citato al principio del racconto.
Una chiesa molto modesta, detta di santa Maria, nei pressi del colle allora chiamato di Brasca, compare negli statuti di Vinadio del XV secolo, quindi al volgere del secolo successivo diventa di sant'Anna, anche se il primo nome non scomparve ancora per qualche tempo. Una chiesa più sontuosa risale alla fine dei Seicento. Nel frattempo erano arrivate le vere reliquie di sant'Anna, donate dalla comunità di Aisone, dopo che nel Cinquecento dei muratori addetti all'edificio avevano proposto alla comunità una scatola con reliquie anonime, che affermavano di aver trovato in loco. L'edificio attuale risale alle ricostruzioni effettuate dopo la Rivoluzione francese, quando fu coinvolto negli scontri, usato come base dai francesi e risultò pressoché raso al suolo.
Rabboccata la borraccia alla fontana del piazzale di fronte alla facciata, dopo che il mio amico ha preso una Menabrea come aperitivo, proseguiamo. Nel parcheggio vari camperisti hanno apparecchiato la tavola accanto ai loro mezzi. Non abbiamo intenzione di imitarli e siamo in cerca di un posto più tranquillo e bucolico dove pranzare. Mentre il cielo si oscura a scarica qualche goccia, oltrepassiamo la roccia dove la tradizione colloca l'apparizione, attorno a cui sono raccolti dei fedeli in preghiera. Incrociamo non poca gente che rientra: è molto popolare un breve giro tra i laghi della zona, in genere su mulattiere militari, in parte in Francia. Il fatto che la non breve salita al prossimo colle si svolga su una regolare mulattiera militare è apprezzato dal mio amico, che sta spremendo le ultime energie.
Raggiungiamo il lago di Sant'Anna e ci fermiamo a pranzare quasi sul bordo del sentiero, per non imporgli dislivello supplementare. Transita una ragguardevole quantità di gente, generalmente sulla via del rientro nonostante siano appena le 14, non di rado accompagnata da cani di ogni razza immaginabile. Il lago increspato dal vento è circondato da una bastionata rocciosa con un bel picco. Il livello dell'acqua è chiaramente sotto la media; il piccolo laghetto che s'incontra poco prima di arrivarci, dove una volta avevo fotografato il riflesso di punta Maladecia a stagione più avanzata, è ridotto a una pozzanghera rocciosa.
Per dossi prativi fioriti risaliamo al colle, continuando a incrociare una certa folla. I pastori hanno tirato dei fili elettrici, lasciando un passaggio sul sentiero. Seguiamo con fedeltà filologica la mulattiera, evitando ogni taglio. Il panorama si amplia a mano a mano, offrendoci una visione aerea dei laghi.
Il vallone di Tesina
Finché d'improvviso al colle si mostra il vallone di Tesina, completamente diverso da quelli visti finora. Subito c'è un netto salto, con ammassi pietrosi e rocce montonate, che s'acquieta in un pianoro erboso lontano. Oltre, il vallone risulta nascosto, ma si capisce che al termine del piano c'è un ulteriore salto vallivo. Al colle, dietro una roccia al riparo dal forte vento, ci sono un ragazzo e la consorte incinta, che discettano se sia il caso di proseguire nel giro dei laghi, lungo una mulattiera militare scavata nella roccia. Ci sarebbe da piantare la bandiera sulla cima di Tesina, neanche 100 m più in alto, ma ovviamente il mio amico ne ha a basta. Si fa invece affascinare dai licheni color giallo brillante che proliferano su uno spuntone di roccia.
Il primo tratto di discesa è molto aereo, sospesi come siamo sul sottostante piano. A bordo sentiero, c'è prima un gruppetto di cembri e poi un singolo esemplare monumentale, davvero imponente, soprattutto considerata la quota di 2300 m a cui si trova, che comunque non è poi così eccezionale per la specie: nel bosco dell'Alevè è segnalato un esemplare a quasi 3000 m.
Al pianoro incrociamo prima due italiane e poi due francesi, tutti con coprizaino o mantellina. Il letto del torrente è asciutto. Con percorso poco intuitivo, su buona traccia superiamo un dosso e ci affacciamo sul successivo gradino vallivo, in un lariceto non fitto e tra torrioni rocciosi. Prima del pianoro sottostante, facciamo merenda su dei sassi con una torta di mirtilli e dando fondo al caffè del thermos; il mio amico si assopisce per qualche minuto. Alle nostre spalle c'è un fotogenico picco di roccia incurvata.
Attraversiamo quindi il piano di Tesina, tra folto Rumex alpinus e marmotte in fuga. Oltrepassiamo capanna Tesina, rifatta con materiali moderni, e raggiungiamo il fondo del piano tra folte fioriture di bistorta. Entriamo nel bosco, in cui rimarremo fino alla base el vallone, che ora si restringe e infossa. Dapprima prevalgono i larici, con ancora qualche cembro, quindi diventano più frequenti gli abeti rossi, i sorbi e i una specie cespugliosa che inizialmente non riconosco, preponderante negli impluvi umidi. Ne fotografo le foglie, che mi sembrano familiari, per identificarla con l'app apposita e intanto mi accorgo che è una leguminosa. Dopo dieci minuti, finalmente il neurone si attiva dallo stand-by e, discutendo con lui come Homer, concludo che le mie magre conoscenze botaniche sono state messe a dura prova da comunissimi maggiociondoli.
Più in basso, dove abeti bianchi e faggi diventano prevalenti, troviamo il bivio per la cascata della Marina. Il mio amico non è entusiasta della proposta di visita, perché teme di dover risalire, ma gli mostro che sulla carta il sentiero sembra proseguire fino al fondovalle. Proseguiamo in traverso su ripido pendio, sentendo lo scroscio più in basso di noi, fino a un secondo bivio, dove imbocchiamo la traccia che, più che scendere, precipita a valle. Ci andiamo ad affacciare sulla cascata: il torrente con una curva sbuca da una salto, in un fitto bosco di abeti, e si tuffa in una piccola pozza sbarrata anche da alcuni tronchi, per poi proseguire con rapide e cascate minori. Scattiamo le foto di rito dal punto di vista migliore.
«Speriamo che il sentiero porti davvero da qualche parte, perché se dobbiamo risalire…», commentiamo a questo punto: infatti il sentiero rotola a valle sempre più precipite. Dove la valle spiana e il torrente esce dalla gola spumeggiante, per scorrere invece placido e trasparente tra pietre, vediamo di lontano delle auto e ci imbattiamo in campeggiatori: siamo salvi. Imbocchiamo una pista militare, oltrepassiamo dei prati con arnie e raggiungiamo la strada diretta a San Bernolfo.
In alternativa alla strada, c'è una pista erbosa indicata, credo la vecchia militare, che corre un po' a monte e un po' a valle dell'asfalto. Subito ci si para dinnanzi un ponte coperto di lastre metalliche e circondato da filo. Facciamo per aggirarlo, ma un pastore ci spiega che l'hanno isolato per le mucche, mentre una persona «dovrebbe reggerla». Restiamo fino all'ultimo sulla pista, evitando l'asfalto, dove c'è un certo andirivieni di auto, ma che sarebbe più pianeggiante. «Ma non potremmo fare la strada?», implora il mio amico all'ennesimo dosso. «No».
Arriviamo strategicamente a ora di cena, ma purtroppo è sabato e non domenica. Stamattina avevamo chiesto in uno dei locali di poter mangiare all'esterno, ma avevano nicchiato. Stasera ci dicono che c'è posto solo dentro e decliniamo. Nell'altro locale non hanno posto. Il mio amico si consolerà con uno schifezzaio urbano, io con una pizza estratta dai recessi del freezer.
Per approfondire
- A. Cattabiani, Santi d'Italia, Milano 2018
- Le Chavalier V. de Cessole, A travers le Alpes Maritimes, Nice 1896
- N. Demarchi, Le pèlerinage aujourd'hui: éléments ethnographiques sur la fete de Saint Besse, AAVV, HERTZ un homme, un culte et la naissance de l'ethnologie alpine, 2013
- J. MacClancy and R. Parkin, Revitalization or Continuity in European Ritual? The Case of San Bessu, The Journal of the Royal Anthropological Institute, vol. 3, no. 1, 1997, pp. 61–78
- B. Marchisio, Le terme di Valdieri e di Vinadio : cenni geologic : origine, termalità e mineralizzazione delle sorgenti, Torino 1915
- Can. Sac. A. M. Riberi, Memorie del santuario di Sant'Anna di Vinadio, Torino 1904
- Le Chavalier V. de Cessole, A travers le Alpes Maritimes, Nice 1896