Monte Scaletta 2840 m
Valle Maira
28 agosto
In un baleno
Non appena mi siedo e apro lo zaino per cercare uno spuntino, il gregge di capre che sentivo scampanellare da un po' sbuca da dietro il dosso. Quella che sembra guidarle incrocia il mio sguardo e punta decisa verso di me. Pochi secondi dopo il suo muso già fruga dentro il sacco. Non avrà neanche fatto in tempo a sentire l'odore: sarà andata sul sicuro memore delle esperienze passate. Devo chiuderlo, prima che cominci a triturare qualche sacchetto, e togliermi da qui. «Ritiro la proposta di pausa», dico al mio compagno di escursione, che nel frattempo era andato a esplorare i resti del ricovero militare dell'Escalon
Diario di viaggio
Non appena mi siedo e apro lo zaino per cercare uno spuntino, il gregge di capre che sentivo scampanellare da un po' sbuca da dietro il dosso. Quella che sembra guidarle incrocia il mio sguardo e punta decisa verso di me. Pochi secondi dopo il suo muso già fruga dentro il sacco. Non avrà neanche fatto in tempo a sentire l'odore: sarà andata sul sicuro memore delle esperienze passate. Devo chiuderlo, prima che cominci a triturare qualche sacchetto, e togliermi da qui. «Ritiro la proposta di pausa», dico al mio compagno di escursione, che nel frattempo era andato a esplorare i resti del ricovero militare dell'Escalon.
Lo spuntino lo facciamo un quarto d'ora più a monte, dove il tracciato militare spiana, mentre s'insinua nel vallone che sale al colletto Vittorio. Più che altro però beviamo: nonostante manchino pochi giorni a settembre, al cielo limpido quasi autunnale non fa compagnia un'aria frizzante. Dal colletto il sentiero abbandona il tracciato militare e s'impenna fino a un canalone di terra dura e secca, dove gli scarponi fanno a malapena aderenza. Dobbiamo issarci a forza di braccia, grazie alle provvidenziali catene del sentiero Roberto Cavallero. D'altronde oggi, quale terra non è dura e secca? Non piove ormai da chissà quanto. Di polvere se ne accumulerà parecchia, sui nostri scarponi e sui nostri calzoni. A Prato Ciorliero alcuni larici stanno seccando, come hanno già fatto tutti i prati solatii che vediamo oltre la valle. Mi sembrerà incredibile trovare piantine verdi sugli aridi macereti verso la cima.
Con un traverso sopra un desolato vallone di detriti, in pochi passi siamo al bivacco Due Valli, una calamita per tutti i passanti desiderosi di un po' di riposo. Il mio amico affacciandosi all'interno si fa un segno della croce alla maniera di Tuco. Qui pranziamo e ci fermiamo oltre un'ora, per permettergli di smaltire l'insonnia delle soffocanti notti padane.
La traccia prosegue in diagonale e va a sparire in mezzo ai picchi della cresta, per poi serpeggiarvi sopra nel macereto. Qualche punto esposto e franoso del primo traverso ci richiede cautela e passo fermo. La luce è abbacinante tra i sassi chiari, nonostante gli occhiali da sole. I colori che verranno fuori in foto saranno quasi una sorpresa, perché i ricordi saranno solo della luce intensa e slavata dei 3000.
Dove il sentiero scorre su un'addomesticata dorsale in mezzo ai picchi, incrociamo un gruppo ligure, che s'incolonna in un'ordinata coda nel punto strategico per la foto. A zig-zag guadagniamo ancora quota e vediamo ormai lontana la traccia che si diparte dal colle Peroni. Raggiungiamo lo spartiacque e lo bordeggiamo su cenge a volte attrezzate, sospese su abissi. Gli occhi sono fissi sui piedi; mi fermo su terreno ampio e solido ogni qualvolta voglio guardare lontano, verso i laghi di Roburent sotto di noi o il Monviso tra le nubi. Con un po' di meditazione sulla tecnica di scalata, troviamo il modo di risalire un gradone di roccia attrezzato con catena. Scendiamo infine all'avvallamento prima della cima, dove ritroviamo una coppia già vista a Viviere, che percorre il nostro giro in verso opposto. Con loro riflettiamo sulla perdita della memoria delle tragedie, a cui ha portato la civiltà di poche generazioni or sono che ha costruito queste opere. Oggi noi ne beneficiamo come turisti, nella lunga pace sorta su quelle ceneri, ma rischiamo di ripetere i medesimi errori. In cima non c'è un quaderno su cui lasciare i nostri nomi e questi nostri pensieri, ma solo una croce e triste cemento militare brillato a fine guerra. Oltre al panorama sconfinato.
Dalla vetta la traccia scende tortuosa e sghijosa verso il colle, tra brecciolino, trincee e roccette. Prima dell'imbocco del tunnel si dilegua verso il basso; per poco non notiamo la tacca rossoblu che ci manda all'ingresso. All'uscita finalmente vediamo la mulattiera sotto di noi: ancora pochi passi accorti e ci siamo. «Terra, terra!».
Tra morene e pendii il sole non picchia più ma scalda ancora, fuori dalle ombre delle vette che vanno allungandosi. Nei boschi a fondovalle anche l'ombra è tiepida e solo una pausa birraiola a Viviere ci offre un po' di frescura. Una signora, che non si fida del marito, ci chiede se oltre i monti ci siano i laghi di Roburent. La bella mulattiera, lastricata e bordata di frassini per gli anni magri, ci conduce dolcemente a Chialvetta. La vediamo per la prima volta, perché stamattina la cartina finta del mio compagno di gita aveva cercato di portarmi verso il colle Soleglio Bue. Solo una provvidenziale bretella ci aveva ricondotto a Pratorotondo. All'arrivo il sole non illumina che le vette: è l'ora che volge al disio i camminanti e li conduce in osteria a condividere con i tedeschi il menu GTA.
Per approfondire
- Giada, Anello del Monte Scaletta, Gulliver