La bassa montagna di Fassa
Riviera di Levante
8 febbraio
In un baleno
Nella valletta del rio Sori, durante l’Età Moderna lì si lambivano e intersecavano, confliggendo e collaborando, l’agricoltura di villa della costa ligure, con i suoi prodotti da clima mediterraneo umido, e i pascoli invernali della pastorizia ovina transumante appenninica, fondamentale per la fornitura di latticini alla città di Genova.
L'incontro-scontro ha prodotto delle architetture e un'organizzazione del territorio molto originali, osservabili sul campo ancora oggi, dopo quasi un secolo dall'abbandono delle ultime pratiche agro-pastorali, peraltro già molto diverse da quelle che l’hanno modellata, estintesi già nel corso dell’Ottocento
Diario di viaggio
alla parte di Levante se vi aggionge l'alta montagna di Fassa, la quale facendo arco, e discostandosi alquanto dal mare finisce i capo di monti […] & seguita la villa nominata Sori, quale ha una valletta per la quale discorre un fiumicello in longhezza di quattro miglia, quale ha origine nel monte di fassia sopranominato la valletta e bene habitataA. Giustiniani, Descrittione della Lyguria, Genova 1537
I terrazzani [di Canepa] alla perizia dell’agricoltura uniscono quell’amore alla fatica, per cui si distingue il più dei villici della Liguria: e sebbene il loro territorio non sia molto riguardevole per naturale feracità, ciò non ostante, mercè l’opera loro instancabile, è assai produttivo di ogni maniera di cereali, di frutta squisite e di erbaggiG. Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, vol. III, Torino 1836
Maccaja: s. f. Tempo umido, Tempo grasso. Aria umida
G. Casaccia, Dizionario genovese-italiano, Genova 1876
Preambolo
In un riposo infrasettimanale di un giovedì grasso, riprendo dopo qualche anno i viaggi invernali nel Levante ligure con il treno delle 5:30. In mezzo ci sono stati i domicili coatti per la pandemia e un infortunio in itinere, che mi ha tenuto fermo l'inverno scorso. Ieri mi sono svegliato alle solite 6:30 e ho trovato durissimo uscire dalle lenzuola, per cui sono un po' preoccupato per la sveglia alle 4:00: temo un tantinello che prevalga la voglia di zittirla e girarmi dall'altra parte, così come che l’invecchiamento intercorso nel frattempo mi faccia patire la levataccia il giorno dopo al lavoro, ma non sarà così. Per la verità, trovo gravosa solo l’uscita dalle coperte, perché, una volta riuscita, mi metto in moto senza inerzie, ma ogni volta ho dimenticato come sia solo questione di un attimo di slancio e devo pertanto richiamare tutte le mie energie mentali per superare l’ostacolo. Senza contare che, una volta sui sentieri, non rimpiango neanche un po’ il sonno perso.
Voglio visitare la valletta del rio Sori, che in passato ho solo osservato distrattamente dall’alto, poiché durante l’Età Moderna lì si lambivano e intersecavano, confliggendo e collaborando, l’agricoltura di villa della costa ligure, con i suoi prodotti da clima mediterraneo umido, e la pastorizia ovina transumante appenninica, fondamentale per la fornitura di latticini alla città di Genova, che nel medesimo luogo aveva i pascoli invernali (in alta val Trebbia erano gli estivi). L'incontro-scontro ha prodotto delle architetture e un'organizzazione del territorio molto originali, osservabili sul campo ancora oggi, dopo quasi un secolo dall'abbandono delle ultime pratiche agro-pastorali, peraltro già molto diverse da quelle che l’hanno modellata, estintesi già nel corso dell’Ottocento.
Questa articolata forma produttiva è dettagliatamente descritta ne Dal documento al terreno di Diego Moreno, che saccheggerò ampiamente ogni che incontrerò uno dei suoi retaggi. Il libro in realtà è un manuale di ricerca storica in ambito rurale, in cui l’allora professore dell’università di Genova illustra la sua ricetta per lo studio dei manufatti e degli ecofatti di una civiltà agricola passata, facendo interagire proficuamente geografia, documenti scritti, scavo archeologico ed ecologia storica, non limitandosi a sommare i risultati, ma adoperando quelli di una disciplina per interrogare le altre. Tuttavia nel libro questa zona è utilizzata nei primi due capitoli come caso di studio per giungere ai concetti teorici, introducendo nel discorso numerose informazioni su come era gestita la zona e sugli effetti prodotti sul paesaggio. Me lo segnalarono e lo lessi anni fa, sfruttando il fatto che per imperscrutabili ragioni una copia è conservata nella biblioteca del mio quartiere dormitorio in oltregiogo, senza comprenderlo a fondo; recentemente ho reperito una copia della nuova edizione, pubblicata in occasione del pensionamento del professore, e l’ho riletta con maggior cognizione di causa, grazie alle nozioni apprese nel frattempo.
Il viaggio scorre liscio e dedicato alla lettura di un saggio, che dovrebbe spiegarmi in chiave darwiniana perché sono tanto disadattato da ideare una escursione senza panorami a perdita d’occhio, in un giorno di nuvole basse marittime. Sotto un cielo più sgombro del previsto, almeno sul mare, scendo alla stazione successiva a quella del paesino di Sant’Ilario, già dismessa all’epoca della canzone: invano cerco di individuarla, per farmi un segno della croce come atto di devozione, non conoscendo modalità secolari alternative alla cattolica. Per quieto vivere coniugale non specifico se la devozione è diretta all’autore, alla protagonista o alla fidanzata, che a due anni la cantava a squarciagola.
Faccio una seconda colazione con una focaccia in una panetteria con macchina del caffè, che viene incontro alle esigenze del ligure, che vuole inzuppare la focaccia nel cappuccino, ma non è disposto a pagare la maggiorazione imposta dai bar ai prodotti da forno. Poi ovviamente prendo dell'altra focaccia per il viaggio, come unico nutrimento odierno oltre a delle arance. Se abitassi qui e lo facessi tutte le domeniche sarei già schiattato tra atroci sofferenze, ma una tantum posso cedere alla golosità. La focaccia infatti è unta al di là del bene e del male, tanto che vedo i liguri in coda a me molto puntigliosi nel chiedere il bordo oppure una fetta ben cotta. Quindi vado a espletare i miei bisogni in un bagno pubblico, che non ha il sapone, né la carta igienica, né le salviette, però in Italia merita una citazione per il considerevole fatto di esistere e di essere addirittura pulito.
Ho localizzato la focacceria seguendo l'odore di olio e grano, mentre tra i carrugi stento a sentire quello del mare nonostante il vento spiri da sud. Arrivo nei pressi della riva e finalmente sfonda l’imene delle mie narici, grazie agli spruzzi di qualche onda alta almeno un metro, un metro e mezzo. Ho accuratamente scelto apposta un giorno con questo clima uggioso di cielo cupo per i venti marini, che trascinano l’umidità a condensare su per le montagne (i liguri lo chiamano maccaja) e il mare mosso, perché lo preferisco ai sole splendente con mare piatto.
La montagna di Fassa
Dopo essere sceso alla marina con il suo vecchio ponte in pietra a schiena d’asino sul piccolo rio, relitto d’antan tra condomini da speculazione vacanziera, seguendo una vecchia via trovo un'indicazione per San Bernardo, che mi dirige per una crosa dapprima in un tunnel sotto la ferrovia, quindi sopra l'Aurelia su un sovrappasso pedonale, su cui trovo le indicazioni del sentiero marcato con punto e linea rossi per il Monte Bado, che devo seguire fino alla Santa Croce. Passo tra casette con i giardini con abbondanti fioriture, tra cui spiccano le mimose, agrumi sugli alberi e scarse cacche di cane, grazie a efficaci inni alla civiltà igienica. Aranci e limoni, oggi ridotti all’impiego ornamentale, arrivarono qui a partire dal tardo Medioevo grazie ai contatti dei genovesi con il Mediterraneo orientale, come produzione orientata all’esportazione. Era una tipica coltivazione delle ville costiere, perché i muri servivano tanto alla protezione dai danni del bestiame, quanto alla difesa dai venti freddi. Sull'uscio di una casa coccolo un canetto lanoso molto affettuoso, che mi viene incontro e fa le feste, rammaricandosi che debba proseguire. Terminate le case, iniziano gli oliveti abbandonati e recuperati dalla macchia mediterranea, mentre la crosa è sostituita da una via selciata in pietra calcarea. Verso l'interno il cielo si fa più cupo e comincia anche a piovigginare.
Raggiungo la frazione San Bernardo, dove ci sono un po' di auto parcheggiate, un circolo operaio ricordo di quando Genova era una grande città industriale, qualche rumore di attività umana. Lo sguardo domina il golfo Paradiso, che mi affretto a fotografare con il cellulare a beneficio di chi è rimasto a casa, nonostante l’esplosione luminosa dell’ostico controluce filtrato da corposi cumuli scuri. Alla chiesetta subito non riesco a scoprire se il santo sia San Bernardo da Mentone o qualche altro santo con lo stesso nome, ma poco dopo ho la conferma del primo grazie all’affresco di una casa, dove è riconoscibile per un diavolo schiacciato dal suo calcagno: a due passi dalla costa è davvero curiosa la presenza del santo della montagna per eccellenza, che nel Medioevo rese sicuro il transito sui passi alpini oggi al lui stesso intitolati e che fu consacrato patrono dei suoi colleghi dal papa alpinista nel Novecento.
Passo accanto ad una grande casa tinta con colori vivaci, seppure gli affreschi siano abbastanza consunti. Alla mia sinistra vedo le montagne con le fasce di calcare, che nella cinquecentesca Descrittione del Giustiniani davano il nome al gruppo montuoso su cui sto camminando, oggi limitato a una singola cima a est del centro genovese, facilmente riconoscibile per le numerose antenne della vetta.
Il verde della vegetazione dei pini è così cupo che subito penso che ci sia stato un incendio, ma poi, osservando meglio, riconosco il colore corretto, solo veramente molto molto scuro. Questi pini sono il prodotto dei rimboschimenti voluti dalla forestale fascista, che qui in Liguria ebbero il fulcro in val Lerone.
Nel corso dell’Ottocento, per nutrire la popolazione italiana sempre crescente (in quel secolo raddoppiò), il principale stratagemma adottato fu di mettere a coltura ogni terreno possibile, anche quelli montani più marginali, come testimoniano i primi dagherrotipi. Inoltre nella Grande Guerra il legname si era rivelato un importante materiale da costruzione, delle trincee, delle teleferiche, delle baracche: l’Italia ne aveva una produzione insufficiente, tanto che moltissimi ettari di bosco erano stati compromessi per i rifornimenti, oltre e a tutti quelli danneggiati dagli scontri e dalle infezioni parassitiche sul legno morto, come è capitato recentemente con gli alberi abbattuti in Cadore dalla tempesta Vaia.
Come conseguenza dei disboscamenti, era aumentato molto il dissesto idrogeologico, “regime idrico disordinato” era detto al tempo, sotto forma di frane e colate di fango fino al piano. Questo era visto anche come una minaccia per le nascenti dighe, come appunto quella abortita della val Lerone, con le quali si sperava di rendere l’Italia indipendente dal carbone importato da paesi potenzialmente nemici, oltre che per l’approvvigionamento idrico e la sicurezza idrogeologica delle pianure.
Il regime fascista adottò perciò una visione secondo cui le montagne dovevano essere appunto ordinate, tramite il controllo centrale sulla popolazione e le sue attività, oltre che colossali opere di rimboschimento e bonifica: la forestale fu militarizzata e inquadrata nelle Camicie Nere, la libertà di migrare fu limitata, il pascolo caprino dannoso per i boschi fu draconianamente vietato, anche se su questo punto il regime dovette alla fine fare concessioni ai montanari. La rivista della forestale mostra ordinate schiere di montanari felici, intenti ai lavori di ripristino, sebbene questi fossero fatti contro i loro interessi, ma per contro è oculatamente silente sulle dighe, che annientarono intere comunità sommergendo i pascoli.
Sia la montagna che la popolazione erano redente dall’opera fascista, che andava oltre il semplice effetto fisico, come mostrano anche i boschi delle Rimembranza per i caduti di guerra e dell’Impero. Lo stesso montanaro avrebbe imparato ad amare i boschi e a restare nel luogo natio, beneficiando della filiera del legno, più remunerativa dell’agricoltura, arrestando il processo di spopolamento allora in inarrestabile espansione, una grave minaccia dal momento che i montanari si erano rivelati soldati docili e obbedienti.
Erano del tutto assenti invece le considerazioni per gli aspetti naturalistici, ovvero riguardo alla vegetazione più adatta ai vari ambienti e climi da rimboschire, per non parlare del bosco come ecosistema, un’idea affatto estranea al sentire all’epoca: il bosco era unicamente considerato per i suoi servizi alla protezione del territorio o per le necessità industriali dei fruitori del legname: la loro filosofia non contemplava nulla al di fuori degli interessi antropici. Viste le necessità impellenti, molte specie furono pertanto selezionate per il rapido accrescimento o la facilità di attecchimento: un esempio assai emblematico è l’impianto del pino nero austriaco anche in habitat mediterranei o comunque aridi, con il risultato che oggi è molto soggetto all’attacco della processionaria.
A monte della frazione c'è una curiosa costruzione rurale in pietra, con una specie di torretta a due piani, inserita all’interno di un oliveto cintato da una rete metallica e tenuto; sulla porta in acciaio della costruzione qualcuno ha appiccicato degli adesivi del Genoa calcio. Costeggiando la recinzione, incontro e scambio un saluto con una signora con la faccia da vecchia nobildonna brutta e troppo rifatta, pesantemente truccata, accompagnata da un labrador color cappuccino, pasciuto e pacioso. Poco più avanti, sul lato mare c'è una vecchia costruzione in parte diroccata, con accanto una moderna rifatta rivestita di pietre, ma con evidente intento estetico, perché le pietre sono accuratamente disposte in un motivo regolare. La mulattiera è in parte lastricata con ciappe, il termine locale per le lastre lapidee, altrove dette lose o piode, ma conserva ancora in alcuni punti la vecchia conformazione di pietre messe a sapello, infisse cioè con il lato lungo ortogonale al terreno, in modo che spunti leggermente (il termine significa più o meno “pietra d’inciampo”) . Il fondo diventa naturale, in terra battuta alternato a pietre calcaree, oltre il bivio per un sentiero in arrivo da Pieve Ligure.
La vegetazione arbustiva presenta le tipiche piante della macchia mediterranea, soprattutto eriche, ma rade. In passato la zona era tenuta a prato, perché sottoposta al pascolo invernale delle pecore transumanti. Il secolare sfruttamento ha prodotto effetti permanenti sul territorio, perché anche dopo l’abbandono non si è riformato il bosco termofilo, che sarebbe il climax di questo ambiente, ma è rimasto prato con radi cespugli. Il disboscamento ha infatti prodotto erosione del terreno, che si presenta con strato terroso sottile e rocce affioranti, per cui la vegetazione non ha potuto evolversi oltre la forma erbacea. L’erosione del suolo è stata prodotta da una combinazione tra l’uso del fuoco e il pascolo intenso e duraturo. Al proposito, il disboscamento con incendi per denudare i monti e creare pascolo era così esteso e diffuso in Liguria sin dai tempi antichi, che il termine relativo, debbio, è passato al latino dalla lingua della popolazione preromana. Supero dall'alto una prima rudimentale casetta in pietra a secco, che però non vado a vedere, verso cui, su una traccia sottostante parallela alla mia, sta arrivando un signore anziano con un piccolo cane tenuto al guinzaglio e dotato di campanellina. Più avanti sulla destra vedo una traccia che punta a un consistente muretto a secco.
Seguendola trovo una grande piazzola circondata da pini domestici molto grandi, accanto a cui c'è un oliveto una casetta ancora cintata e dotata di serbatoio di GPL. Delle vecchie targhe lapidee, a malapena leggibili, invitano al rispetto degli alberi: sono con tutta probabilità indirizzate ai pastori che qui portavano le pecore a svernare. Il loro letame e la loro orina erano considerate molto fertilizzanti, grasse nel gergo dei contadini, ma il loro morso era anche molto temuto. A loro beneficio, durante il riposo dei campi, non era lasciata crescere erba qualsiasi, ma era seminata la mistura, un insieme di cereali e legumi minori (come ha celebre herbilia di san Colombano) gradito alle pecore.
Tuttavia il loro soggiorno non fu ostacolato solo dai timori dei contadini, ma ben più concretamente dai processi economici e produttivi del nascente capitalismo settecentesco: con la crisi dei commerci marittimi della Serenissima, l’aristocrazia sempre di più investì i capitali nelle ville, le aziende agricole del tempo, e pose sotto attacco i diritti consuetudinari di pascolo, in quanto contrastavano con la pratica di mantenere le vacche in stabulazione nelle ville, per sfruttarne i latticini e la carne a fini alimentari e il letame come fertilizzante. Queste vacche richiedevano infatti che i prati fossero sfalciati per ottenere fieno per il loro nutrimento e quindi il pascolo invernale fu osteggiato, in quanto lo sottraeva. In particolare, la fascia immediatamente superiore alle colture sempreverdi, dove mi trovo ora, era la più adatta a produrre fieno: i dati del Casalis mostrano come la proporzione tra bovini e ovini cala drasticamente salendo dai paesi costieri a Uscio, alla testata della valletta. Tra l’altro tali colture in questa zona arrivano una quota massima inferiore ad altre zone liguri, proprio per l’importanza che in passato ebbe il pascolo.
Infine le riforme forestali ottocentesche identificarono i boschi esclusivamente come riserva di legname, di cui era cresciuto il consumo per il migliorato tenore di vita cittadino e per la nascita dell’industria, con conseguente aumento della pressione antropica e disboscamento. Con i Regolamenti di Carlo Felice e Carlo Alberto le greggi furono espulse definitivamente dai boschi e la pratica della transumanza, con la sua coesistenza di coltura e pascolo, entrò sempre di più in crisi.
L’appropriazione delle terre comuni da parte dei possidenti delle ville entrò anche in collisione con la pratica di coltivare appezzamenti estemporanei nei pascoli, una sorta di rotazione delle colture a lungo periodo, che permetteva la sussistenza alle fasce più povere della popolazione, prive di capitali da investire in terreni, dove creare un sistema di campi strutturato e stabile.
Lungo il sentiero che riprendo il fondo è nuovamente selciato con ciappe: questa cura è indice di un impiego più strutturato della semplice transumanza stagionale, che in questa zona non produce che i rudimentali ricoveri in pietra con copertura a falsa volta noti come caselle, e indica piuttosto la presenza di una via di transito abituale per il commercio con animali da soma. Entroterra e costa avevano produzioni complementari e perciò lo scambio era intenso: sono quelle oggi note come “vie del sale” e percorse dagli escursionisti soprattutto stranieri a fini ricreativi. Non dobbiamo immaginare una singola via trafficata, come capita oggi con le autostrade o le ferrovie, ma semmai un fascio di mulattiere parallele e alternative. Da notare che la via transitava a mezza costa oppure sulla cresta e non sul fondovalle, come fanno invece le carrozzabili e ferrovie ottocentesche su cui ci muoviamo oggi con i mezzi motorizzati. In cresta si è più al sicuro da frane e piene dei torrenti, per cui c’è anche meno bisogno di manutenzione dopo i dissesti per piene.
Questo transito sui monti potrebbe spiegare la presenza di una cappella dedicata a un santo dei viandanti alpini. Il viaggio doveva suscitare timori e preoccupazioni, per cui era necessario chiedere la protezione al dio dedicato, una volta che si lasciava la l’isola di civiltà, per entrare in zone selvagge. La scelta di un santo medievale, non incluso nella Legenda aurea, in vece del più antico e abituale Cristoforo, sembra anche indicare nell’età post-medievale il periodo di questi traffici. A terra ci sono anche oggi delle fatte di mulo o cavallo, che però ormai saranno solamente impiegati a fini ricreativi. Nel panorama compaiono intanto brevemente le antenne del Monte Fasce.
Teriasca, Levà e Canepa
Raggiungo la sella nominata Cramoesi sulla carta e invece su una rudimentale palina con il corrispondente nome dialettale, immancabilmente dotato di x da pronunciare come la j francese di jambon, su cui c’è anche un’indicazione per Teriasca. Questo mi rassicura un poco, perché avevo solo visto il percorso sulla carta, senza sapere se i sentieri fossero ancora tenuti percorribili. Poco distante, su un cocuzzolo della dorsale verso il mare, c'è la cappella del Monte Croce, di cui sono io sono alla stazione 9 della Via Crucis; in origine avrei voluto transitarci, ma le indicazioni mi hanno condotto a saltarla. Mi dirigo invece verso le borgate, scendendo in ambiente di macchia mediterranea. Poco più avanti confluisco su un sentiero più strutturato, che corre lungo una crésta, un muro a secco dotato in cima di lastre disposte a coltello, per impedire le divagazioni delle pecore dai prati ai campi coltivati, che quindi evidentemente cominciavano subito a valle. Del sistema di créste rimangono solo pochi lembi, più per manomissione che per degrado naturale: sono esistite e sono state ripristinate solo fino a quando sono durate le due civiltà a cui servivano da confine. Oggi che sono morte possiamo al massimo conservarne qualche lembo come reperto archeologico a beneficio dei turisti quale sono io, come facciamo con i templi della Magna Grecia, senza più viverli. Non credo sia possibile ripristinare il sistema produttivo, perché esisteva solo in funzione della città di Genova, ovverosia perché vi era un mercato ricco dove vendere i prodotti. Oggi, grazie ai mezzi di trasporto e conservazione moderni, è più economico produrre quei beni in zone orograficamente più accessibili anche se lontane.
Il sentiero imboccato a destra porta a Pieve, dove la via di cui è il prosieguo si chiama ancora via Teriasca. Io mi dirigo in verso opposto. Nei pressi della congiunzione ci sono dei muri a secco lunghi meno di due metri, anche con pietre molto grosse, che vedrò anche più avanti nel corso dell’escursione, ma di cui ignoro la funzione, magari pose su cui deporre momentaneamente il carico durante una sosta, come quelle che si vedono un po’ ovunque nei territori montuosi, o magari chissà che altro. La vegetazione arborea intanto diventa un po' più sviluppata, con anche qualche quercia oltre che i cespugli della macchia mediterranea. Oltre degli estesi terrazzamenti, ritorna il panorama sul mare luccicante per il sole basso, che prima era scomparso creando un ambiente decisamente montano. Dove il sentiero fa uno zig zag, diventano decisamente più ingombranti il nastro di cemento e asfalto dell'autostrada e il conseguente rumore dei veicoli; allo sbocco della galleria sotto i miei piedi c'è poi un campo da calcio accanto a delle serre. Le loro linee rettilinee e definite si staccano nettamente dalle morbide ondulazioni dal verde cupo e uniforme della vegetazione sulle colline circostanti; le loro dimensioni sono comparabili a quelle del rilievo. Moreno, a proposito di usi moderni analoghi del territorio rurale osserva che «nella società europea occidentale il concetto di naturalizzazione/abbandono non ha più alcun senso: l’occupazione delle risorse ambientali della società post-industriale è totale e continua, anche se gli effetti non sono, ovviamente, gli stessi delle precedenti utilizzazioni».
Sotto lo zig zag, sul margine di un oliveto abbandonato, ci sono i ruderi di una casetta da fen, un edificio legato ai lavori stagionali, che stride con la giustapposizione del paesaggio moderno appena descritto, perché è perfettamente mimetizzata nella vegetazione, essendo un semplice puntino rispetto alle dimensioni del rilievo. Trovo il sentiero che vi conduce e vado a dare un'occhiata. È stata utilizzata ancora in decenni relativamente recenti, perché c'è anche della plastica, sotto forma di cassette e tubi, però è tutto chiuso e invaso da ginestra ed altri cespugli mediterranei. È pertanto un po' complicato avvicinarsi sebbene sarebbero ancora praticabili anche le scalette per raggiungere l'oliveto sottostante, solo ravanando un poco. I rustici edifici sono tutti in pietra a secco, con lastre di dimensioni e spessori assai diversificati, con anche un grande architrave: l’indagine archeologica ha mostrato che, mentre per le caselle e le créste si adoperava materiale raccogliticcio, per le casette da fen poteva anche provenire da luoghi lontani, dove la roccia era più adatta.
Più avanti incontro la cappella di San Rocco, dipinta di uno sgargiante viola elettrico. Il nome mi suggeriva una fondazione seicentesca, quando invece ha appena superato i 111 anni e quindi non ha neppure legami con la Spagnola. Penso sia stata edificata nel posto da dove si vedevano sia l’abitato che i campi da cui sono passato, poiché si trova su una dorsale che fa da confine tra le due zone e ne occlude la visione reciproca: infatti da qui compare Teriasca, con le sue casette vivacemente colorate molto molto carine e oltre che vari altri edifici rurali, al margine di terrazzamenti con oliveti ancora tenuti.
Il paese, pur essendo evidentemente concepito per distinguersi dal paesaggio vegetale, non mi provoca quell’effetto di lacerazione che mi trasmettevano invece le architetture odierne osservate in precedenza. Può essere che le geometrie sono più frammentate, perché non c’è un blocco compatto e uniforme, o magari ho solo interiorizzato l’ideologia romantica secondo cui prima della modernità si viveva in armonia con la natura, e la applico inconsciamente ai manufatti.
Cogliendo l’invito del tavolo di legno, mi fermo a mangiare un'arancia e del cioccolato.
Proseguo per una mulattiera lastricata a sapello nei tratti ripidi e bordata di créste; passo da una sorgente, dove bevo più per motivi devozionali che per necessità fisiologica, e successivamente da fasce ben curate con un uliveto curato tenuto. Sono ormai in vista di Teriasca, dove giungo con un ripido sentiero tra canti di galli e battiti di un martello pneumatico. In assenza di indicazioni qualsivoglia, vado alla chiesa dalla facciata a strisce colorate, e da lì, seguendo la cartina OSM, prendo la stradina per il cimitero e poi piego a destra all'uscita delle case, su una mulattiera lastricata a sapello. C'è un vecchio edificio interessante, dove però riesco solo a vedere che il pavimento del primo piano era in legno, perché per il resto è rovinato; poco oltre ce n'è un altro un po' meglio tenuto, ma sprangato, dentro cui non riesco ad affacciarmi. Subito dopo, in corrispondenza di una vasca dell'Acquedotto, c'è un bivio non segnalato, dove prendo a destra sempre seguendo la mappa, per attraversare una zona di fasce abbandonate da tempo immemorabile, come si vede dalla fitta vegetazione invasiva, che ha sostituito gli ulivi per la maggior parte della zona. Passo da una sorgente dove c'era anche una captazione dell'acquedotto, che ora sembra in disuso, e quindi nel tratto successivo, profondamente infossato tra muri, noto con piacere che qualche benefattore viene a tagliare l’abbondante vegetazione invasiva di rovi di e liane. A un ulteriore bivio trovo indicato solo per Teriasca; con il reverse orienteering coadiuvato dalla mappa capisco di dover prendere a destra.
Riesco a buttare l'occhio dentro una casetta, perché una porta si apre: vedo un tavolo con sopra una bottiglia, una cazzuola e un caschetto da giardiniere. L’edificio si trova tra grandi castagni secolari, l’altra grande coltura della zona, dove il clima più fresco non consentiva l’olivicoltura. Il terreno ricco di calcare come questo non è favorevole al castagno, ma le necessità alimentari hanno portato i liguri a piantarlo estensivamente, non essendo possibile praticare la cerealicoltura su questi territori aspri e ombrosi. Il castagno era la coltura per eccellenza dell’Appennino ligure, a cui era devoluta la maggior parte della superficie agricola, l’albero del pane chiamato spesso “albero” per antonomasia nei dialetti. Proseguo tra le due voci di un angioletto, che mi fa sentire un po' in colpa per aver violato quella casetta con la foto, e un diavoletto che mi rimprovera invece di non aver messo mano ai casetti. Sempre tra castagni e casette, raggiungo una dorsale, dove per intanto devo seguire per Case Becco, in cima alla valletta. È quasi mezzogiorno e inizio a temere che il giro sia molto più lungo del preventivato e che quindi forse dovrò scorciare, anche se non ho proprio idea di come.
Raggiungo un bivio dove devo tirare dritto e lasciare la dorsale, seguendo le indicazioni per Levà. È indicato a poco più di mezz’ora, meno di quanto arguissi dalla cartina. Raggiungo quindi una casetta, ai margini di un prato arato dai cinghiali, su una dorsale secondaria, dove passa anche il metanodotto. È la tipica zona dove, grazie a una riduzione della pendenza, era possibile praticare qualche coltivazione in più. Non è un caso se l’arrotondata dorsale valicata al bivio precedente, che digrada dolcemente verso sud, presentasse molteplici insediamenti in cresta o nei pressi.
Da un punto panoramico scema un tantino il mio ottimismo cronologico, perché Levà mi appare separata da una ampia valle con tutte le sue pieghe frammiste. Dopodiché scendo per una zona di macchia mediterranea, che più avanti sembra fosse un castagneto con la sua brava casetta da fen. Retrospettivamente mi sembra strano che, tra tutti questi castagneti, non vi sia neppure un essiccatoio: un botanico che percorse l’Appennino ligure al principio dell’Ottocento, D. Viviani, riferisce che erano essiccate durante l’inverno da un focolare domestico, attorno a cui si riscaldavano anche le persone. Oltrepasso un piccolo rio mentre i campanili si danno il turno a suonare il mezzogiorno; si succedono intanto terrazzamenti, via via più strutturati a mano a mano che mi avvicino al paese. Ho intanto superato l'impluvio più profondo e così riesco ad ammirare il paesaggio attorno al primo tronco di discesa, dall’aspetto selvatico.
Ormai nella zona degli oliveti passo da una casetta diruta, dove c'è ancora del fieno accumulato sul piano superiore, quindi da una ancora abitata dove scatta l'allarme al mio passaggio. Dato il giorno feriale, a Levà è in giro poca gente, tra cui una signora che mi saluta. Durante tutto il giro non ho mai trovato nessun perdigiorno con cui scambiare due chiacchiere. Un cartello su un cancello ne raccomanda la chiusura in plurime lingue, perché i cinghiali non sono ospiti graditi a cena. In paese ci sono sia casette sia in pietra che intonacate con i colori vivaci tipicamente liguri. Seppur fermandomi a fotografare, non presto abbastanza attenzione alle architetture più recenti e vissute e proseguo diretto alla società operaia, dove dovrei trovare l’imbocco del sentiero per Canepa (ci sarebbe anche la più diretta strada, ma voglio fare il purista).
In ripida discesa, prima lastricata poi su fondo naturale, passo per un castagneto molto scavato dai cinghiali in cerca di cibo. Nonostante queste erosioni, l’assenza di segnalazioni e la vaga tracciatura, non è difficile restare sul percorso corretto. Più avanti ricomincia una zona evidentemente più soleggiata dove c’erano invece olivi e fasce e dove il sentiero si è conservato meglio. Una casetta col tetto in lamiera a valle della traccia mi suggerisce che da qui il sentiero sarà poi pulito. Trovo un bivio non riportato su OSM e prendo la direzione che mi sembra più sensata per l’abitato (immagino che l’altra conduca alla strada sottostante) e finisco in una zona di muretti a secco molto ben tenuti, con un uliveto ancora tenuto e poi alle case.
A Canepa vado un po' a intuito, un po' a casaccio diretto alla chiesa inferiore, dedicata alla Madonna di Montallegro, dove parte il sentiero che mi interessa. Mi tocca risalire però alla superiore, dedicata invece all’Assunta, per trovare una panchina su cui mi posso sedere a mangiare e una fontanella dove rabboccare la borraccia. La chiesa è aperta ed è barocca, ma comunque molto semplice; davanti ha uno di quei lastricati con mosaici in pietre lisce di fiume, bianche e scure, e tipiche di certe chiesette collinari della Liguria (ho presente quello magnifico di Sant'Ambrogio a Rapallo), ma in versione molto più rustica. Sempre in ossequio alla tradizione, non mancano dei lecci secolari davanti. Camminando stavo in agio termico in maglietta, mentre da fermo, con la brezza dal mare umida e fresca in faccia, sento abbastanza freschino nonostante lo strato in più. Al pasto principale devolvo la metà della scorta di focaccia.
Il ponte sul rio Sori
Dalla chiesa inferiore resto più o meno in quota, lungo una serie di fasce con uliveti abbandonati: qui il paesaggio è più simile ad altre zone della Liguria, rispetto all’unicità della Montagna di Fascia del mattino. Un unico piccolo lembo è ancora coltivato, peraltro su fasce ripidissime, strette e molto alte. La maggior parte della industriosità ligure era indirizzata verso il controllo delle acque: da un lato l’acclività del terreno minacciava continuamente di generare frane, dall’altro gli estremi climatici della Piccola Era Glaciale producevano caldi invernali con carenze idriche alternate a gelate fino al mare, siccità intervallate da devastanti alluvioni. Qui il clima più piovoso che nel Ponente, dove fu necessario ideare la grande condotta sanremese e gestire collettivamente la risorsa idrica scarsa, non ha richiesto opere particolari, tanto che non sono riuscito a scorgere alcun tipo di canalizzazione, se non piccole captazioni per l’approvvigionamento dei centri abitati.
Va detto che oggi sembrano essere rimasti solo olivi e castagni, generalmente abbandonati da più tempo, mentre il Casalis per l’allora comune di Canepa descrive un paesaggio assai più variegato: oltre a una grande diversità di cereali e legumi, il vino supera in quantità l’olio d’oliva e poi vi sono noci, frutta, agrumi, ortaggi. La monocultura dell’olivo, così caratteristica nel Ponente a partire dal XVIII secolo, non era presente nel Levante, dove prevaleva invece la coltura promiscua, con alberi più diradati tra cui era coltivati cereali e legumi, anche per via dei contratti, che riservavano al padrone le olive e al lavoratore il resto. La patata, che dal Settecento nel vicino Piemonte aveva poco per volta scalzato il castagneto, in Liguria era stata introdotta solo dal periodo francese, con grandi resistenze, restando marginale. Questa diversificazione permetteva una notevole resilienza, perché certi estremi climatici danneggiano alcune colture e ne lasciano incolumi per contro altre, senza compromettere del tutto l’annata. È poi la ricetta della vita sulla Terra, che tramite la biodiversità tiene pronte una gran varietà di strategie per ovviare alle mutazioni ambientali più disparate e le ha consentito di sopravvivere a ben cinque estinzioni di massa.
Nel Medioevo l’olivo, oggi dominante, era marginale rispetto al vigneto, per quanto riguarda le colture da vendere sul mercato, così come alle colture cerealicole e di leguminose di sussistenza. Spesso era frammisto ad altri alberi da frutto, soprattutto i fichi, molto apprezzati, cibo dei poveri per antonomasia. Successivamente, con l’aumento della redditività dell’ulivo, questo prese il sopravvento, senza però appunto giungere alla monocultura.
Ad ogni modo, è importante notare che questo paesaggio agrario non era statico, ma sottoposto a continui mutamenti fin dall’Età Moderna, dovuti alla precoce vocazione al mercato delle colture: per fare ulteriore facile razzismo sull’avidità ligure, in aggiunta a quello su cappuccino e focaccia, il contadino ligure era mobile qual piuma al vento, abbandonando e tornando alle medesime colture, per seguire le fluttuazioni dei prezzi e quindi le convenienze economiche di ciascuna.
La produzione agricola restava inferiore al fabbisogno alimentare della popolazione e le tecniche di coltivazione erano primitive, con rese scarse, perché si lavorava prevalentemente a forza di braccia e zappa, con scarso impiego di animali e aratro. Nelle risposte all’inchiesta del 1799 sulle campagne condotta dal governo repubblicano, alla domanda sulla disoccupazione molte risposte insistono sul dato che è necessario lavorare senza posa per ottenere il minimo per sopravvivere: «chi vuol mangiare bisogna affaticare», rispondeva la municipalità di Maxena, «non cessa mai l’occupazione in alcun tempo, facendo vita da bestie per sostentare la povera famiglia», rincarava il parroco di Pannesi. Di conseguenza, le migrazioni stagionali per integrare il reddito agricolo erano assai comuni. In parte erano assorbite dalle attività marinare dei centri rivieraschi, ma non pochi dovevano migrare fuori dalla regione.
Da qui a Capreno l’angustia e la profondità della valle permette di percepire sensorialmente, sotto forma come di claustrofobia per la piccola porzione di cielo che resta visibile, la ripidità dei versanti dei vari rami del rio Sori: una caratteristica geomorfologica comune a tutto il bacino, che ha richiesto enormi lavori per rendere coltivabile il territorio. Passo da una casetta ristrutturata a beneficio di qualche eremita a km 0, nel senso di distanza dalla civiltà, perché immagino che comunque di qui non transitino frotte di escursionisti. Ha anche una telecamera per il controllo. La mulattiera prosegue in saliscendi, in parte sul fondo naturale, in parte lastricato a sappello nei tratti più ripidi; le condizioni variano da buono a un po' più deteriorato.
Verso la zona più infossata della valletta, più umida e ombrosa, ci sono dei boschi che sembrano essere sempre stati tenuti come tali o probabilmente avevano qualche altra destinazione diversa dall’oliveto, o comunque sono stati abbandonati molto prima, perché hanno una vegetazione più evoluta, nonostante la presenza di alcuni edifici. Sebbene fosse messo a coltura tutto il territorio possibile, qualche bosco esisteva, perché il Casalis tra i prodotti del territorio elenca anche legname da costruzione e non solo da ardere, che può essere recuperato da castagneti e uliveti. Raggiungo quindi il rio di gran lunga più grande di oggi, tanto da meritare un modesto ma grazioso ponticello in pietra ad arco, che pertanto vado a fotografare. A valle del ponte il torrente precipita con salti di roccia, toboga e pozze.
Raggiungo quindi la strada, dove trovo un cartello a ritroso per Canepa, ma nessuno per Sussisa, la mia prossima (in tutti i sensi) meta. La imbocco a destra verso il cimitero, dove parte la cementata per la parte alta di questa frazione. Tra le prime case una cresta è stata obliterata e in parte assorbita da altri muri a secco; in questo modo si è conservata meglio di altre viste in precedenza. Per passare, devo attendere che un signore indiano si accorga di me, in quanto sta innaffiando i vasi del piano terra con il tubo di plastica dal primo piano, proprio sul bordo del sentiero. È un po’ stupito di vedere un escursionista. Una doccia non sarebbe stata particolarmente gradita, dal momento che non fa tanto caldo: infatti lo strato di nuvole si è compattato e ispessito, come prevedevano i siti meteo specializzati in queste zone, e la temperatura è fresca al punto di richiedere la seconda maglia anche per marciare. Nella parte alta del paese trovo l’indicazione per Fulle e decido di seguirla, rimanendo quindi in prossimità del fondovalle. In fase di ideazione avevo pensato di salire verso Massiglione e andare a prendere il sentiero alto per Capreno, dove la cartina riporta innumerevoli casette da fen, anche se non sarei transitato da quella analizzata da Moreno, perché si trova più in alto.
La mulattiera descrive una piega a sinistra attorno a una piccola dorsale, dove c'è un muretto a margine che sembra proprio fatto come per sedersi e riposare. Incrocio un corridore in maglietta nera e scarpette. In una zona con dei resti di grandi castagni, riesco ad affacciarmi al piano superiore di una casetta diroccata e vedo così che ha del pavimento di legno della paglia sopra. Sempre in ripida discesa raggiungo Fulle, una fila di case allungata su una dorsale quasi in riva al torrente. Sul margine di uno spiazzo con tavolo, sono deposte due macine da mulino: in effetti la localizzazione è ideale e spiega anche il perché di una posizione così infelice, umida e ombrosa. Mentre mi allontano seguendo le indicazioni per Capreno, mi pare anche di riconoscere l'edificio preposto.
Intanto il cielo si è fatto più cupo e comincia a sgocciolare. Nei pressi di una casetta alcuni grossi castagni erano franati sul sentiero, ma sono stati tagliati e il passaggio riaperto. Qui l'abbandono è decisamente datato, come testimoniano porzioni di terrazzamenti crollati sia a monte sia a valle del sentiero e il bosco termofilo più maturo rispetto a quelli visti precedentemente, più simile a quelli delle zone che sembravano essere sempre state tenute arborate. In una casetta riesco ad aprire la porta, ma solo per vedere che il solaio è crollato e che il piano superiore era intonacato, indice di una cura e di un’importanza dell’edificio, che andava oltre il semplice ricovero occasionale. Ad un certo punto un capanno metallico testimonia invece un tentativo di recupero nei decenni scorsi, ma la superficie ripristinata è davvero risicata, quindi il tentativo deve essere stato presto abortito. Alle prime case di Capreno, con i loro giardinetti ben tenuti e gli orti, mi si para innanzi un cancello chiuso, di cui riesco a comprendere il meccanismo solo quando l’ho quasi scardinato; immagino serva a tenere i cinghiali fuori dall’abitato.
Dalla chiesa scatto delle foto a Levà e Canepa quasi al limite delle nuvole, che si sono ulteriormente abbassate. Da qui l’orientamento è relativamente semplice, perché per un tratto abbastanza lungo devo seguire la X rossa. In paese sgocciola per qualche minuto un po' più intensamente: mi piace sentire le gocce addosso, tanto sono così poche che il calore del corpo le fa evaporare, ma dovrei indossare almeno il coprizaino per proteggere la roba.
Non so articolare il mio apprezzamento per la pioggia lieve come sono riuscito per la nebbia, ma ancor di più non la so fotografare. Sarà anche solo che nella mia città è un fenomeno raro, però adoro prenderla anche nel pendolarismo in bicicletta. La fotografo meno: in parte contano le complicazioni operative di evitare di bagnare la lente frontale dell'obiettivo, ma soprattutto per la notevole difficoltà a visualizzarla, dal momento che richiede prevalentemente elementi indiretti, come ombrelli o comunque espressione di modernità urbana, mentre negli spazi rurali disabitati è assai difficile mostrarla, incommensurabilmente più di nebbia e neve. Rispetto alla nebbia la componente visiva si ritrae rispetto alla tattile, alla sonora e alla spirituale, legata ai significati cosmici della fecondazione. In comune hanno invece la caratteristica di essere associati all’idea del caminetto, all’ideologia del serrarsi in casa come protezione dal mondo ostile, in questo caso naturale, mentre io in questi casi sono motivato ad attivarmi e proiettarmi all’esterno come non mai.
Mentre esco dalla dal paese una serie di fasce prevalentemente abbandonate, la pioggia sale di intensità, vera pioggerellina: non mi resta alternativa che indossare il coprizaino e sostituire il secondo strato con il guscio, lasciando aperte le cerniere di areazione, perché camminando in salita non fa proprio freddo. Il cielo in effetti è parecchio coperto e le nuvole sono oramai poco più alte di me. Inoltre il fondo calcareo è abbastanza scivoloso: ho lasciato a casa i bastoncini, per avere le mani libere per dettare appunti al cellulare, senza dovermi fermare ogni ora per scrivere sul notes, cosa impossibile se la pioggia prevista fosse più persistente di qualche breve rovescio. Smette però abbastanza in fretta.
Ad un certo punto vedo davanti una volpe scappare lungo il sentiero e poi infilarsi giù per una ripida scalinata nell'oliveto. Il suo pelo mi pare come grigio, quasi senza colore, tanto che la prima impressione era stat di un cane domestico. il sentiero attraversa quindi una zona di macchia mediterranea molto folta, sempre tagliando in quota. In corrispondenza di una dorsale sono investito dal rumore aerodinamico e del rotolamento degli pneumatici sul sottostante viadotto di Sori. Mi rendo conto del silenzio solo quando viene lacerato, perché quando potrei assaporarlo sono troppo teso nel non perdere la concentrazione e smarrirmi nei pensieri, attività introversa a cui questo clima uggioso invita. A me questo borbottio lontano pare già irritante, nella sua violenta e repentina comparsa, mentre è assai più comune cercare o autoprodurre frastuono per sentirsi bene nei giorni liberi o anche solo per sentire vita o compagnia. Alle prime case di Rupanego il silenzio è invece rotto dalla subitanea e coordinata esplosione dei cani, che fanno sbottare un padrone ignaro del mio passaggio.
Seguo le indicazioni per Sant'Apollinare, lasciando in basso San Bartolomeo e già prima la X diretta alla sottostante strada. Si tratta di due santi paleocristiani, un apostolo e un discepolo di Pietro, la cui storie sono note già ai dotti cristiani dei primi secoli, seppur senza tutta la vividezza della Legenda aurea; ciò mi induce a pensare a un'antichità dell'insediamento in questa zona, anche se poi le chiese odierne sono molto più recenti. Le loro sono tipiche storie con cattivi a una dimensione, distillato di malvagità, che agiscono apparentemente senza motivazione se non fare del male ars gratia artis e a cui solo dio può rimediare eliminandoli fisicamente; storie molto diverse dalle tragedie greche, in cui il male viene dalla contrapposizione non sanabile tra due istanze legittime, in cui quindi l’umanità e la dignità dell’avversario sono riconosciute. Le ideologie europee post cristiane hanno mutuato la concezione cristiana del male, con il risultato dei grandi massacri novecenteschi di gente qualunque, etichettata come cattivo non redimibile e indegno di compassione. Tutto ciò non ha insegnato molto, perché tutt’oggi la narrazione prevalente presenta così i rivali di ambo i campi.
Quest'ultima riflessione mi induce a pensare che le chiese potrebbero avere una fondazione molto più recente, ai tempi dello scontro tra gli imperialismi genovese e ottomano: questi santi potrebbero essere stati scongelati per fornire una chiave di lettura aggregante alle incursioni dei corsari nemici, un modello passato in base al quale interpretare il ruolo dei nemici all’interno della visione religiosa del mondo allora comune. Purtroppo non sono uno storico e non ho modo di cercare e analizzare i documenti di fondazione, con cui potrei mettere alla prova queste mie congetture.
Questi santi mi consentono di penetrare un poco anche nel lato irrazionale, di desideri e pensieri del tempo, un aspetto del tutto assente nel libro di Moreno, limitato unicamente all’azione materiale. Tuttavia è accessibile solo l’esigua frazione della popolazione che allora poteva scrivere e organizzare la società, mentre del resto, che aveva una cultura unicamente orale, non ci è arrivato nulla. Oggi è più semplice, perché il capitalismo digitale ha inventato un modo per far soldi pure dall'esigenza di raccontarsi, che una volta era in luoghi appunto orali come stalle, osterie o piazze, e ci offre spazi dove leggere tutti costoro senza nemmeno un esborso monetario.
Con una cementata in quota raggiungo un oliveto con cipressi. Riesco a fare una foto che mi intrigava dalla sua apparizione da lontano, ovvero l’oliveto con lo sfondo del viadotto dell'autostrada. La cementata prosegue poi in saliscendi, fino a una strada, dove non ci sono indicazioni, ma è chiaro che si debba andare a sinistra: vedo già in lontananza Sant’Apollinare con i suoi cipressi. Più avanti riprende il sentiero, ma, dato il ripresentarsi della pioggia, preferisco rimanere sulla strada, pensando erroneamente che possa anche essere più panoramica. Alla chiesa un gentile signore aspetta che la fotografi prima di parcheggiare, cosicché inquadro solamente i motorini, che sono più liguri del suo fuoristrada americano. Vado quindi a guardare il mare, da cui mi separa solo una ripida china fino alla costa. È davvero stupendo, sovrastato dai nuvoloni corposi, con la luce del sole che filtra e tesse decorazioni astratte sul mare, oltre che una sottile linea arancione all’orizzonte: qui le giornate uggiose non sono affatto grigie.
Due furgoncini che fungono da autobus di linea e scuolabus generano un certo ingorgo nel piccolo piazzale. Dato che a poca distanza c’è una torre medievale dove non sono mai stato, decido di far merenda ai suoi piedi. Una cementata mi conduce in discesa tra oliveti ben tenuti su ripide fasce e casette. Questo insediamento sparso e diffuso risale all’Età Moderna, quando numerosi nuclei accentrati medievali furono dismessi in favore del primo. Allora però i colori e le forme della vegetazione erano assai più diversificati dell’attuale trama uniforme degli uliveti, oggi inframmezzata solo dai soliti pali e fili della luce, per la scacchiera con agrumi, alberi da frutto, fichi su tutti, con le vite maritate a tutti questi, sotto cui biondeggiavano le rotazioni di segale, frumento e legumi. Poco dopo il termine della cementata c'è la torre, diroccata ma molto più voluminosa e strutturata di quelle chiamate di solito torri saracene. Purtroppo è sprangata, ma d’altronde immagino che i piani intermedi fossero di legno, come si usava all’epoca, quindi senza restauro non resti molto da visitare.
Una città longa vinti o vinticinque miglia
Consumata all’ora di prammatica la merenda con l’ultima fetta di focaccia e della tisana, dopo aver guardato un po' di scempiaggini sul cellulare e comunicato all’oltregiogo la mia soddisfazione, finalmente mi desto dalla distrazione virtuale per addentrarmi nell’atmosfera che mi circonda, per stare in silenzio anche interiore ad ascoltare i rumori e annusare i profumi, mentre il cielo si fa un po' più scuro sopra la costa. Il panorama è arrestato a est dal lato occidentale del promontorio di Portofino da Camogli a punta Chiappa, a ovest dalla caligine che sfuma gradualmente la linea costiera, nascondendo la città e il Ponente.
Pochi metri più avanti un foglio di carta plastificata annuncia che il sentiero è chiuso per un cedimento. Vado a vedere e scopro che per poco più di un metro è completamente crollato lo stretto terrazzo su cui corre e non è rimasta che una ripa di terra. Mi calo con circospezione, verificando che il piede non scivoli o il terreno non ceda, dopodiché mi isso sul lato opposto del fosso. Senza zaino un saltino potrebbe bastare, mentre le pietre a monte del sentiero mi comunicano un senso di instabilità. Immagino che con le copiose piogge previste a breve (il pluviometro di Camogli registrerà 120 mm) la situazione si aggraverà, ma è possibile evitare il punto critico con una breve deviazione, come avrei scoperto anch’io, se solo avessi pensato di consultare la cartina.
Sempre tra casette e oliveti, in un paesaggio curato e gradevole, arrivo a monte della chiesa di Poianesi, dove trovo la segnaletica del Parco di Portofino, il «capo di monti» contro cui termina la montagna di Fassa, Co’ du Munte nel dialetto attuale, per cui penso che da ora innanzi potrò mettere la cartina in saccoccia. Questa segnaletica è costituita da pali verdi a sezione quadrata, che ad ogni incrocio indicano le mete e le tempistiche di ogni ramo.
Nei pressi alcuni operai stanno scassando un terreno, probabilmente per recuperarlo come terrazzamento. Quindi c’è una casa in avanzato stato di ristrutturazione con accanto il miscelatore di cemento, attrezzi, mucchi di sabbia e teloni a coprire attrezzatura. Nelle zone rurali capita spesso di imbattersi in attrezzatura per lavori edili buttata accanto alle case, come se i lavori fossero perennemente in corso: a me trasmettono un senso di trasandatezza, come la mia scrivania di libri accatastati a caso. Resto in quota tra uliveti dismessi e inframmezzati da macchia mediterranea matura, fino a delle case raggiunte da una strada che sale per la massima pendenza e abitate da cani fracassoni e molto incattiviti. Oltre la strada l’ambiente si urbanizza, perché il fondo da terroso diviene cementato e vi sono case abitate, tra cui anche alcune molto pregevoli, la zona benestante di quella grande città estesa lungo la striscia del mare: «chi vol bé cósiderare la frequétia & magnificenza delle case & edificii, quali sono da Voltri infino a Camogli nõ solaméte nel piano & nella riva del mare, ma etiádio nelle valli, nei colli, & nei móti nõli para maraviglia, che quádo si giōge di mare a Genoa si ripresenti così bella & splédida veduta & pspettiva, che certo i forestieri se vi ingánano, & pare loro vedere una Città longa vinti o vinticinque miglia, & io per me no credo che in Europa si trovi un simile aspetto» (ancora il Giustiniani).
Da dietro una palma vedo la chiesa di Megli con il suo piazzale e i suoi alberi secolari, stavolta olivi. Una volta che li ho raggiunti, provo a scattare loro qualche foto con il grandangolare, per valorizzare le loro curve e il bel cielo di cumuli rigonfi alle loro spalle. Mi fermo un pochettino ma non tantissimo, perché alle 17.30 il sole è già tramontato e tra poco sarà buio; già si sono accese le luci a Recco. Su un lato della chiesa, verso monte c'è una selva di tralicci, pali e fili che eccita il mio fascino per l’orrido, ma non mi sembra che la foto possa rendere adeguatamente l'idea.
Sceso alla strada, dove delle signore con piccoli cani stanno conversando (in tutto il giro ho detto un solo buongiorno), imbocco la crosa per Recco, segnalata da un cerchio sbarrato. Purtroppo non c'è nessun punto di vista adatto a fotografare il paese dall'alto, che non sia ostruito da elementi di disturbo, per cui resto con le pive nel sacco e desisto, anziché accettare e mostrare il paesaggio ingombro tipicamente italiano. Dal lato sonoro, la discesa mi proietta verso lo sciabordio del mare sovrapposto al ronzio dei mezzi motorizzati, in particolare naturalmente i motorini: anche stavolta mi rendo conto del silenzio solo quando svanisce.
Dopo le immancabili foto scarsamente ispirate a un pescatore al crepuscolo (avevo portato un piccolo cavalletto allo scopo, ma per pigrizia non lo adopero e mi arrangio come posso), trovo chiusa per tre giorni la focacceria con le recensioni migliori sull’oracolo digitale. Ripiego su una a caso sotto i portici moderni, dove raccatto tutta la focaccia di Recco in esposizione, da portare al di là del giogo, dove la «pizzetta» sarà apprezzata, e due euro di focaccia con le cipolle come cena. Infine mi presento in un bar un minimo elegante con i miei capelli arruffati dall’umidità e dal vento, ma la barista è brava a non mostrare reazioni inopportune. I treni per Genova hanno tutti un ritardo di mezz’ora, per cui timbro il biglietto e salgo sul primo che passa, senza neppure sapere quale sia. Trascorro il primo troncone a revisionare il dettato, tanto oramai è una notte senza luna e non c’è alcun panorama sul mare da ammirare, il secondo a proseguire la lettura del libro dell’andata, senza tuttavia giungere ancora al capitolo dedicato a me.
Per approfondire
- A. Agostini, Il problema dei rimboschimenti in Italia, Roma 1933
- M. Armiero, Le montagne della patria, Torino 2013
- G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1833-1856
- C. Costantini, Comunità e territorio in Liguria: l'inchiesta dell'«Instituto Nazionale» (1799), Miscellanea storica ligure, Anno V, fasc. 2
- A. Giustiniani, Descrittione della Lyguria, Genova 1537
- Ja copo da varazze, Legenda aurea, Torino 1995
- D. Moreno, Dal documento al terreno, Bologna 1990
- E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
- M. Armiero, Le montagne della patria, Torino 2013