Tramonti di Biassa
Cinque Terre
12 febbraio
In un baleno
Tramonti è perciò montagna vera, anche se a quota zero, montagna di rupi addomesticate dai contadini. E poi da qui nelle limpide giornate invernali si vede il Monviso
Diario di viaggio
Eröffn' ich Räume vielen Millionen,
Nicht sicher zwar, doch tätig-frei zu wohnen.
Grün das Gefilde, fruchtbar; Mensch und Herde
Sogleich behaglich auf der neusten Erde,
Gleich angesiedelt an des Hügels Kraft,
Den aufgewälzt kühn-emsige Völkerschaft.
Im Innern hier ein paradiesisch Land,
Da rase draußen Flut bis auf zum Rand
Aprirei spazi a milioni e milioni
d'uomini che vi abitino
sicuri no e invece attivi e liberi
Verdi campi, fecondi! Uomini e armenti
subito accolti dalla terra appena emersa
avranno sede subito sotto il colle potente
che avrà eretto una gente audace e laboriosa.
Qui, all'interno, un paese di paradiso;
là, fuori, l'onda fino al limite;
J. W. von Goethe, Faust, atto V (trad. F. Fortini)
Biassa e la sua gente
Tramonti di Biassa è una titanica opera dell'ingegno, ma soprattutto della fatica dei contadini, che nei secoli delle ripresa produttiva, dopo il declino dell'Alto Medioevo, modellarono il paesaggio verticale italiano in forme addomesticate, riscuotendo l'ammirazione dei viaggiatori stranieri nei secoli a venire.
Biassa è una piccola frazione del comune di La Spezia, posta in posizione isolata, «erta a dismisura» la descrisse un viaggiatore seicentesco, inerpicata sulle colline a ovest della città, poco sotto il crinale nei pressi del colle del Telegrafo. È questo il confine orientale delle Cinque Terre, come anche la via di comunicazione percorsa dagli abitanti di Riomaggiore per recarsi in città a vendere le proprie merci, quando la gente si muoveva a piedi. I dintorni del paese sono circondati da fitti boschi di castagno, una volta intervallati da coltivazioni, e cave di arenaria, la pietra dei terrazzamenti delle Cinque Terre. Tuttavia la sua ricchezza principale erano i vigneti terrazzati di Tramonti (da trans montes, oltre i monti), che si trovano sul ripidissimo versante che digrada sulla costa tra Riomaggiore e Portovenere, da quote collinari fin sugli scogli lambiti dalle mareggiate. Tramonti è perciò montagna vera, anche se a quota zero (ma d'altronde da qui nelle limpide giornate invernali si vede il Monviso, oltre che le Alpi Liguri all'altro capo del golfo di Genova), montagna di rupi addomesticate dai contadini.
Biassa è sempre stata una comunità molto isolata e ostile verso il mondo esterno, di cui rifiutava ogni autorità. Si gestiva invece in maniera autarchica tramite alcune società segrete, in conflitto anche violento tra di loro, ma anche una società di mutuo soccorso molto partecipata, successivamente assorbita dal fascismo. Tuttavia a partire dall'Ottocento l'attrazione che le cave esercitarono sulla manodopera forestiera li costrinse a scendere a qualche conflittuale compromesso. Nell'immaginario dei cittadini l'indole e i costumi di questi vicini così arcaici assunsero tratti quasi caricaturali. Giovanni Sittoni (1872-1954), un antropologo spezzino appassionato della sua terra, in alcuni articoli pubblicati nel primo Novecento su una rivista di settore, arrivò a sostenere che Biassa e l'adiacente Campiglia fossero un enclave di predoni saraceni di origine berbera, «in cui si osserva la prevalenza del sangue arabo-cabilo». Secondo Sittoni, si erano insediati in questa località, «rintanata in una gola, nella zona più angusta e meno ospitale della valle […], ove non fu mai possibile l'esercizio dell'agricoltura o della pastorizia», «tra macigni e dirupi», per sfuggire alla cacciata dei Mori dalla Corsica, ultimo avamposto tirrenico a cedere. Inizialmente continuarono a praticare la loro azione di «scorrerie e imboscate», quindi, quando Genova assunse il controllo sui mari, vi si videro sbarrato l'accesso e si dovettero dedicare alla vite, l'unica coltura possibile su «un terreno montuoso e accidentato, di schisto gallestrino, solo atto a lasciarsi sminuzzare in una terra, soffice, leggera, sterilissima, incapace di ritenere l'acqua e l'umidità». Adduceva varie prove a sostegno. Intanto le loro usanze, come il condurre quasi tutta la vita «all'aria, al sole a e ai venti», disdegnando le case, le quali non erano che «tuguri», che lo colpivano per l'architettura primitiva, da «berberi-schellu». Nella loro descrizione si dilungava sulla «miseria igienica» in cui ancora versavano a quel tempo, senza risparmiare appellativi ributtanti, pur mantenendo uno stile asciutto da pubblicazione scientifica: «le casupole sono anguste, luride e senza cessi, gli escrementi vengono dalla finestra versati sul letamaio e sulle stramaglie raccolte a marcire intorno alla stalla. […] Molte famiglie non posseggono che un'unica camera, una specie di canile dove si dorme, si mangia e dove spesso lo stesso lurido lettuccio serve per sani e per malati». Descrizione peraltro non molto dissimile da quelle dell'inchiesta parlamentare sulle campagne italiane di Agostino Bertani, condotta un quarto di secolo prima. Anche la conduzione delle attività agricole e pastorali era condotta «coi criteri di Noè». Peraltro, la presenza di pecore e l'uso della lana nell'abbigliamento tradizionale, nonostante l'inesistenza di pascoli adatti nella zona, era visto come un retaggio del passato nomadismo. Anche la cucina era descritta come primitiva: «Il pasto usuale è una minestra, fatta bollire fino al punto di originare una specie di colla», e «si usa mangiare per turno, onde poter, i dieci o dodici membri che la compongono (la famiglia, n.d.r.), usufruire tutti dello stesso paio di posate.» Su tutte le prove, la più solida erano ritenute la loro struttura fisica e la loro indole: «Indipendente, ospitale, primitivo, litigioso, e rapace, quando e come può, questo colono possiede pure de' suoi antichi padri il vigore necessario per trionfare degli ostacoli contro cui deve lottare; muscoloso, agile, sobrio, rotto ad ogni privazione come ad ogni fatica, lui non portato per natura alla quiete e alla stabilità, è riuscito a fissarsi su un suolo ancor più della sua indole sfavorevole ad una vita sedentaria, ed a strapparvi con ardore le poche ricchezze racchiusevi». Come si intuisce da quest'ultima citazione, non erano assenti in Sittoni nostalgie tardo romantiche verso i popoli barbari: «Il suo sangue giovanile è di quelli che rinvigoriscono le pulsazioni delle arterie delle genti civili invecchiate». La rissosità degli abitanti era proverbiale, così come la loro impulsività: «Quando la combattività della schiatta cessò di essere la fonte del suo sostentamento, nell'indole delle generazioni successive subentrò il litigio. [hellip;] Il biasseo è sempre in cerca di litigi. […] Il suo cervello è una fucina continua di cavilli da elaborare [Hellip] Il più gran diletto dei coloni consiste nell'accapigliarsi nelle aule giudiziarie». «Astuto e calcolatore quando si tratta dei suoi interessi economici, il biasseo, di fronte ad un episodio della lotta di parte, diventa irriflessivo. Egli prende consiglio dall'impulso del momento[&hellip], senza dedicare neppure un solo pensiero alle possibili conseguenze del suo operare». Inoltre Sittoni analizzò dei crani ricavati di straforo dal cimitero, che gli apparivano «d'una rudezza e d'una primitività straordinarie». In base ai principi della scuola positivista lombrosiana della classificazione delle razze (oggi ritenuta pseudoscienza), secondo la quale dalle misure antropometriche era possibile risalire alle qualità spirituali dei popoli, arrivò alla conclusione che appartenessero a qualche popolo dell'Africa mediterranea. Inutile ricordare che allora DNA e alleli non comparivano nemmeno nei romanzi di fantascienza. Li descriveva come un popolo senza storia, come inchiodato nelle proprie tradizioni nel vivere e nel lavorare, a cui non dedicava la benché minima attività mentale nel tentativo di progredire, oltre che a diffidare delle idee provenienti dall'esterno: una tipica concezione positivista del progresso, che considerava immobili le popolazioni, che non avevano intrapreso lo sviluppo delle nazioni europee. «In quella secolare chiusura in sé stessi, tra le difficoltà di un lavoro lento e le incertezze di provvedere alla propria sussistenza, tra le fatiche estreme e le fazioni, in località nude, orribili, in preda del caso e delle stagioni, tra macigni e dirupi, si è compresa l'impossibilità di ogni abbandono ad idee e di ogni possibile tentativo di accumulazione intellettuale.» «La patria è pur sempre la foresta», concludeva, evocando forse gli stadi della civiltà postulati da Vico («L'ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente, l'accademie»). Liquidava con poche parole le marchiane aporie della teoria, prime fra tutte la mancanza di documenti scritti o tradizioni orali che confermassero questa origine alloctona. Per di più, il dialetto di Biassa è una comune variante dei dialetti della Lunigiana, solo un po' arcaico per l'isolamento. Anche la religione non si distingue da quella del circondario, così come i riti magici della loro medicina dei semplici. Non parliamo poi della loro pressoché nulla propensione al mare: nella prima metà del Settecento, la “Pianta delle due Riviere” del Vinzoni non registra nessuno scalo marittimo nel territorio di Tramonti, tra Riomaggiore e il Persico. Inoltre non si capisce perché mai dei razziatori ad un certo punto sarebbero diventati degli indefessi lavoratori, al punto da edificare uno dei maggiori monumenti umani al biblico sudore della fronte. Pochi decenni più tardi, Ubaldo Formentini suggerì un'alternativa meno fantasiosa sull'origine di Tramonti, ipotizzando che l'attaccamento a una terra marginale li avrebbe solamente tenuti al fuori del tumulto storico del mondo circostante.
Biassa-Sant'Antonio
Il piccolo bus si svuota degli studenti prima di uscire dalla città e si arrampica per la tortuosa strada, che risale ripide colline boscose, dipinte d'arancio dal sole nascente, in una mattina tersa ma molto umida. Lungo la via vedo diverse cave di arenaria, sia in attività che abandonate, e anche la vecchia mulattiera gradinata che taglia i tornanti. Una prima rozza pista carreggiabile era stata costruita a beneficio delle cave, ma questa non permetteva il passaggio alle corriere. Pertanto, nel secondo dopoguerra, i molti disoccupati di Biassa si organizzarono e iniziarono lavori di miglioramento. Ad essi fu poi fornito supporto ingegneristico e anche un sussidio da parte del comune. Così nei primi anni Cinquanta questo simbolo del progresso potè finalmente raggiungere Biassa e sgravare i suoi abitanti dall'obbligo di recarsi a piedi in città. A giudicare dalle foto dell'epoca, era ben più grande dell'autobus su cui mi trovo, perché allora la frazione era più popolosa e nessuno possedeva l'automobile.
Scendo alla fermata di fronte alla chiesa dedicata a san Martino, santo che prende il nome dal dio della guerra romano e discendeva dall'aristocrazia militare dell'impero. In gioventù aveva egli stesso militato nella guardia imperiale, prima di dedicarsi alla vita eremitica. Sittoni afferma che i biassei lo scelsero come patrono in ricordo del proprio passato guerriero. Risalgo la scalinata e attraverso il paese, tra case ben tenute, intonacate con tipici colori vivaci liguri, e altre in pietra grezza abbandonate. Passa un uomo che spinge una carriola. La strada si chiama via delle Polle, a indicare una passata presenza di sorgenti, che nei dintorni sono comuni. Questa disponibilità di acqua può essere un indizio che scioglie l'enigma della scelta di un luogo tanto isolato per fondare un paese. A oriente appare nitida la città, con la grande ciminiera della centrale termoelettrica dedicata a Eugenio Montale, dipinta a strisce rosse e bianche, e sullo sfondo le Apuane, che a quest'ora sono tinte dal blu dell'ombra. Invece sopra il paese troneggiano le antenne del Verrugoli. Neanche faccio caso al monumento ai caduti, inaugurato in epoca fascista: oggi infatti è molto minimale, ma in orgine prevedeva una statua bronzea di un guerriero romano con gladio e scudo, poi fusa durante la campagna per l'oro alla patria e mai più sostituita. Mi fermo all'alimentari a comprare della focaccia, dove apparentemente la proprietaria non mi riconosce, anche se sono passato l'altro ieri e in questa stagione i fuestri non devono essere tanto numerosi, specie nei giorni feriali. Insieme a lei c'è anche oggi il corpulento signore baffuto che mi aveva dato delle indicazioni e deve essere una specie di tuttofare del paese, a giudicare dalle mezze frasi su riparazioni da fare, che origlio tra quelle scambiate con la signora.
Risalgo la scalinata che esce dal paese, al termine della quale il sentiero fa una secca curva a destra e si infila in uno stretto passaggio. Purtroppo i muri laterali di sostegno, in pietra a secco e coperti di muschio, in un tratto sono franati e hanno invaso di sassi il fondo. Al termine trovo alcuni grandi castagni da frutto. Non si potrebbe mai sopravvalutare l'importanza che il castagno ha avuto nell'economia e nella cultura delle zone collinari, a partire dal Basso Medioevo: in alcuni dialetti della mia regione è chiamato l'albero per antonomasia; qui in Liguria erbu du pan, albero del pane. Per apprezzarne il valore, anche simbolico, basterà ricordare che nella festività di Pentecoste, una collana di castagne bollite, seccate al sole e infilzate nello spago (il tradizionale metodo di conservazione), era benedetta in chiesa, avvolta attorno a un ramo d'ulivo. Il sole sarebbe già spuntato, se non fosse nascosto da spesse velature. L'aria si mantiene pertanto frizzante e assai umida, grazie all'intenso libeccio di un paio di giorni fa, che a questa quota condensava in una nebbia fradicia: sto bene con un pile e i guanti non stonerebbero. In questo evanescente inverno del cambiamento climatico, al mattino ho più freddo qui che nella Torino attanagliata dall'aria rinsecchita da una lunga siccità. Quest'umidità non dev'essere rara, perché muri e castagni fino al crinale sono abbondantemente coperti di muschi e licheni. Non mi sembra di aver visto la Lobaria pulmonaria, incontrata invece a Triora e Fontanigorda, uno dei pochi licheni che so distinguere, che vive sui tronchi dei castagni da frutto in questi climi oceanici e abbisogna di un'aria particolarmente pura.
Parte qui una bella mulattiera lastricata e gradinata diretta alla cappella di sant'Antonio. Fin verso la fine dell'Ottocento, questi sentieri per Tramonti erano malagevoli, finché Antonino Rossi, conosciuto come Pio Nono (per via delle omonimie in paese tutti erano identificati da un soprannome), consigliere comunale, si attivò per farli sistemare e fece creare queste mirabili opere, che ancora oggi sono motivo di meraviglia per l'escursionista e uno delle valide ragioni per effettuare questa gita. La costruzione ebbe un doppio beneficio per il paese, in quanto a Biassa era sviluppata l'attività di estrazione dell'arenaria da parte degli scalpellini. Aveva ricevuto grande impulso per effetto della realizzazione del porto militare (e dei forti per proteggerlo) voluto da Cavour. L'abilità degli scalpellini tornava utile anche ai vignaioli, perché le basi dei torchi, dove era spremuta l'uva, erano costituite da blocchi di arenaria opportunamente sagomate e scanalate, per appoggiarci il torchio e recuperare il mosto in basso. L'attività si esaurì neanche un secolo dopo con l'avvento della “pietra artificiale”, com'era detto allora il cemento: quando fu deciso di costruire il municipio di La Spezia con questo nuovo materiale, i cavatori scesero in massa a manifestare in città, ma senza risultato. Molti scalpellini dovettero perciò emigrare all'estero. Neanche Pio Nono durò molto: nel 1892 fu infatti ucciso da una fucilata sparata da un uomo con il volto coperto da un fazzoletto e un cappello moscio. Il fatto suscitò una notevole eco, almeno localmente (non c'è traccia del delitto sui giornali della mia confinante regione), perché Pio Nono era l'uomo di fiducia dei Doria, che in zona avevano molte proprietà. Per questo la polizia eseguì il proprpio mestiere con scrupolo: tutti gli uomini di Biassa furono arrestati e condotti in città, dove furono interrogati. Tuttavia l'omertà fu rigorosamente mantenuta da ognuno, per cui neanche con il processo si risalì mai all'assassino né al mandante. Tra i maggiori indiziati vi fu uno zio prete della vittima, che egli aveva fatto “esiliare” alla Palmaria, in quanto reo di tenere una giovane vedova come amante.
La mulattiera comincia coperta da uno strato di foglie di castagno e prosegue affiancata da arature dei cinghiali. Ci sono due tratti sopraelevati con corrimano in acciaio verso valle, arrugginiti e crollati. C'è quindi una bella vista verso l'Appennino tosco-emiliano, i cui crinali digradanti verso sud sono dorati da affusolate pennellate di luce dal sole basso; sono privi di neve nonostante sia la metà di febbraio. Arrivo a un'edicola votiva un po' deteriorata, dentro cui c'è un'immagine della Madonna incoronata e all'esterno qualcuno ha allestito un piccolo presepe. Ai piedi sono fioriti dei narcisi e della bergenia, una piantina importata dall'Asia per motivi ornamentali. Il suo fiore è noto come fiore di san Giuseppe, perché dovrebbe fiorire intorno a metà marzo, mentre oggi manca più di un mese: il riscaldamento globale dovrà portare a una ridefinizione dei nomi comuni delle piante o del calendario dei santi. Segue poi un tratto dove il pendio sovrastante ha riversato dei detriti sul tracciato, a tratti fiancheggiato da possenti muri. In corrispondenza di una curva a sinistra, a fianco del sentiero c'è un grande castagno, dalle ramificazioni spettacolari; peccato che non riesca a fotografarlo, sia perché circondato da rovi, sia perché il cielo velato non offre la luce migliore. La dorsale è annunciata dalla comparsa di qualche pino marittimo nel bosco.
Sant'Antonio-Nozzano
Sul crinale ci sono la cappella in pietra di sant'Antonio, dall'architettura essenziale, e l'annesso ristoro chiuso nei giorni feriali invernali. Incrocio l'Alta Via delle Cinque Terre tra il Telegrafo e Campiglia e proseguo nella strada diretta a Schiara, costeggiando una barriera in tondini d'acciaio, che serve a tenere i cinghiali alla larga dai preziosi vigneti. Il mare è blu e la foschia è molto diminuita rispetto a ieri, tanto che vedo distintamente le piccole Alpi Liguri; inoltre sul mare c'è la luna gibbosa calante. Attraverso boschi i cui alberi sono completamente avvolti dalle liane della macchia mediterranea, che portano nomi indicativi come stracciabraghe. I castagni si adattano anche al lato marino più caldo, ma qui non c'è più la piantagione monospecifica, ma sono inclusi in un bosco misto. Al margine sinistro della strada si trova un sasso verticale, localmente noto come croce di Schiara (da una croce che vi era infissa sopra, successivamente asportata da ignoti), ma più comunemente conosciuto come Menhir di Tramonti. Fu identificato come tale da Ubaldo Mazzini (1868-1923), intellettuale spezzino a cui oggi è intitolata la biblioteca della città, di cui fu primo direttore. La stranezza della roccia era però già stata riconosciuta dalle popolazioni locali, che l'avevano interpretata secondo i propri schemi e vi avevano così attribuito valenze diaboliche, come capitava comunemente a ciò che divergeva dall'usuale. Dal lato opposto della strada c'è una posa, un muretto piano in cima dove i trasportatori potevano posare il carico e avere un momento di riposo, durante i faticosi trasbordi da e per Monesteroli e Schiara. Pose di dimensioni minori sono disseminate lungo tutte le scalinate di accesso ai vigneti. Poco discosta c'è una rudimentale caverna artificiale, con una stretta entrata e un soffitto rivestito di lastre a secco grezzamente assemblate, alcune di dimensioni notevoli. Il suo scopo era di fornire riparo ai viaggiatori in caso di improvviso maltempo.
In paese si racconta che, sul finire dell'Ottocento, in una giornata d'autunno buia e tempestosa, un contadino che aveva una cantina qua vicino, in posizione anomala perché le altre sono molto più in basso, vide arrivare dei cacciatori, che chiesero ospitalità. Allora la caccia era riservata ai nobili. Il contadino offrì loro quel che poteva e si mise a discorrere di caccia e fucili con un signore alto, che gli altri trattvano con ossequio. Alla fine della chiacchierata, il signore si fece dare un foglio, dove scrisse qualcosa che il contadino analfabeta non poteva leggere e gli regalò un fucile, dopo avergli spiegato il funzionamento. Quando il contadino andò in paese a farsi leggere il foglio, scoprì con gran sorpresa che quell'ospite altri non era che il re Umberto I e che nello scritto gli aveva concesso il diritto di caccia.
Oltrepasso la barriera contro i cinghiali, chiudendo diligentemente il cancelletto, e proseguo lungo la mulattiera lastricata, a tratti molto larga, molto più di quelle a cui sono abituato sulle Alpi. Il sole mi ha raggiunto e piacevolmente mi acceca. Proseguo in graduale discesa in un ombroso bosco di lecci, fino a costeggiare una placca ricoperta di muschio, nelle cui fessure sono cresciuti alcuni lecci, anche di dimensioni non trascurabili. Dove il sentiero intercetta una pista sterrata, ci sono tre sughere, una delle quali ha una particolare forma a serpentina. Attraverso la pista e sono in una zona terrazzata, completamente ripresa dal bosco, dove c'erano della costruzioni anche intonacate, quindi abbandonate in tempi relativamente recenti, che servivano come ricovero per il bestiame. A Tramonti c'era ben poca disponibilità foraggera e di conseguenza ben pochi animali da cui trarre il concime. Si rimediava ammucchiando la paglia di qualità peggiore nello spiazzo antistante la cantina e rimuovendola periodicamente per seppellirla e trasformarla in concime.
Lascio sulla destra la scalinata per Monesteroli, da cui salirò al ritorno, e mi affaccio su altre case, dove si dirada un po' il bosco. Ce n'è solo una ancora abitata, intonacata di bianco e con il tetto rosso di coppi. Tornato sul sentiero, alterno muri a secco e lecci sommersi dal muschio, ad un ambiente aperto tra altre case in abbandono, con alcune sughere al margine del prato. Entro quindi in una zona molto solatia, per lo sfoltimento della macchia dovuto al passaggio di una delle caratteristiche monorotaie delle Cinque Terre. Qui mi affaccio sulle case di Schiara e sulle isole Palamaria, Tino e Tinetto, anche se è difficile guardare queste ultime, perché si trovano proprio lungo la scia del sole sul mare, accecante specie per me che arrivo da una zona più ombrosa. Il sentiero scende gradinato costeggiando un terreno, da cui odo provenire un picchettare di zappa e dove vedo un giovane saraceno, intento a recuperare degli appezzamenti terrazzati, già sfoltiti dalla vegetazione invasiva ma ancora incolti. Il sentiero gradinato continua poi a scendere tra terrazzamenti ripresi dall'erica e in alcuni casi anche dal bosco maturo di lecci, uno stadio più evoluto della macchia, indice di un abbandono più antico.
Poco più a valle arrivo in un fresco impluvio, dove scorre un piccolo rio e dove c'è la fontana di Nozzano, costruita a inizio Ottocento dai soldati napoleonici, qui di stanza per sorvegliare la flotta inglese che imponeva il blocco navale. Annesso c'è un piccolo lavatoio, che serviva alle donne di Tramonti. È la sorgente più a valle che incontrerò: le case in basso sono rifornite dagli onnipresenti tubi, che corrono lungo i sentieri e oggi sono prevalentemente in gomma nera. A monte ci sono dei terrazzamenti, che sfruttavano anche questo fazzoletto molto umido e molto ripido, mentre a valle c'era un castagneto, piantato in una zona insolitamente vicina al mare per questi alberi, sfruttando il microclima più fresco e umido dato dall'impluvio. D'altronde a Paraggi ce ne sono quasi in riva al mare, in una zona altrettanto riparata dalla calura mediterranea.
Schiara, i suoi gatti e i suoi ricordi
Il sentiero prosegue a mezza costa, restando alto sulla profonda incisione dalla bassa vegetazione, e offrendo così un po' di panorama sul mare. Transita quindi accanto a una placca anch'essa con dei lecci aggrappati alle fessure, ricoperta però stavolta di licheni. Raggiungo la strada vicino al suo termine, dove c'è qualche auto parcheggiata e ne arriva una bianca di un signore veronese di mezza età, che di lavoro pota i vigneti nella zona del Bardolino e del Custoza e viene qui a esercitare la medesima attività, ma gratuitamente per un'associazione. Anche lui come me venne qui una volta come turista e si innamorò così tanto del posto da volerci tornare come volontario. Mi spiega che qui c'è sia chi fa il vino per sé, sia chi lo fa come lavoro, anche se magari non unico, e c'è una cooperativa che dà supporto ai contadini.
Riprendo il sentiero ed entro nella zona dei vigneti. Passo inizialmente per una delle rare zone pianeggianti di Tramonti, detta Campodonico, che si affaccia direttamente sul mare, blu intenso al largo e acquamarina vicino alla costa. Voltandomi, osservo anche la zona terrazzata da cui sono transitato prima di giungere alla fontana, che da dentro non avevo visto per la fitta vegetazione che circondava il sentiero, e dove ci sono diversi terrazzamenti recuperati e casotti in pietra sparsi.
Il signore di Verona ha raggiunto un anziano con un maglione sgargiante, che lo aspettava nel suo appezzamento. Li lascio e continuo a scendere tra vigneti, case sparse e mimose fiorite. I vigneti sono fatti crescere legati a un palo e si estendono quindi sulla superficie del terreno reggendosi a graticole tramite legature di ginestre (un sistema detto autedo), tenute in ammollo per ammorbidirle. Le graticole restano molto vicino al suolo, perché qui è caldo e secco; ciò inoltre consente di sfruttare la protezione dai venti marini del muretto a valle del vigneto. Si tratta di un sistema di coltura analogo a quello greco e pertanto molto diverso da quello etrusco più comune sui terreni grassi e umidi nel Nord Italia, dove la vite era maritata ad alberi o comunque legata a pali alti. Una volta questi graticci non esistevano, ma la vite era legata a un solo corto paletto. Questo sistema richiedeva però una gran quantità di lavoro e la manodopera di un'intera famiglia, per cui oggi è stato abbandonato. Ad ogni modo, anche oggi la faticosa zappatura per preparare il terreno con il raspo (una zappa a due punte), deve essere condotta interamente a mano. Questa tecnica non è inoltre compatibile con la coltura promiscua, che era invece comune nell'Italia Settentrionale e fa pensare invece che sia sempre stata praticata la monocoltura di vite, analogamente a quella dell'olivo e Ponente. Ciò non significa che il terreno andasse sprecato: anzi, per produrre cibo si sfruttavano pure gli interstizi dei muri a secco, dove cresce spontaneo il cappero, di cui si raccoglievano anche i fiori, che erano conservati sotto aceto e usati come aromatizzanti. A volte il graticcio era sistemato in posizione verticale, accanto al muro a secco, e l'uva maturava sfruttandone il calore. I muri in pietra a secco, oltre a fornire protezione contro il dilavamento, esercitano infatti un'azione mitigatrice sul microclima, perché assorbono il calore di giorno e lo rilasciano di notte, favorendo così la maturazione dell'uva. Gli appezzamenti sono tutti cintati e sprangati, da bene prezioso quale sono. Verso occidente spuntano Monesteroli e Punta Mesco, l'ultimo elemento chiaramente riconoscibile, perché oltre tutto è reso confuso dalla foschia, a parte le Alpi Liguri che svettano al di sopra. Qui fa infatti decisamente caldo. A oriente invece l'accecante scia del sole si sta allontanando dalle isole e lambisce la costa. Il sentiero continua a scendere a zig-zag tra gradini, vigneti e tratti lastricati. Verso valle il pendio sembra precipitare quasi verticale sul mare. Un metro di muro di sostengo a monte è franato. Raggiungo il nucleo denso di Schiara, dove tutte le case seguono il medesimo modello, a due piani. Al piano terra, di fronte all'ingresso dove c'era la cantina, si trova uno spiazzo detto pozza, dove avveniva la vita sociale al termine dei lavori. Oggi alcuni hanno costruito un balcone, di solito in cemento, a sovrastarlo, per avere una terrazza all'altezza della parte abitativa della casa, che è il primo piano, più ampio del sottostante, perché costruito sul livello superiore dei terrazzamenti. Una casa ha adoperato dei cerchi di botte come steccato. Non si vedono fili elettrici e rari sono i pannelli solari: qui si vive ancora senza corrente. Anche l'aspetto degli edifici è molto rustico ed essenziale, come la vita condotta in essi. Qualche casa è abbandonata.
Lungo la discesa tra le case raccolgo una nutrita colonia felina, di varie età e colori, come se avessi un piffero per ammaliarli. Certamente non sono sterilizzati, come si capisce anche dalle orecchie di qualcuno, rovinate dalle battaglie. Probabilmente fanno riferimento ai turisti per nutrirsi e mi vedono quindi come una fida gattara. Per loro sfortuna, non ho pensato di portare crocchette e non amo i salumi, per cui posso solo condividere con loro parte della mia focaccia salutista ai cereali integrali. Ad ogni modo, sembrano apprezzarla, perché la spazzolano senza titubanza, per poi disperdesi e tornare alla loro occupazione principale, ovverosia sonnecchiare al tiepdo sole. Mi fermo alla semplice chiesa dedicata a sant'Antonio da Padova e mangio la parte di focaccia che non ho spezzettato per i gatti. Mi accorgo di essermi dimenticato di mettere la frutta nello zaino, dove c'è una singola arancia. Il tè caldo che mi sono portato oltre all'acqua è del tutto fuori luogo. Me ne resto anch'io a lungo a godermi il sole come i gatti.
Vado verso il sentiero per la spiaggia del Cantun, non indicato, e lo trovo interdetto per frane da una sbarra. Non riesco neanche a raggiungere un buon punto di vista per un primo piano allo scoglio Ferale. Questa roccia era chiamata dai biassei “Roca de la Gaiada”, per come affrontava gagliardamente le bufere di libeccio. Dal 1888 in cima, oltre ai nidi dei gabbiani, c'era una croce di marmo bianco, posta per ricordare un ufficiale di Marina morto durante un rilievo. Franò il giorno della festa di sant'Antonio del 1982, durante un violento temporale, e qualche anno dopo fu sostituita da un'altra in acciaio inossidabile. Quando si perde un sentiero, si perde anche un enorme valore culturale, che i luoghi rivestono per gli abitanti: ad esempio questa spiaggia è piena di ricordi della microstoria dei biassei.
Nei pressi c'era una piccola grotta, invisibile a chi non ne conoscesse l'ubicazione, che durante la Prima Guerra Mondiale offrì ricovero ad alcuni disertori di Biassa, che si erano rifiutati di tornare al fronte dopo una licenza. Alla spiaggia del Cantun c'era anche una delle tante piccole cave costiere di arenaria, la stessa roccia estratte attorno al paese. La differenza è che là erano estratti grandi blocchi che servirono a costruire l'Arsenale della Spezia o a lastricare le strade e a volte furono anche esportati fino in terre lontane; qui invece erano estratte piccole pezzature, che poi erano portae via per mare, su piccole imbarcazioni che si avvicinavano alla riva ed erano raggiunte a piedi su tavole. La disponibilità di esplosivo connessa all'attività estrattiva alimentò anche una pesca di frodo, che poteva arricchire la magra dieta dei biassei con proteine nobili, ma era assai pericolosa e causò non poche vittime tra mutilati e morti.
Schiara-Campiglia
Dalla chiesa proseguo in piano, attraversando altre casette, fino a raggiungere una casa con giardino, dove trovo un altro lavoratore saraceno, che porta un secchio sulle spalle. Arrivo a un impluvio, da cui proseguo su un sentiero sempre più sottile, schiacciato tra il muro a monte e il precipizio a valle. Mi offre la miglior vista d'insieme su Schiara; scattare la foto mi costa qualche manovra, perché lo zaino che sporge dalla schiena e la borsa fotografica dal petto vanno a urtare il muro a secco, quando tento di girarmi, rischiando di farmi ribaltare nel burrone. Raggiungo la base di una scala di gradoni di pietra, che risale tra le fasce e le casette di Costa. Vedo un gatto bianco e rosso abbandonare un desco dove resta qualche traccia di gelatina: mi sembra che abbia mangiato carne in scatola, per cui qualcuno che li nutre c'è. Intanto un gatto della colonia di Schiara, che mi ha seguito fin qui, mi supera e mi precede, prima di disperdersi. La scala si inerpica più ripida che mai, rendendo più affannoso il mio respiro, per quanto salga lento. Ad un certo punto, voltandomi, noto comparire lo scoglio Ferale. Odoro del fumo di legna e vedo un signore sistemare un muro a secco in una casa vacanze, mentre un altro sta salendo con la monorotaia, lungo quella che sembra essere l'unica via di accesso turistica del borgo: né il sentiero da cui sono arrivato né quello da cui mi allontano lo sono.
Lasciate le case ed entrato nel fitto bosco mediterraneo, il sentiero continua a salire a erti gradoni. Un punto di vegetazione più rada offre uno scorcio sul mare ormai familiare. Ho raggiunto la quota degli insediamenti più elevati di Schiara. C'è qualche albero caduto, ma qualcuno si prende cura del tracciato, segando gli ostacoli più ingombranti. Raggiungo il bivio con il sentiero che taglia in quota a valle di Campiglia, il cui imbocco è ostruito da un pino caduto. Svolto a sinistra e descrivo un traverso. Trovo un altro bivio, dove prendo a destra e ricomincio a salire ripidamente. Stavolta sembra sgombro l'altro sentiero, che taglia a monte di Schiara e va verso quello da cui sono sceso. Passo da una scalinata irregolare tra due muri a secco molto ravvicinati, forse l'unico punto fotogenico del percorso, altrimenti nel caos primordiale del bosco selvaggio. A quota 350 m raggiungo il sentiero tra Campiglia e Fossola. Va detto che questo percorso è riportato numerato sulla cartina, ma sul terreno non ci sono segnavia né cartelli: servono una descrizione o una traccia GPS per imboccare le diramazioni corrette.
Subito il paesaggio si civilizza: la vegetazione spontanea si fa meno avvolgente, accanto al sentiero corre un tubo nero per l'acqua e a monte, sorretto da un muro a secco, c'è un vigneto. È abbandonato, seppure da non molti anni, ancora ordinato e con dell'erica bassa. Probabilmente è morto il conduttore, oppure è divenuto troppo vecchio per occuparsene, senza che ci fossero eredi più giovani interessati ad rilevarlo. Spero che non sia il destino di tutto questo territorio, ma qualcosa rimanga anche alle generazioni future. Raggiungo quindi la barriera contro i cinghiali, nei pressi di una grande placca inclinata. Qui la vegetazione si dirada molto, consentendomi di ammirare le case di Schiara molto più in basso e le Alpi Liguri oltre il mare. Oltre la rete è danneggiata, ma non compromessa, dalla caduta di pietre e poco più avanti vedo una prima casa. In breve sono tra le case colorate di Campiglia, allungate lungo la dorsale tra il mare aperto e il golfo di La Spezia.
Noto con gioia che il bar-alimentari è aperto: visto che ho portato poco cibo e ho dovuto condividerlo con i gatti, posso integrarlo con un panino al pecorino e due arance. Sento le campane suonare il mezzogiorno e due gatti maschi confrontarsi con gli inconfondibili miagolii, per poi inseguirsi tra stridii laceranti. Dopo pranzo vado a bere un caffè, non dei migliori, ma pur sempre un vero caffè. Mi sono sistemato su una panchina di fronte alla chiesa, con lo sguardo rivolto al mare. Provo a prendere il binocolo. Riconosco chiaramente la forma del Bric del Dente, nel gruppo del Beigua, ma anche, con i contorni e i dettagli resi incerti dalla foschia, mi sembra di intravedere la piramide del Monviso innevata. Incredulo, con la bussola prendo l'azimut per controllare poi da casa con la cartina stradale della Liguria, se ho visto davvero il Re di Pietra o dei canali su Marte.
Campiglia-Monesteroli. Le fasce dei liguri
Torno sui miei passi lungo il sentiero in piano diretto a Fossola. A Campiglia la temperatura era fresca per la brezza, che qui credo sia quasi perpetua, data la sua posizione su un crinale tra le Cinque Terre e il golfo di La Spezia. Non appena inoltratomi sul versante di Tramonti, la brezza si placa e la temperatura sale repentinamente, consentendomi si camminare in maglietta. Da questo dettaglio appare chiaro uno dei motivi che spinse i biassei a piantare viti su questi pendii impervi. Supero il bivio con il sentiero di salita e proseguo in piano verso Nozzano. Attraverso altre zone terrazzate e riprese dal bosco. Quasi tutto il versante dove vagabondo oggi doveva essere ricoperto di vigneti. Sittoni lo descrive con una metafora esotica e bizzarra, ricavata da un'immaginario sorvolo: «La disposizione ondulata e l'uniformità di questi vigneti è fantastica, fa pensare a una miriade di serpenti boa addormentati». Qualche vecchia foto aerea presente sul Dizionario di Natale-Cavallini dà l'idea anche ai contemporanei di come apparisse questo territorio prima dell'abbandono: una «seconda Natura, che opera a fini civili», per rubare l'espressione del Viaggio in Italia di Goethe. Questo colossale progetto di modellamento del paesaggio a beneficio dell'uomo, davvero all'altezza dei più sfrenati sogni faustiani di progresso e domesticazione della natura, non ha lasciato documenti scritti, per cui non sembra essere stata ideata da qualche importante istituzione, ma di una comunità marginale.
Non è pertanto dato sapere quando tutto questo si concretizzò. Anche se in scala ridotta esistenti già in epoca classica o anche preistorica, come in alcuni castellari, le sistemazioni a terrazze, dette fasce in Liguria, sono documentate nel trattato agronomico di Pietro de' Crescenzi e cominciano a diffondersi dal secolo XIII, ma si tratta ancora di iniziative di singoli: all'epoca mancava ancora la struttura sociale che avrebbe portato alle iniziative collettive, come ben si vede nel coevo e celeberrimo dipinto del Buon Governo del Lorenzetti, dove tutte le opere di domesticazione del paesaggio sono su piccola scala. Nel Decamerone alcuni personaggi osservano meravigliati un paesaggio a ciglioni, come se fosse una stranezza. Difatti in quel periodo l'olio d'oliva, il principale prodotto delle fasce liguri, era un bene costoso e Genova, quindi raro. Nei due secoli successivi, l'occupazione, della collina prima e dei pendii più scoscesi in seguito, si fece più sistematica. Inoltre, la progressiva erosione delle proprietà comuni e l'intervento sempre maggiore di capitali, proveniente dai commerci in crisi, portò per gradi a una sistemazione di tipo intensivo, consapevole e pianificata, che richiedeva molto impegno di manodopera e investimento, tanto per la costruzione che per la manutenzione; aveva però il vantaggio di arginare l'erosione del suolo dovuta al dilavamento, manifestatasi con i disboscamenti e le prime rudimentali forme di coltura sui terreni acclivi. Questo fenomeno è particolarmente grave in Liguria, regione soggetta a violenti temporali, specie in autunno, che anche in anni recenti hanno causato non pochi disastri. Nel 1533 la quattordicenne Caterina de' Medici, di passaggio a La Spezia per andare a contrarre matrimonio a Marsiglia con il futuro re di Francia, bevette del vino prodotto a Biassa: questo episodio spinge a ritenere che già allora fosse prodotto del vino di qualità a Tramonti, anche se questa notizia non ci fornisce ragguagli sulla sistemazione del territorio. I corografi del tempo, come il Giustiniani (1543), citano le Cinque Terre e il loro vino, esprimendo meraviglia per il territorio «tanto erto e sassoso che non solamente è difficultoso alle capre montarli, ma è quasi difficultoso al volare degli uccelli, arido e seco». Esprimono meraviglia per il lavoro di domesticazione, che produce un «vino tanto eccellente quanto dir si possa, e non è Barone, Principe, né Re alcuno, qual non si reputi a grande honore quando alla sua tavola si porge il vino delle Cinque Terre». Nessuno di costoro cita Tramonti, anche quando nomina Biassa, però il Giustinani sembra comprenderlo quando fornisce l'estensione del territorio, computata in oltre venti chilometri. Dopo il regresso del Seicento per i fattori climatici, le pestilenze e le guerre, il processo si accentuò nel Settecento, quando il flusso dei capitali si riversò nuovamente dai commerci in decadenza verso le campagne. I vigneti di Tramonti producevano infatti del vino di qualità eccellente, che forniva ricchi profitti e consentiva un rapido ammortamento dei costi di impianto. Si trattava pertanto di un'impresa volta al mercato e non alla sussistenza autarchica di una comunità: infatti le coltivazioni e l'estensione delle fasce mutò nel tempo, al variare di fattori di mercato come i prezzi o la concorrenza. Non è un caso nemmeno che fossero vicino al mare, a quei tempi via di commercio assai più importante della terra. I Filemone e Bauci di questa impresa furono gli strati più poveri della popolazione, che dall'uso comunitario dell'incolto traevano i pochi mezzi di sussistenza, e, se non furono fisicamente eliminati come le loro controparti letterarie, si trasformarono però in proletari agricoli senza terra né mezzi di produzione, alla mercé dei precari contratti a chiamata. La massima espansione si ebbe sul finire dell'Ottocento, quando la grande esplosione demografica di quel secolo, non accompagnata da uno sviluppo adeguato delle tecniche agricole né dell'industria, portò a mettere a coltura ogni terreno disponibile, fin nei recessi più reconditi delle zone impervie. La crisi delle fasce liguri, tanto per l'olio come per il vino, fu causata dal progresso: fu infatti lo sviluppo delle ferrovie nella seconda metà dell'Ottocento, che migliorò in maniera drastica i trasporti terrestri, unito all'unità d'Italia, a consentire al meridione di specializzarsi nelle colture arboree mediterranee e di soppiantare le produzioni del Nord.
Nei pressi di un impluvio, a valle del sentiero c'è una piccola frana, che finora non l'ha interessato. Incontro poi un vigneto, ricoperto da un telo bianco traforato e protetto dai venti marini con un altro tello fissato a un reticolato metallico. Sono poco sopra Schiara. Attraverso poi altri vigneti con casette di pietra. Raggiungo la strada, con un asfalto molto ruvido per neutralizzare la scivolosa umidità salmastra, dove sono parcheggiati un furgone e delle auto. Raggiungo il punto dove avevo incontrato il veronese e proseguo a ritroso verso la fontana di Nozzano, dove mi fermo a bere un bicchiere. Prima di arrivarci, incrocio il primo saraceno visto stamane, che sta tornando all'auto.
Alla fontana lascio il sentiero di stamattina e proseguo in piano per Fossola, tra terrazzamenti ripresi da un bel forteto di lecci. Al suo termine trovo una casetta tenuta con vista sullo scoglio Ferale e entro in una zona di macchia molto calda. Attraverso quindi un'altra zona di casotti e vigneti, in parte tenuti, in parte abbandonati, ma da non molto tempo. Manco un bivio, perché proseguo dritto dove il sentiero scende di un piano, sfruttando le scalette a sbalzo sporgenti dai muri a secco, costruite in modo da evitare il consumo di spazio dei sentieri interpoderali. Me ne accorgo tuttavia subito, perché trovo la strada sbarrata dalla vegetazione e vedo sotto la traccia marcata. Più avanti raggiungo una monorotaia, senza cui oggi il lavoro tra questi vigneti sarebbe improponibile, perché le alternative meno faticose e remunerative non mancano, a differenza di una volta.
Sono sulla scala di Monesteroli. Scendo gradualmente tra vigneti e macchia, ammirando il panorama che a occidente si apre su Fossola e Punta Mesco. La monorotaia termina e trovo una teleferica in disuso, che una volta scendeva fino a Monesteroli, oggi invece raggiungibile solo a piedi. Il motore era una vecchia Lambretta, scarnificata e adattata allo scopo. Subito oltre compaiono le cantine in basso e inizia il tratto più spettacolare e vertiginoso della scalinata. Il manufatto è moderatamente affollato, per una giornata feriale invernale, seppure mite. Ci sono più che altro coppie di varie età, la più giovane delle quali è stravaccata in modo da ostruire il passaggio. «Buongiorno, permesso» «Eh, siamo messi proprio in mezzo» «È un bel posto per prendere il sole», accondiscendo. Noto la cupola del santuario di Montenero, sopra Riomaggiore, la cui insenatura naturalmente da qui è invisibile. Incontro un arrancante canuto e non resisto alle tentazione di fare del sarcasmo sulla fatica, a cui risponde gentilmente.
Monesteroli
Proseguo poi nella discesa, senza più incontrare vigneti tenuti, ma sempre nella macchia tra i vecchi muri a secco, e raggiungo infine le case, anticipate da un agave, che nel dialetto locale è detta gardagiardin, perché era comunemente impiegata come segno di confine. Non noto invece l'edicola dedicata a san Pantaleone. La storia del suo martirio vuole che i persecutori avessero ripetutamente tentato invano di ucciderlo, ogni volta con un nuovo mezzo, ma lui risultava immune a ogni tortura. Si ritrova questa invulnerabilità del santo anche in altri martirologi (come quello popolarissimo di san Sebastiano) e una volta Berlusconi in un salotto televisivo raccontò una versione di questa storia in forma di barzelletta, con sé stesso come protagonista. Per questo e per la sua professione di medico, Pantaleone protegge dalla consunzione ed è quindi molto appropriato in questa posizione, per i contadini e i camalli che viaggiavano su questa scala sotto il peso di attrezzi o barili di vino. Trovo un singolo abitante, un signore sulla sessantina, che sta sistemando una porta ed è accompagnato da un cagnetto molto affettuoso e coccolone. La sua casa è aperta e la tentazione di curiosarvi è fortissima, ma mi comporto discretamente. Non so quanto darei per scoprire come vivono, cosa si portano, com'è arredata. Scendendo accanto alla scala ho visto un grande tubo metallico per l'acqua, per cui non sono dipendenti solo da scarsa acqua piovana, come una volta, ma in compenso non ci sono fili della luce e anche i pannelli solari sono rari e di dimensioni ridotte al minimo. Tuttavia qualcuno ha il ponte radio, per cui un po' di corrente deve esserci. Noterò poi anche che la rete GSM prende bene, mentre la rete dati è al minimo sindacale. Proseguo quindi oltre le case e scendo tra gli ultimi terrazzi. Scatto una foto dal basso e a casa, riguardando la monografia di Casavaecchia, mi accorgo che ce n'è una dalla medesima posizione: la differenza è che però allora qui intorno era tutto un vigneto, mentre oggi non ci sono coltivi. Arrivo fin dove il sentiero si smarrisce in una frana di terriccio; più sotto però si vedono degli scalini che scendono al mare. Una persona più avventurosa di me potrebbe tentare di affrontarla. Poco sotto di me c'è lo scoglio Montonaio, su cui sono arenate alcune barche. Invisibile c'è pure lo sbocco di una galleria cominciata prima dell'ultimo conflitto, che avrebbe dovuto riversare qui i liquami fognari di La Spezia; il progetto fortunatamente abortì nei decenni successivi per la maturata sensibilità ambientale, che rese illegali queste soluzioni. Sopra di me vedo le case di Fossola con i dirupi sottostanti e una piccola costruzione quasi in riva al mare. Purtroppo oggi non posso includerla nel mio giro, perché il sentiero di collegamento è chiuso al transito. Non vedo invece le Alpi Liguri, perché da qui in basso sono nascoste dallo strato di foschia. Anche se oggi il mare si è calmato, dopo la mareggiata di ieri mattina, lo sciabordio delle onde accompagna i miei pensieri. Dato che qui sono all'ombra e fa fresco, decido di tornare tra le case a fare una pausa per godere il posto.
Mi fermo accanto al cancello di una delle prime case, che sembra abbandonata da qualche tempo, in un punto presso alcuni fichi d'India, da cui posso contemplare il rifrangersi delle onde sulla costa rocciosa. «Ci sono poche cose a cui possiamo abbandonarci interamente senza noia, e che disperdano l'esercito dei pensieri alla cui aggressione continua siamo sottoposti nelle nostre città. Tra queste la visione delle fiamme guizzanti, il turbinare dei fiocchi di neve e il suono cupo, scrosciante, dell'onda che si abbatte sulla spiaggia» (E. Jünger, trad. F. Cuniberto). Mi raggiunge un gatto rosso con una chiazza bianca sulla pancia, che si spazzolerà almeno metà della mia focaccia al formaggio, tentando anche di stanarne i resti dallo zaino. Vedo che ha un sottovaso della casa abbandonata dove può bere dell'acqua piovana.
Rifletto sul fatto che qui non c'è nessun luogo comunitario come una piazza o un sagrato. Magari è solo una questione di spazi risicati e la vita sociale si svolgeva a turno nei cortili privati, o magari gli abitanti erano fratturati da rivalità feroci e condividevano unicamente con la famiglia i momenti di festa e riposo. La collaborazione nel lavoro era tuttavia molto importante, in quanto certe attività, come la vendemmia o la manutenzione dei muri, richiedevano l'apporto della comunità al suo completo. Mi rendo intanto conto di quanto caldo faccia: nonostante siamo a metà febbraio, sento un caldo gradevole in maglietta. Chissà come deve essere ad agosto.
Riprendo la marcia con l'intenzione di piazzarmi a monte del punto più spettacolare della scalinata e aspettare la luce. Ritrovo il cagnetto, che viene sfacciatamente a prendersi un'altra dose di coccole e grazie a lui riesco ad attaccare bottone con il signore. Mi basta chiedergli: «Ma che caldo fa qui ad agosto, se già oggi è così?», per farlo lanciare nei ricordi. Non oso interromperlo, anche se avrei mille domande da porgli. Da giovane vinificò qui, un lavoro ereditato dal padre del suocero, che aveva mollato un impiego fisso per fare il vignaiolo. Il lavoro era molto duro, perché bisognava lavorare tutto l'anno e la vendemmia era solo una piccola parte del carico: tra le altre cose, bisognava preparare il terreno con la zappa, concimare, eseguire molte operazioni sulla vite, come togliere le foglie per far prendere più sole agli acini, potare e spruzzare la poltiglia bordolese (calce e solfato di rame) contro la filossera, tra le altre. Una volta che il vino era pronto, dei camalli assunti portavano su per la scala barili da 40 litri, facendo due giri al giorno. Ricorda con nostalgia quella gente: «Una volta facevano delle cose per noi oggi impossibili». Le osterie erano i principali clienti. Oggi i giovani sono sempre meno interessati, per cui a mano a mano che muoiono i vecchi Monesteroli va in abbandono. È triste perché pensa che un giorno tutto questo andrà a ramengo. Mi fa notare che oggi è l'unico ad essere venuto. A lui piace trascorrere qui, in maniera primitiva, senza corrente e fuori dal mondo: «niente comodo della vita, niente igiene, niente decoro domestico» (così descriveva queste case Sittoni). C'è davvero un compiacimento primitivo in costoro. C'è disinteresse anche delle istituzioni: il sentiero è strada comunale, ma il comune dice di non avere soldi per ripristinarlo fino al mare, nonostante il posto attiri tantissima gente in primavera ed estate. Mi spiega una volta c'erano terrazzamenti fino in riva al mare, oggi tutto perduto. Su questi producevano un passito dolce, detto rinforzato, distinto dallo sciacchetrà di Riomaggiore, non solo per rivalità secolare (a Biassa si sentono il lato povero delle Cinque Terre), ma anche perché l'uva era essiccata al sole, anziché all'ombra delle cantine. Questi terrazzamenti estremi erano ricavati quasi sulla nuda roccia, portando anche da lontano la poca terra, che poteva essere il pagamento di un lavoro svolto altrove. Erano continuamente sotto la minaccia di franare rovinosamente in mare: un agronomo del primo Ottocento descriveva questi disastri come un fatto abituale. Ora lui non coltiva più i vigneti (l'ha fatto per alcuni anni ancora, ma poi ha mollato), ma compra invece all'ingrosso dell'uva di varie parti d'Italia e si fa il vino in casa. «Vino naturale», sottolinea. Vino che beve da solo, perché la moglie e le figlie sono astemie.
Lo ringrazio per la chiacchierata e salgo, fino al punto strategico da cui si ammira l'infilata della scala diretta alle case. Non faccio un gran sforzo, nonostante abbia parecchie pesi superflui nello zaino, come il thermos e il binocolo, mentre i camalli che salivano con i barili da 40 litri dovevano quasi fare un esercizio tao di autocontrollo, per gestire la fatica e regolare la cadenza al ritmo giusto. I vecchi spiegavano che, oltre il ritmo, il segreto era non pensare allo sforzo, ma di concentrarsi su ricordi piacevoli. Se si era scarichi, per non sentire la fatica si percorreva la scala in compagnia di qualcuno, chiacchierando: era d'uso che la sera i contadini formassero gruppetti nel rientro a Biassa. Dalla scala stanno scendendo tre trentenni armati di reflex, uno dei quali ha le vertigini nel tratto più aereo. Intorno alle 16.45 (manca circa un'ora al tramonto e grazie alla foschia la luce si è già un po' dorata), il sole sta per finire dietro delle velature, per cui decido che è il momento. Monto i graduati per stemperare l'accecante luminosità del riflesso del sole sul mare e scatto mentre sta salendo il cagnetto, seguito a distanza dal padrone, che ondeggia faticosamente sui gradini, per il corposo zaino e il penzolante sacco della spazzatura che porta.
Il signore si ferma per altre chiacchiere. Mi conferma che nelle giornate limpide si vede il Monviso, oltre che varie isole, ma non oggi, per la foschia. Il caldo odierno, decisamente fuori stagione, gli fa rievocare gli anni freddi e le volte in cui la neve arrivò fino al mare; nel 1985, poi, gelò tutto e seccarono i fichi d'India, successivamente ricresciuti. Mi fa notare che questi proliferano qui e poi in Sicilia, per farmi capire di quale buon clima godono. D'altronde anche le sughere viste in discesa si spingono a una quota considerevole per la latitudine, che è il limite settentrionale del loro areale. Risalgo fino al primo bivio riprendendo altri scorci della scala con la bella luce. Noto che il signore, che mi precede di poco, non si dirige verso Fossola, che sarebbe l'accesso più in piano, segno che il sentiero non è chiuso per motivi precauzionali, ma è davvero impercorribile; presumibilmente ciò è dovuto alla riattivazione della secolare frana di Lama Sottana, da sempre un punto critico di questo sentiero. La scala rimane molto bella anche nell'ombroso forteto di lecci, costeggiata da grandi muri a secco, sui cui cade la luce dorata del tramonto, filtrata in chiazze dalle fitte foglie. Alcuni muri sono molto alti, anche un paio di metri. Osservandoli bene, dall'apparente caos di pietre si nota come in basso si posizionassero i massi più grandi, dopo aver opportunamente levigato la roccia sottostante, con pietre più piccole in alto e quelle più minute a fare da cuneo, in modo da fissare la struttura. Scegliere la posizione delle pietre era un lavoro paziente e di cesello, particolarmente complesso quando i blocchi non erano squadrati, come nei casi che sto osservando in questo tratto. Inoltre i muri più alti non sono generalmente a piombo, ma pendono verso monte. Anche la parte invisbile dietro era importante: bisognava infatti dosare pietrisco e terriccio a contatto con il muro, per filtrare adeguatamente l'acqua durante le piogge, in modo che non caricasse la struttura al punto da metterla in pericolo. A dimostrazione dell'abilità dei costruttori, sono ancora qui, sia questi che altri, anche nelle zone dove non si coltiva più da decenni. Finalmente la temperatura diventa fresca, nelle zone non raggiunte dal sole questo pomeriggio. Ritrovo il bivio per Campiglia, dove ci sono i terrazzamenti e i casotti, e proseguo per sant'Antonio. Poco prima di arrivare alla strada sento passare l'automobile del signore.
Raggiungo la strada e sono in uno stato di estasi tale, affascinato dai racconti che ho udito e dai panorami appena ammirati, che nemmeno noto il Menhir di Tramonti. Proseguo lungo la strada, nella luce ora di colore arancio per il tramonto ormai prossimo; la scia del sole sul mare ha perso la sua luminosità accecante. Tento anche di fotografarla, ma la strada non si presta. Piacevoli e sommessi cinguettii mi accompagnano. La temperatura è calata repentinamente e penso che nella discesa verso Biassa, sul lato esposto a nord, dovrò indossare almeno uno strato. Arrivo alla chiesa di sant'Antonio proprio mentre una chiazza dell'ultima luce, filtrando nel bosco, la illumina. Bevo un po' di tè, grazie alla temperatura finalmente propizia, e dopo un po' d'incertezza, decido di affrettarmi per prendere l'autobus delle 18 per La Spezia. Ripercorro perciò di gran carriera la bella mulattiera gradinata e arrivo alla fermata del bus pochi minuti prima del suo passaggio. Vi trovo una signora in divisa da escursionista. La scelta ingloriosa si rivelerà azzeccata, perché a Biassa non ci sono locali aperti, dove farmi mescere un calice di rinforzato.
Mentre il bus quasi vuoto scende serpeggiando tra montagne ormai nere, invisibili per l'incipiente notte senza luna, non mi resta che prenotare un posto in un'osteria popolare del centro, in cui tengono appesa alla parete una foto della bianca chiesetta degli Angeli Custodi a Fossola. Per festeggiare la riuscita escursione ordino un piattone di mes-ciua, la zuppa dei portuali di La Spezia, una pietanza rustica e succulenta come i posti visitati oggi.
Per approfondire
- L. Bonardi - M. Varotto, Paesaggi terrazzati d'Italia: eredità storiche e nuove prospettive, Milano 2016
- A. Casavaecchia - A. Izzo, Tramonti: cantine e vigneti tra le Cinque Terre e Portovenere, Genova 1988
- A. Cattabiani, Santi d'Italia, Milano 2018
- A. Ghersi - G. Ghiglione, Paesaggi terrazzati. I muretti a secco nella tradizione rurale ligure, Gavi 2012
- G. Natale - P.G. Cavallini, Dizionario enciclopedico del dialetto di Biassa, La Spezia 2019
- G. Natale, Di là dai monti. Storie e leggende di Biassa e Tramonti, La Spezia 1999
- M. Quaini [a cura di], La conoscenza del territorio ligure tra Medio Evo ed Età Moderna, Genova 1981
- G. Rovereto, La storia delle «fasce» dei liguri, Le vie d'Italia, maggio 1924
- E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
- G. Sittoni, Le Cinque Terre. I. Biassa, Archivio per l'Antropologia e la Etnologia, Vol. XXXVII, Fasc. 2, 1907
- G. Sittoni, Le Cinque Terre. II. Campiglia, Archivio per l'Antropologia e la Etnologia, Vol. XXXVII, Fasc. 3, 1907
- G. Sittoni, Le Cinque Terre, III. I Biasseo-Campioti, Archivio per l'Antropologia e la Etnologia, Vol. XXXVIII, Fasc. 1-2, 1908
- G. Sittoni, I viticultori di Tramonti, Archivio per la Etnografia e la Psicologia della Lunigiana, Vol. 1, Fasc. 1-2-3, 1911
- M. Vinzoni - M. Quaini [a cura di], Pianta delle Due Riviere, Genova 1983
- A. Casavaecchia - A. Izzo, Tramonti: cantine e vigneti tra le Cinque Terre e Portovenere, Genova 1988