Dalle Alpi al Mediterraneo
Val Roya
7-10 aprile
In un baleno
Fontan è la prima meta. Poco più che qualche fila di case colorate e scrostate, tra il fiume e la statale. Cognomi italiani sulla stele dei morti per la France nel 14-18, uno sbiadito nero di anilina per il CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE dell'occupazione. Un albergatore che compra la polenta cuneese e per gli italiani cucina la pasta al dente, ma ci tiene a far sapere che cruda così non la mangerebbe mai. E tiene tre Renault 4 lustre in fondo al prato
Diario di viaggio
« Là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell'Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde - da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. »
(Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis)
Il treno arriva a Tenda in una mattina incerta se offrire il sole o le nuvole. Il banchetto di un formaggiaio locale che offre la tome, formaggio tipico piemontese qui con nome transalpino, ben descrive le vicissitudini di questa valle, che nell'ultimo secolo e mezzo ha vagabondato a tocchi tra Italia e Francia. Ha la caratteristica unica di nascere sui Tremila delle Alpi Marittime e di scendere abbastanza in fretta fino a Ventimiglia: offre così la possibilità di attraversare ambienti diversi in soli quattro giorni di cammino.
In più ha il vantaggio di essere percorsa da un'ardita ferrovia che unisce Cuneo con Ventimiglia. Fu costruita tra fine Ottocento e inizio Novecento, distrutta dalla guerra, ripristinata nel 1979, e rende l'accesso molto semplice.
Si comincia dagli stretti carruggi del paese vecchio. Non so se il nome ligure sia quello esatto, ma appropriato lo è senz'altro.
L'ambiente che si incontra fuori dal paese è alpino: abeti, pini silvestri. La primavera ad aprile fatica a svegliarsi. Molti alberi spogli, qualcuno con le foglie autunnali, poche foglioline verdi. Quando si varca la prima dorsale, lo sguardo si perde nella prima infilata di costoni a ritmo alternato che sfumano nel blu. Che si cammini su versanti solatii o in boschi ombrosi avvolti dall'edera, si scorgono mille pareti e picchi di calcare bianco, chiazzato di arancio e nero. Siamo scesi poco di quota, ma ci siamo già tuffati nella primavera: boschi verdi tenero, fioriture bianche.
Fontan è la prima meta. Poco più che qualche fila di case colorate e scrostate, tra il fiume e la statale. Cognomi italiani sulla stele dei morti per la France nel 14-18, uno sbiadito nero di anilina per il CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE dell'occupazione. Un albergatore che compra la polenta cuneese e per gli italiani cucina la pasta al dente, ma ci tiene a far sapere che cruda così non la mangerebbe mai. E tiene tre Renault 4 lustre in fondo al prato. Quant'è buona la baguette al mattino, calda appena sfornata, tanto quanto è plastica la sera.
Prima di cena cerco di dare un senso al chilo di cavalletto che mi porterò appresso per quattro giorni. Scendo sul letto del Roya a riprendere l'acqua che accarezza sinuosa i sassi colorati. Ripeterò l'operazione al mattino provando col fiume ancora immerso nella penombra e i lontani picchi illuminati dalla luce arancio del primo sole.
Lasciamo Fontan proprio mentre la luce del sole si fa strada nella valle e andiamo a cercarci un pendio ancora in ombra, per salire ripidi ma al fresco. Passati un po' di cespugli invasivi, si guadagna un bel bosco di pini silvestri con vista sulla neve delle Alpi. Arriviamo su un dosso spoglio proprio nel momento in cui il sole sbuca da dietro il pendio. La luce taglia in due gli abeti. Dopo un traverso dove compaiono i pini domestici, si scende su Saorge, che ben presto mostra i suoi tetti magenta e suoi ulivi.
Saorge è nata quando un depliant turistico ha fatto l'amore con un reportage etnografico: le strette vie lastricate, le case medievali, i deliziosi gatti socievoli, la vecchietta con la baguette che ci saluta. Ai margini del paese, un monastero rinfrescato dalle fronde degli abeti.
Si scende quindi al guado del Bendola, subito fuori da una stretta gola in cui il torrente forma un laghetto verde smeraldo. In alto, nel punto più stretto, c'è una arco in pietra di quella via, forse un acquedotto, che si vede contro le pareti di roccia lungo il Roya, scendendo per la statale. Ottimisticamente mi ero portato il cavalletto, supponendo che ci saremmo fermati qui per un po', vista la bellezza del luogo, ma superato il guado il gruppo riprende a marciare senza tregua. Non mi resta che improvvisare una foto al volo. La truppa non si ferma neanche poco dopo, dove il Roya scorre come un serpente tra due pareti di calcare. In compenso li trovo fermi a pranzare poco dopo, nel punto più ventoso del percorso. Chi va in montagna è gente molto strana.
Nel pomeriggio seguiamo per un po' il fondovalle, in un ambiente sassoso in cui però gli alberi hanno messo le prime foglie, per cui si marcia in una tavolozza di toni di verde chiaro. Qualche scorcio sul fiume, che scorre verde tra le rocce, purtroppo non fotogenico a causa della vegetazione che si frappone. Poi il sentiero risale a erti tornanti il pendio. Un sentiero così ben tracciato non è certo un'invenzione degli escursionisti moderni, che di solito vanno su per la via più diretta. Infatti compare una fontana in cemento, evidente segno di addomesticamento della zona, neanche tanto vecchia. Di lì a poco segue una casa diroccata tra terrazzamenti e oliveti abbandonati, in mezzo ad una zona altrimenti selvaggia. In tempi di magra si colonizzava ogni angolo possibile.
Una discesa e una nuova salita ripida portano ad un balcone panoramico, da cui salutiamo le Alpi innevate. Un affettuoso micetto domestico, che mi appoggia le zampe sulle guance facendo purr purr, ci viene incontro sulla salita ad annunciare una zona ancora abitata. Siamo infatti ormai in vista di Breil. Girata la testa di fronte a uno scheletro di cemento, permesso dalla sterrata che arriva fin qui, la vecchia mulattiera ci trasporta in un ambiente ormai mediterraneo: pini, cisto con i suoi caratteristici fiori stropicciati, uliveti ancora sfruttati.
Il nucleo storico di Breil si snoda tra strette viuzze su cui si affacciano case vivacemente colorate. Si inganna l'attesa per il treno che ci riporterà in albergo, leggendo gli SMS, bevendo una birra, riguardando le foto della giornata, scattando foto artistiche ai binari. Da un treno scende un nutrito gruppo di turisti orientali e attende una coincidenza. Non sono giapponesi, direi piuttosto di qualche nazione indefinibile del Sudest asiatico, ma come i loro cugini maggiori sono armati di macchine fotografiche di ogni foggia e dimensione e riprendono sé stessi e ogni mattone della stazione.
Il mattino dopo il cielo è coperto da spessi nuvoloni blu e così sarà anche il giorno successivo. Non sono mai riuscito a decidere se sia più piacevole girare col sole alto o con cieli cupi. Certo un aspirante fotografo vorrebbe solo luci radenti o cieli atlantici, ma non li si incontra quasi mai. In fondo mi piacciono entrambi a loro modo: solo i cieli grigiastri, di nuvole alte e sottili mi deprimono.
Andiamo a prendere il treno che ci porta a Breil. La stazione di Fontan-Saorge merita un suo reportage. Ordinati segni di abbandono, un grande edificio ben tenuto e dimenticato, un monitor sfondato, niente sporcizia per terra, composte scritte di protesta lasciate dove non deturpano.
La prima mezz'ora dopo Breil è la più bella del trekking. La mulattiera è ancora quella storica, tanto che sembra di camminare nel medioevo attraverso porta Genova. O attraverso le ere geologiche, quando si ammirano le rocce sedimentarie arancioni e nere emergere dalla vegetazione. Il Roya scorre poco sotto di noi in una gola rocciosa, ma le ripe si fanno più dolci sono stati ricavati terrazzamenti coltivati a ulivi.
Nel tratto da Libre a Airole il fiume e i suoi affluenti scorrono in una zona molto selvaggia, di incassate gole boscose. Chissà che foto si potrebbero ricavare facendo un giro in mongolfiera. Però ogni tanto il paesaggio muta aspetto in maniera radicale, perché le zone meglio esposte in passato erano state terrazzate e coltivate a ulivi, oggi abbandonati. Gli ulivi lasciati allo stato naturale diventano alberi anonimi, perché perdono quella forma torta e breve del tronco che hanno quando sono potati per facilitare la coltivazione e la raccolta delle olive.
Con una deviazione, raggiungiamo un'amena pozza del fiume, che nelle roventi estate deve essere una fresca piscina. Però nel freddo pomeriggio odierno non è il caso di fare esperimenti. Quando riguadagniamo quota sul sentiero principale, e dominiamo la statale dall'alto, ci gustiamo con perfidia la coda del rientro di Pasquetta.
Al mattino l'atmosfera è plumbea. L'aria gronda umidità, che in alto condensa in spessi nuvoloni; anche se la temperatura è fresca, camminando si suda parecchio. Una bella mulattiera ci conduce per zone di terreno povero, di macchia e radi pini, fino ad una zona isolata che in passato era abitata, come dimostra un imponente muro a secco che costeggia il sentiero. Raggiungiamo la morbida dorsale tra val Roya e val Nervia, che seguiremo fino a Ventimiglia. Costruzioni militari diroccate ricordano antiche rivalità. Qui sono evidenti le cicatrici della cocciniglia, un parassita che secca la resina dei pini e li uccide dal basso. Antiche pinete sono ridotte a macchia, dove campeggiano pochi pini malati e gli scheletri di quelli morti da poco. Gli altri sono a terra. Ma ci rincuoriamo perché ormai si vede il mare.
Scendendo di quota compaiono i segni dell'uomo: case rurali, un vigneto. Ammiriamo dall'alto il borgo medievale di Dolceacqua. In un punto raggiunto dalla strada, pranziamo su un prato tra i resti del picnic di Pasquetta: mucchi di cenere, posate di plastica, cartacce, vomito.
L'estrema periferia di Ventimiglia ci accoglie con i latrati dei rumorosi cani di ville su una collina. Superato l'ultimo dosso, la dorsale precipita brulla verso il mare. Purtroppo non si arriva nel centro storico, che è sull'altra riva del fiume, ma tra i palazzoni in stile Quarto Oggiaro della parte nuova, vicino alla stazione. Stazione che un anno fa (sembra un secolo) era affollata di tunisini in attesa di un passaggio verso la Francia, mentre oggi c'è l'atmosfera familiare di nonni con nipoti di ritorno dalle vacanze di Pasqua.
Non resta che andare in spiaggia, via gli scarponi e le calze, camminare a fatica sui ciottoli fino al bagnasciuga, ad aspettare che il mare gelido ci venga incontro a bagnare i piedi affaticati.