Abbazia di San Pietro in Varatella
Monte Carmo di Loano
6 maggio
In un baleno
Scelgo questa escursione per rivedere un po' di mare, a oltre un anno di distanza dall'ultima volta e dopo un inverno di domicili coatti pandemici, che mi hanno impedito le consuete gite in treno sulla costa di Levante
Diario di viaggio
L’abbazia di San Pietro in Varatella sorge sull’omonimo monte, lungo le pendici meridionali del Monte Carmo, vicino al Monte Ravinet, a cui è collegato da un istmo. Il monte principale è «celebrato per la sua altezza», dice il Giustiniani nel Cinquecento, probabilmente perché si affaccia direttamente sulla costa con la sua forma conica e il suo ripido versante meridionale e quindi, nella prospettiva di chi osserva la Liguria interna dai paesi costieri appare slanciarsi verso il cielo, sebbene sia più basso di alcuni monti circostanti come il Galero.
Scelgo questa escursione per rivedere un po' di mare, a oltre un anno di distanza dall'ultima volta e dopo un inverno di domicili coatti pandemici, che mi hanno impedito le consuete gite in treno sulla costa di Levante. Sono a malapena riuscito a fare una spedizione a Genova, durante una finestra, per procurarmi della focaccia per una cena a tema. Un monte delle Alpi Liguri può parere una scelta bislacca per assaporare il mare, di solito piuttosto accomunato al bagnasciuga balneare, ma è il posto più vicino a casa mia da cui lo posso ammirare vasto e in solitaria.
Poco sopra il Giogo di Toirano, dove si incontrano aria marina e continentale e pertanto soffia quasi sempre vento, sono addensate delle nuvole spesse e pervasive. In Piemonte, fino al colle dei Giovetti, c'era il sole e le previsioni meteo lasciavano sperare che fosse così anche in val Bormida e sulla costa: quelle regionali si dicevano concordi e solo una di quelle nazionali paventava nubi basse, ma purtroppo aveva ragione l'unica Cassandra. L'aria però non è fredda, nonostante soffi una brezza dai quadranti settentrionali: parto poco coperto, ma ben presto sarò in maglietta.
Il sentiero segue l'ampia dorsale, prevalentemente boscosa. Il bosco è misto e, soprattutto in basso, in genere formato da alberi di medie dimensioni, a volte persino di portamento cespuglioso, ma ci sono anche alcuni esemplari imponenti, che provo a fotografare senza grande successo. Noto con molto piacere che il CAI di Loano ha rinfrescato le segnalazioni di un paio di sentieri diretti dalla dorsale verso Ca' du Fo (casa del faggio), un punto sulla dorsale meridionale dove ci sono delle costruzioni rurali in pietra a secco.
Supero alcune caselle dirute. Sono degli edifici rurali in pietra a secco, usati come ripari occasionali dai pastori transumanti di pecore, comuni in una vasta area di savonese e imperiese, ma presenti pure sulla Montagna di Fascia a est di Genova, dove aveva luogo una transumanza ovina e documenti di inizio Novecento attestano la costruzione di edifici analoghi. Presentano un'architettura che ricalca modelli diffusi in tutto il Mediterraneo sin dalla notte dei tempi: sono infatti la struttura più semplice da ideare sulle montagne calcaree, dove c'è molta disponibilità di sassi di forma irregolare e la necessità e di eliminarli dal terreno a beneficio dell'agricoltura. La forma della pianta è molto variabile, mentre la copertura è a falsa volta, a tholos, direbbe chi ha fatto il classico: al di sopra dei muri ci sono dei cerchi concentrici di pietre, rastremati verso l'alto, sovrastati da una lastra di pietra. Il tutto è coperto da terra con funzione di isolamento. Questa struttura non è in grado, a differenza dell'arco, di scaricare orizzontalmente i carichi ed è molto meno resistente. Per questo gli edifici che vedo oggi non sono molto antichi, in quanto non sono in grado di resistere alle ingiurie del tempo, ma possono tuttavia essere rifacimenti recenti di strutture preesistenti. Non ho mai letto di indagini archeologiche o archivistiche che ne documentino il periodo di origine.
Intanto le nubi si diradano un poco e compare la croce di vetta. Sul fango trovo qualche traccia di ungulato e di zoccoli di cavalli. Attorno al Bric Pagliarino, una modesta spalla, il terreno di fa più brullo e roccioso e compare un po' di panorama su Bardineto e colline circostanti. Con un ultimo strappo, prima nella faggeta e quindi, oltrepassata una sella, su terreno aperto, raggiungo la croce metallica issata nell'anno giubilare 1950.
Attorno alla cima c'è uno squarcio di aria tersa, ma tutto attorno è avvolto nella nebbia, che si muove celermente e sta inghiottendo ogni cosa. Riesco a vedere uno spizzico di mare, ma è grigio quasi come il cielo e non conta, ai miei fini. Un aspetto del paesaggio che colpisce chi sale qui è il contrasto di forme tra versante continentale e marino: il primo è molto dolce e presenta morbide colline alternate ad ampi solchi modellati dai vari rami della Bormida, mentre il secondo è roccioso e precipite.
I prati sono verdi e i faggi hanno le prime foglie: la primavera è appena arrivata, quassù. Sotto la cima stanno pascolando i cavalli, che un signore di Boissano lascia circolare bradi per il monte. Tengono quasi tutti i prati più rasati di un campo da golf. Uno bianco viene verso di me e io gli allungo due spicchi di mela. Non me lo leverò più di torno: tenterà pure di infilare il muso nello zaino e otterrà qualche apprezzata grattatina. Faccio uno spuntino salutista.
Quando la nebbia ha nascosto quasi ogni dettaglio intorno a me, mi rimetto in marcia, diretto a Pian delle Bosse, dove ho prenotato un pranzo. Ieri al telefono Valentina mi aveva chiesto se conoscevo la strada per arrivare. Evidentemente campano soprattutto con sedentari che fanno giusto i due passi da Castagnabanca, per farsi venire appetito, mentre gli escursionisti, generalmente un po' tirchi, al massimo chiedono un caffè in due con lo sconto CAI, come recita una vignetta di Caio.
Raggiungo una sella e imbocco il sentiero di cresta, segnalato da un cartello e marcato da tacche biancorosse. Nelle mie fantasie romantiche, sognavo di scenderlo ammirando il mare e galleggiando sui precipizi. Mi trovo invece sospeso nel nulla, in un ambiente roccioso e ruvido, privo di colori: bianco il terreno, grigio il cielo, grigi i precipizi. Potrei essere su qualsiasi montagna calcarea della Terra, tanto sullo Zugspitze quanto sul monte Ida. Se non avessi avuto altri sogni adorerei questa sensazione, ma sono restio ad adattarmi all'imprevisto. Ruvida e aspra è pure la vegetazione, che compare più in basso e mi accompagna fino al rifugio, se non fosse per un breve intermezzo di erica fiorita e profumata.
Dopo aver dato le crocchette alla gattina tigrata, che apprezza tantissimo, mi sistemo sui tavoli esterni, cambio l'acqua alla fonte, e quando arriva l'ora di pranzo, vado ad annunciarmi e fare le ordinazioni. Vista l'atmosfera, i gestori mi propongono di stare sul tavolo al riparo dei ponteggi, sul lato nord del rifugio, ma mi rifiuto e mi accomodo sui tavoli all'aperto. La nebbia diventa sempre più fitta, tanto che al culmine dalla fontana si scorge a malapena l'edificio. Dato che ad un certo punto comincia pure a piovigginare, i due gentili gestori annodano un telone di plastica sulla mia testa. La temperatura è talmente rinfrescata da costringermi ai due pile.
Il pranzo è ottimo. Naturalmente ordino una portata con la focaccia, che non definirei ligure, in quanto unta al punto giusto ma molto spugnosa e con un sapore diverso. D'altronde i gestori sono toscani e possiamo loro concedere di ignorare la filologia gastronomica locale, come del resto ignoravano il concetto di merenda sinoira, che nel 2013 chiedemmo a suggello di una gita del CAI Torino. Mentre la pioggerella ticchetta il telone, mangio quindi dei tagliolini al pesto di noci e una torta di formaggio e mirtillo. Avrei preferito evitare l'alcool, ma alla fine ordino un quartino di cabernet, contando che il deleterio effetto della vasodilatazione mi scaldi illusoriamente mentre sono fermo. Il caffè è bollente e abbondante ed è un toccasana.
Dopo aver pagato e ringraziato, chiedendo ragguagli sulla gattina, non mi fermo molto a poltrire, perché devo ancora percorrere la maggior parte del giro che ho in mente. Sono ben coperto, anche dal guscio, anche se per la verità il gocciolamento si sta esaurendo e camminando presto mi scalderò tanto da dovermi togliere quello e il pile. Imbocco il Terre Alte, segnato da vecchie tacche giallorosse a altre biancorosse più recenti e continue. Dopo un tratto nei prati attorno al rifugio, scende decisamente lungo un tratto gradinato detto Scala Santa. Attraverso zone rocciose con cespuglieti alternate a bosco più sviluppato. Transito ai piedi della lama rocciosa di Rocca dell'Aia, senza poterla però apprezzare da questa angolazione.
Quando giungo a un edificio in pietra a secco chiamato cascina Capurro, strabuzzo gli occhi: c'era una vera cascina in questa zona impervia, dove non si trovano nemmeno tracce di cinghiali, o era solo un edificio di servizio ai carbonai, di cui vedrò le piazzole a breve? La sorprendente risposta è la prima che ho detto: fino al 1982 qui vissero Pedrin e Amelia, che coltivavano gli immediati dintorni per la sussistenza e possedevano qualche mucca e animale da cortile. In una foto invernale degli anni ’70, la zona si presentava come uno risicato spiazzo erboso, circondato da fitti boschi. In questi quarant'anni della cascina è rimasto solo parte dello scheletro esterno e tutti i campi sono scomparsi. Ringrazio il CAI Loano per per questo spaccato di un mondo ancora coevo alla mia infanzia ma completamente sepolto.
Nei pressi della cascina, in prossimità di due rii, ci sono anche due piazzole dei carbonai, come ce ne sono anche sul soprastante sentiero degli ometti. La legna di faggio era la migliore per la produzione del carbone e quest'attività consentiva di sfruttare questa zona altrimenti non addomesticabile. Mi sorprende inoltre la fitta rete di sentieri che si intersecano ripetutamente e che rivela come un tempo questa zona fosse intensamente vissuta. Oggi noi andiamo in montagna credendo di stare in mezzo alla natura selvaggia, ma è un'illusione dovuta al recente inselvatichimento, per l'abbandono delle terre marginali e dell'agricoltura di sussistenza.
Dopo un tratto in cui il sentiero storico scompare e seguo una traccia terrosa recente, ritrovo un sentiero costruito. Da oltre un'ora cammino per fitti boschi e nebbia spessa, senza poter vedere che oltre pochi metri. Dalle mie parti è un'esperienza autunnale, mentre qui in Liguria le nubi basse sui monti sono anche primaverili, in genere portate dai venti marini caratteristici della stagione. Hanno un'importanza ecologica non secondaria in un clima mediterraneo, in cui primavera ed estate sono avare di pioggia. Sebbene adori quest'atmosfera, inizio a sentirmi come ipnotizzato e vago come un automa, sperando che ogni piega sia la dorsale sui cui corre la mulattiera napoleonica da San Pietrino a cui sono diretto.
Fatte dei cavalli, forse scesi dai pascoli a bere a una sorgente, mi dicono che è ormai vicino. La comparsa di un cartello finalmente annuncia che ci sono. Sbuco in uno spazio aperto, ma sempre senza visibilità per le nubi basse. Risalgo i prati di cascina Peglia, invasi dai cespugli. Ricordo che l'imbocco del sentiero non era evidente e sono un po' in ansia, ma ora un cartello è stato posto all'imbocco dal CAI di Loano, come ce n'erano a ogni bivio nella zona precedente.
Il sentiero è intitolato a un signore svizzero tedesco di nome Jürg, che aveva una casa a Boissano e, bazzicando per questi monti che conosceva come le sue tasche, individuò questo percorso. All'inizio devo fare attenzione a seguire i bolli rossi tra le mille tracce dei cavalli, ma successivamente i prati terminano e comincia la zona più rocciosa, dove la traccia diventa univoca; perlomeno dove c'è, perché in certi punti il percorso attraversa delle placche calcaree. Per questo richiede un minimo di passo sicuro e il terreno asciutto, altrimenti diventa oggettivamente insidioso. Con la mia goffaggine in questi frangenti, già oggi mi costa qualche patema.
Intanto, come per una magia, le nubi si sono dissolte all'improvviso, è comparso il mare blu alla mia sinistra, oltre la striscia di speculazione edilizia costiera, e di fronte il cocuzzolo sui cui sorgeva l'abbazia benedettina e successivamente certosina di san Pietro. Taglio le aspre e ripide pendici meridionali del monte Ravinet, in un ambiente mediterraneo di sole e pietre, dove trovo del cisto e del timo fioriti. Clima e vegetazione paiono muoversi all'unisono: prima il bosco alpestre e l'umidità, ora il sole e la vegetazione mediterranea. Descrivo un arco, fino ad intercettare il doppio tubo metallico dell'acquedotto. Sono ormai ai piedi del promontorio dove sorgono i resti dell'abbazia.
Se ho interpretato bene il Rovereto, le protuberanze del monte San Pietro e del soprastante Ravinet, che si distaccano dalla massiccia mole del Carmo, sarebbero dovute a pieghe convesse (anticlinali, nella terminologia geomorfologica) degli strati calcarei che formano queste montagne.
Lo risalgo e in breve ci arrivo. Trovo la compagnia di una famigliola di daini, che stanno pascolando presso la croce protesa a valle. Verrebbe un gran foto, con la Gallinara a fare da sfondo, ma alla mia comparsa sono già sul chi va là e al primo movimento si dileguano tra i dirupi. Sistemo le masserizie su un panca e vago un po' alla ricerca di soggetti fotografici, sia tra gli edifici che tra il panorama delle cime e del mare.
L'abbazia fu fondata dai benedettini, ma nel 1315 passò ai certosini in seguito a contrasti con la curia, che aveva inglobato la proprietà abbaziali nel proprio patrimonio (anche se poi aveva dovuto concedere almeno una sorta di pensione all'abate benedettino) e privato i monaci anche dei poteri spirituali. Gli edifici furono abbandonati nel 1495, quando i certosini si trasferirono a valle. Questa migrazione dai primitivi luoghi di eremitaggio verso centri più civilizzati, una volta che gli ideali dei padri erano venuti meno, si ritrova anche in un'abbazia certosina delle mie parti, che da un luogo nascosto delle montagne si trasferì dapprima sul fondovalle e terminò la sua storia in un lussuoso complesso alle porte della città. Oggi la chiesa è stata restaurata e, se si è fortunati, nei giorni festivi si possono incontrare i volontari che la aprono. In un caso guadagnai persino un caffè in cambio di un'offerta per la manutenzione.
Dopo il trasferimento i certosini produssero un documento per rivendicare una fondazione e una concessione di proprietà autorevoli, per sancire i numerosi documenti che dovevano di frequente ottenere dai vescovi ingauni, per veder confermati i propri possedimenti e che tuttavia risalgono al massimo all'XI secolo. In tale documento si sostiene un passaggio su questo monte di san Pietro, durante il viaggio tra Antiochia e Roma descritto nella tradizione cristiana post-evangelica. Egli avrebbe edificato una chiesa che un vescovo avrebbe successivamente intitolato all'apostolo. L'origine del monastero e del suo patrimonio terriero sono invece ascritte a Carlo Magno, di cui le concessioni dei vescovi ingauni sarebbero solo conferme. Inoltre anche le concessioni attribuite a costoro sono raffigurate come attuazione di doveri cristiani, con minacce di dannazione in caso di mancato rispetto, segno che dal punto di vista temporale erano sotto attacco.
Prove di questi due eventi, secondo il documento, sarebbero contenuti in pergamene che il monastero affermava di possedere e a dimostrazione della potenza divina lasciata al monastero dal santo, è citata la presenza di una catena, con cui sarebbe stato imprigionato, che la ruggine non aveva mai intaccato. La sua impronta sul territorio è rimarcata al giorno d'oggi anche da un masso segnato da una croce metallica sul lato superiore, ritenuta la pietra su cui cantò il gallo evangelico dopo il rinnegamento di Gesù; si trova lungo la mulattiera tra Boissano e l'abbazia, l'antica via di accesso.
A questi monaci benedettini è solitamente attribuito il merito di aver introdotto la coltura dell'ulivo in Liguria. Tuttavia la sua affermazione fu tutt'altro che immediata. In età carolingia, il monastero di Bobbio derivava il suo olio dai laghi insubrici, pur possedendo dei terreni nel chiavarese, chiamati alpe Adra. Ancora al principio del XIII secolo l'olio a Genova costava una fortuna, segno che non era tanto abbondante. Anche i terrazzamenti, qui chiamati maxere, che modellano e connotano il paesaggio ligure, sono decisamente posteriori: i ciglioni sono nominati di sfuggita per la prima volta al cap. 18 del primo libro del trattato di agricoltura di Pietro de' Crescenzi, l'opera principale del genere nell'età comunale, risalente al 1304, ma divennero solo nel Rinascimento un elemento caratterizzante del paesaggio. Infatti qualche decennio dopo, nel Decamerone alcuni personaggi rimangono assai stupiti dalla vista di ciglioni nella valle delle Donne, a riprova del fatto che dovevano essere inconsueti per il periodo. Ancora nei secoli successivi l'erosione delle terre messe a coltura in collina e montagna, per sostenere una popolazione sempre più numerosa, era percepita come un grave problema.
Mi accomodo a fare merenda, con tè verde che ho portato nel thermos e i biscotti. Non ho lavato con cura il bicchiere, per cui la bevanda risulta aromatizzata al caffè con la grappa, una combinazione non proprio azzeccata. Resto incantato a contemplare il mare: ne osservo le onde, la grande nave rossa al largo, il suo sfumare nel cielo, o anche nulla, fissando invece la mia pace di questo momento. Arriva intanto una coppia di ragazzi, con una cagnetta a cui non sto particolarmente simpatico.
Dopo aver indugiato il più possibile, parto solo quando sono costretto, se non voglio rischiare di violare il coprifuoco. Imbocco il sentiero in saliscendi diretto al Giogo di Toirano, che corre parallelo ai tubi. Valuto e scarto la possibilità di portare qui la mamma, perché il percorso è troppo lungo e un po' troppo accidentato per lei. Quasi sempre nella fitta vegetazione, sin un paio di posti trovo delle zone aperte da cui fotografare il monte San Pietro da questa visuale. Purtroppo ad un certo punto il sole sparisce dietro le nuvole e la luce si ammoscia. Il sentiero diventa intanto sterrata. Faccio ancora qualche scatto alle querce in controluce e poi mi dedico a chiamare casa per avvisare del probabile orario di arrivo.
Nei messaggi trovo la notizia della morte di Dimitri, un vecchio greco, emigrato a Torino nel dopoguerra e tornato nella sua terra a trascorrere gli ultimi anni di vita. Mi ricordo che, in una gita in un giorno grigio, mi disse di aver fatto la sua escursione più bella sotto la pioggia. Anche se ero partito per contemplare il mare, ho apprezzato il tempo movimentato di oggi, la cresta tra le nubi come l'Olimpo degli dei, il pranzo sotto la pioggerella e gli spazi angusti del bosco oppresso dalla nebbia. Non ho visto la Corsica, ma mi ha offerto una gamma più ampia di paesaggi e sensazioni rispetto a un giorno terso e monotono. La natura non è un depliant turistico e ogni condizione meteorologica ha il suo fascino e la sua ragione di esistere ed essere apprezzata, non solo per la funzione ecologica, ma anche puramente contemplativa.
Per approfondire
- W. Nesti, L'anello delle caselle, CAI Loano
- Chronicon veteris monasterii S. Petri de Varatella, Miscellanea di storia italiana edita per la regia deputazione di storia patria - Tomo XI, Torino 1870
- Piero de' Crescenzi, Trattato della agricoltura traslato nella lingua fiorentina rivisto dallo 'Nferigno accademico della Crusca, Milano 1805
- R. Rao, I paesaggi dell’Italia medievale, Roma 2015
- G. Rovereto, La storia delle «fasce» dei liguri, Le vie d'Italia, maggio 1924
- E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961
- Chronicon veteris monasterii S. Petri de Varatella, Miscellanea di storia italiana edita per la regia deputazione di storia patria - Tomo XI, Torino 1870