Borgio Verezzi

Riviera di Ponente

9 gennaio


In un baleno

Un’atmosfera da Quaranta Ruggenti piuttosto che da ombrelloni e palme, inadeguata alla promozione turistica per stranieri al sud, molto ai miei gusti in fatto di mare

Panorama di piano di Orsi
Panorama di piano di Orsi

Diario di viaggio

Aprire gli occhi d’improvviso a San Giuseppe di Cairo (vattene), dopo aver sonnecchiato sul treno che serpeggia tra le colline langarole di boschi, inframmezzati da radure con casette bianche dai tetti rossi, quasi convince di essere stati spediti almeno un secolo indietro nel tempo, o piuttosto delocalizzati a diecimila miglia nel Sichuan, assieme alle ciminiere fumanti delle acciaierie oggi scomparse dalla città padana. Fanno capolino dietro i vagoni merci rugginosi, identici a quelli dei film sulle deportazioni, e congiungono i vapori qlla cappa di umidità marina ancora blu in attesa dell’aurora. Io invece stavolta arrivo preparato con la fotocamera salda in mano per immortalare questa scena, che mi aveva stupefatto tantissimo al primo passaggio su questa ferrovia, perché dall'autostrada resta invece invisibile.
Mi domando solo se la funivia di carrelli, che più avanti si vede poi salire dal porto di Savona e ho sempre visto immobili, sia ancora in funzione o sia un relitto di epoche passate in attesa di sgretolarsi per la corrosione, come gli skilift in bassa montagna dopo il riscaldamento climatico.

Alla stazione di Borgio Verezzi mi accosto alla porta sul lato sinistro del vagone, ma devo scendere dall’opposta, perché la ferrovia è a binario unico. Prima di cercare della focaccia, vado sul litorale a scattare qualche foto al mare piatto al largo, che si arriccia in onde spumose vicino a riva. Il cielo è interamente coperto di nuvole basse blu scuro, non grigie come nel retroterra padano, appena scalfite da timidi squarci al largo. Un’atmosfera da Quaranta Ruggenti piuttosto che da ombrelloni e palme, inadeguata alla promozione turistica per stranieri al sud, molto ai miei gusti in fatto di mare: quando voglio la serenità di una superficie liscia, i laghi prealpini contornati da cime imbiancate possono soddisfarmi. Per contro l’immensità, evocata dal vuoto privo di orizzonte e della curvatura terrestre che cela la pur prossima Corsica, nel mio immaginario è votata invece ad atmosfere più sublimi e ostili, ai naufragi e ai fuochi di sant’Elmo. Nonostante tutti questi spruzzi, riesco a fiutare a malapena l'odore del mare, forse per la brezza da nord che ha sostituito il libeccio dei precedenti giorni di pioggia. Purtroppo spesso si accompagna a piogge intense, piene dei fiumi e smottamenti, con interruzioni della ferrovia, cosicché i giorni adatti a scendere al mare con questa atmosfera gradita sono pochi.
A proposito di ambientazioni gotiche, Verezzi è il nome di un protagonista del thriller psicologico Zastrozzi di Shelley, la sua prima opera pubblicata, mai tradotta in italiano, che ha come tema i sentimenti più oscuri dell’animo umano: chissà come avrà saputo del nome di un paese da trecento anime o se combacia con esso per puro accidente.
È piovuto tutta la notte e così anche sono trascorsi gli ultimi giorni delle festività natalizie, costringendo a posticipare gli eventi turistici. In questo giorno feriale girano quasi solo anziani dai vestiti dimessi quasi quanto i miei da escursionista. I tavolini esterni della panetteria con macchina del caffè sono pieni: questa formula di ristorazione riscuote un certo successo in Liguria, forse perché consente di inzuppare la focaccia nel cappuccino senza maggiorazione sui prodotti da forno. La loro focaccia non incontra tuttavia il mio gradimento: oltre a non essere molto unta, ma questo non è fondamentale, non è tanto più saporita della scipita pizza bianca subalpina. Invece il caffè di marca mai sentita prima è decisamente più apprezzabile. Prendo poi della focaccia alle cipolle come pranzo.

Imbocco una stradina in lieve salita, seguendo le indicazioni per le Arene Candide. Costeggio il muro di cinta di un'originale villa in stile mediorientale, la capostipite delle dirimpettaie, come mostra una vecchia cartolina in cui è l'unico edificio dei dintorni. Nelle sue stanze riconvertite a b&b, secondo il relativo sito, Mimì metallurgico può fare una fuga romantica allo stesso modico prezzo delle strutture nella baia dell'abbazia di San Fruttuoso. Tra gente a passeggio divertita dal mio zaino, transito tra due lunghe file di villini, tra i quali mi colpisce soprattutto uno razionalista dalle linee essenziali e curvilinee, un po' come la Marinella di Nervi o l'edificio a corredo della Torre Littoria di Torino.
L'asfalto termina contro una pineta, sotto cui c'è un parcheggio privato, la quale successivamente si trasforma in macchia mediterranea. Supero un signore sulla sessantina a passeggio molto meditabondo, che nemmeno si accorge del mio saluto, un quadrivio segnalato, dove più tardi prenderò a sinistra, e proseguo invece dritto lungo la stradina a fondo naturale, tralasciando anche tracce dirette a vie di arrampicata. Entro in ambiente più aperto per la vegetazione arbustiva anziché arborea, più di gariga che di macchia, con anche moncherini di pini anneriti da incendi, fino a giungere a un pilone votivo, da cui parte la scalinata di cemento diretta alla caverna delle Arene Candide, un sito che ha restituito un’impressionante quantità di reperti datati tra il Paleolitico e l’età bizantina.
Il primo a entrare con fini scientifici (i contadini locali l’avevano già esplorata alla ricerca di reperti da vendere ai collezionisti), seppure in maniera disorganizzata, fu Arturo Issel nel giugno 1864. A lui si deve anche il nome del luogo, da una fascia di sabbia silicea che aveva dovuto attraversare per salire dall’Aurelia, nella zona dove oggi c’è la cava dismessa, che nel frattempo ha consumato il cordone. Documentò le prime esplorazioni in una memoria alla Società Italiana di Scienze Naturali, in cui descrisse i rinvenimenti di ossa umane e animali e di manufatti sempre ossei e ceramici. Tuttavia la maggior fama è dovuta agli scavi più metodici di Luigi Bernabò Brea, in parte sostiuito da Luigi Cardini quando fu mandato al confino, che tra gli Anni ‘40 e ‘50 del Novecento scoprì anche delle sepolture paleolitiche. Tra queste spicca quella di un individuo quindicenne morto per trauma 24.000 anni fa, ovvero al tempo dell’ultima glaciazione: dotato di un ricco corredo formato da un copricapo di conchiglie, monili di avorio di mammuth e alce, fu per ciò battezzato “il giovane principe”; attualmente è esposto al museo archeologico di Pegli.
Speravo che si vedesse qualcosa da fuori, ma anche l'imbocco è invisibile dal cancello. La grotta è aperta ai visitatori solo su prenotazione, un sabato ogni tanto. Da qui intravedo a malapena la grande cava dismessa e il promontorio della Caprazoppa, con la torre spagnola e la galleria dell'Aurelia. Prima che questa fosse costruita, bisognava scalare il promontorio, esposto ai venti di tramontana e al rischio di caduta in mare (il Casalis la tratteggia con le sue solite descrizioni quasi splatter delle strade malagevoli).
Qualche metro a monte dei primi gradini un pilone votivo è costruito sotto un muro a secco, che denuncia la passata colonizzazione umana, confermata dal toponimo Ronco e oggi consegnata all'oblio. Il pilone comunque è verniciato di fresco e conserva nella nicchia una madonnina e dei campioni di rocce cristalline. Accanto un agave marcescente emana un fetore quasi peggiore che i piedi di MM nell'era antecedente le docce sorvegliate.

Torno sui miei passi fino al primo quadrivio, tra lo sciabordio delle onde un centinaio di metri più in basso. Imbocco un sentiero dal fondo sassoso in direzione ovest, nella gariga. Più avanti appare una vecchia lastricatura, che serviva come fondo ai carri per il trasporto della pietra estratta dalla cava a cui giungo in breve.
Sì coltivava un calcare analogo alla pietra di Finale, questa estratta già durante l'impero romano, che serviva per rivestimenti. Fu abbandonata negli anni ’30 del Novecento, quando la volta crollò di schianto, per fortuna durante la pausa pranzo, quando gli operai erano all'esterno. Il posto migliore per osservarla è salire sulla sinistra, lungo un sentiero che si arrampica sul margine: vedo la volta di roccia crollata e frantumata e il semicerchio che si è formato lungo la curva di distacco. Mi infilo quindi sotto la volta residua, tra le rocce rosse, dove dei burloni hanno dipinto animali in stile paleolitico. Scatto foto solo di qui, che rendono meno l'idea che una vista dall'esterno. Di nuovo fuori, noto che le nuvole squarciate sul mare lasciano filtrare una striscia gialla di sole parallela alla costa.
Imbocco quindi il sentiero che risale il bordo della cava, tra gradoni di roccia, fino a una parete alta qualche metro, che risalgo con qualche impaccio grazie all'aiuto di una cordicella zuppa, inaspettatamente in grado di reggere il mio peso, e due gradini metallici, due lastre larghe poco più di un piede, oltre a dei gradini naturali sulla roccia scivolosa. In cima raggiungo il punto più panoramico dell'escursione, un poggio roccioso da cui domino tutto il tratto di costa fino alla Gallinara. È diffusamente edificato da una distesa a perdita d'occhio di palazzoni: già i treni fascisti scaricavano frotte di turisti in economia, ma con il boom delle seconde case si è creata una copia delle periferie in cui la classe media del dopoguerra viveva oltre il giogo, con l'unica differenza di essere a due passi dalla spiaggia. Un cartello informa che questo pianoro era l'antica falesia di un mare tropicale, sollevatasi in seguito alla spinta della placca africana che ha pure determinato l'orogenesi alpina. Se avessi uno sguardo attento vedrei pure delle conchiglie sulla superficie delle rocce, oltre alle più evidenti erosioni carsiche, ma non è una delle doti per cui brillo.
Proseguo tra brulli gradini di calcare nudo, che dovette impressionare i locali per l'impossibilità di domesticazione, dacché li chiamarono “campi di orsi”, attribuendo loro il nome dell'animale simbolo per eccellenza della natura ostile e diabolica nell’Alto Medioevo (l'equivalente nostrano dei leones nei territori inesplorati sui planisferi cinquecenteschi). Non esistono né un percorso univoco né segnalazioni a indicare una via, per cui punto verso la dorsale piatta, che conduce al campanile che vedo sbucare in alto, mia prossima meta. Raggiunta la sommità, un cartello sul punto di svenire, a stento sorretto da un leccio, mi indica che sono sulla retta via. La vegetazione si infoltisce fino a diventare un bosco di lecci, con abbondanti ghiande sul sentiero e rocce con erosione carsica affioranti dal terreno. Il campanile di san Martino si annuncia fragoroso all'improvviso, battendo il mezzogiorno a beneficio mio e della comunità. È il secondo suono che annoto dopo il frangersi delle onde, mentre un secolo prima avrei dovuto registrare il frastuono delle cave e pure i colpi secchi dei boscaioli, poi magari i campanacci di greggi svernanti, senza contare le voci di tutta questa gente: il silenzio della campagna in contrapposizione al brusio cittadino è con tutta probabilità una mitologia contemporanea.
La parrocchiale fu costruita nel Seicento per iniziativa del parroco in semplici forme barocche, ma in posizione dominante le frazioni di Verezzi, che sono subito qui sotto. L'interno meriterebbe una visita, ma è chiuso come il bar, ai cui fradici tavolini non posso nemmeno accomodarmi; ripiego sul muretto che delimita il ripiano a valle, solo umido. Accanto alla chiesa sorge il minuscolo cimitero, dove si distingue una tomba sontuosa con portale in pietra locale della famiglia Cucchi, perché da morti siamo ancora meno uguali che da vivi. Secondo la tradizione familiare e le indagini araldiche di origine bergamasca, conobbe pure l'emigrazione in Sudamerica prima di estinguersi. Ne facevano parte il suddetto sacerdote e un ufficiale distintosi nell’impresa coloniale della Corsica. Dopo pranzo provo a scattare delle foto in cui campanile oppure cimitero emergono dal bosco, senza tuttavia trovare un punto di vista consono.

Mentre salgono un uomo e una donna, che sistemano l'albero di Natale caduto, imbocco la via lastricata in discesa e raggiungo la borgata più a monte, detta Crosa dalla roccia corrosa, poiché qui forma cavità adoperate come cantine. Tutte le borgate, pur nella loro diversità, hanno case in pietra molto peculiari e strutture a vicoli e passaggi voltati, con elementi precipui come i pali per sostenere vigne urbane ora scomparse. Tutti questi, assieme alla presenza di termini arabi nel dialetto o la passata diffusione dei carrubi (non registrata dal Casalis), hanno portato gli estensori dei cartelli, raccogliendo a loro dire la vox populi, a sostenere l'origine saracena dei borghi, sia nel senso dei predoni di Fraxinetum ma anche di reduci della battaglia di Poitiers, vinta dai Franchi guidati da Carlo Martello, mettendo in un calderone unico tutti i Mori europei. Gli storici dell'architettura datano al XV secolo queste case, seppure edificare su fondazioni preesistenti, mentre la prima citazione di Borgio risale al 1212, quando fu ceduta dal vescovo di Albenga ai marchesi Del Carretto. Questo atto non placò le sanguinose contese tra i due, fino a quando nel 1385 il papa Urbano VI la concesse al Genova in risarcimento di un prestito grazie a cui aveva vinto una battaglia contro un sostenitore dell'allora antipapa.
La probabile data di fondazione di questi edifici così arcaici da colpire la nostra immaginazione, è già un grande balzo nel passato rispetto all'affascinante borgo arcaico del Canavese attribuito ai saraceni, la frazione Chiapinetto di Frassinetto, risalente al XVII secolo. Evidentemente i tutti i secoli trascorsi dalle dalle loro scorrerie lì hanno resi simpatici, perché non sono rari luoghi che si richiamano ad essi: io stesso mi bullo di esserne un discendente, per la bassa statura e la pelle che si abbronza fino a farmi sembrare un magrebino, seppure i test avicoli di dubbia attendibilità collochino i miei progenitori più a nord. La nostalgia è aiutata dai vuoti di memoria, recita un aforisma di Enrico Vaime, un mito che ascoltavo per radio i sabati mattina degli Anni ’10. Peraltro poi l'appassionato che scrive la storia di Verezzi non è pago della vetustà medievale: accogliendo la versione originale della storia del mulino fenicio, dalla viva voce dell'anziano villeggiante belga, l'anarchico esperantista, appassionato di antropologia Eugene Gaspard Morin, che la elaborò negli anni ’60 del Novecento e ancora nobilita con i suoi spin-off un moncherino di torre sulla Caprazoppa altrimenti insignificante, si lancia ad attribuire la fondazione di Verezzi piuttosto ai soldati di Annibale, altro classico sempre sulla cresta dell’onda, nonostante non pubblichi video su tiktok.
Non di rado, per spiegare delle singolarità di un luogo rispetto ai dintorni sono nate leggende simili: alla gente pare impossibile pensare da un lato che le culture sono meticce e assorbono elementi da ogni dove, a maggior ragione in una terra di marinai ed emigranti stagionali come questa, dall'altro che la capacità creativa umana è sterminata ed elabora soluzioni sempre diverse per risolvere i problemi, anche in luoghi a breve distanza l’uno dall’altro. Le persone paiono invece credere che le culture siano strutture immutabili e monolitiche come le montagne: le popolari narrazioni che presuppongono un ordine naturale statico, quali il cattolicesimo, il complottismo o l’ecologismo, amano presentare il mondo umano come un tutto armonico ed organico, reso dissonante solo dalle violazioni dell’equilibrio, in cui una diversità può essere unicamente spiegata con l'innesto di una cultura alloctona.
Ad ogni modo trovo molto intriganti queste architetture, per cui scatterò tra le frazioni la maggior parte delle foto odierne. Dopo Crosa, scendo a Piazza per una via lastricata, dove per le piogge è crollato un muro di sostegno; gli uffici turistici si vantano del fatto che tra queste pietre prolifera un endemismo, la Campanula isophylla. La seconda frazione è il centro dell'antico borgo e prende il nome da una piazza costruita nel 1670 abbattendo una casa acquistata a spese pubbliche, la quale gode di un magnifico scorcio sulla Gallinara. Mi domando solo chi abbia avuto la pensata di installare al centro un traliccio metallico a forma di cuore, con i relativi cavi di sostegno a rovinare il panorama. La piazza è una delle sedi di un festival teatrale cinquantennale di cui in paese sono molto orgogliosi, tanto da aver distribuito per le vie cartelli con foto ricordo delle edizioni passate. Percorro quindi interamente i due vicoli della frazione, su cui si affacciano diverse osterie sciccose oggi quasi deserte (pare che un piatto locale rinomato siano le lumache, che non ho mai provato). Manca invece un circolo per i vecchi, dove prenderei volentieri un caffè. Gli unici altri a zonzo sono un uomo e una donna anziani intabarrati, che camminano molto lentamente e tra loro parlano un inglese approssimativo. Tenterò con alterni risultati di includerli nelle inquadrature; non brillo certo per originalità, visto che in un vecchio libro sul paese, durante una visita alla biblioteca comunale, troverò una foto delle arcate adiacenti la piazza con due giovani innamorati seduti sul muretto.
Attraverso il testé citato portico, per cui alla fine non trovo una soluzione fotografica, una lastricata in piano mi conduce a Roccaro, una frazione più recente, dove ci sono ville settecentesche e sventola una bandiera arcobaleno di Capitini.
Scendo verso Borgio per una via lastricata con pietre di pianta molto irregolare, ma dalla superficie complessivamente liscia perché ideata per le lese, fino a ricongiungermi alla via proveniente da Piazza. Qui esisteva un grande carrubo monumentale, detto del buongiorno per la sua funzione di albero sacro con valenza sociale: era infatti il luogo di scambio commerciale tra gli abitanti di Borgio e Verezzi. È un residuo del culto degli alberi diffuso in epoca precristiana e a lungo osteggiato dalla Chiesa cattolica, che in un concilio altomedievale decretò la loro estirpazione, fino a quando prevalse la linea di integrare i culti precedenti.
I carrubi, i cui frutti sono molto graditi agli animali da soma, sono diffusi nel Mediterraneo orientale e meridionale, mentre sono rari a queste latitudini, perché soffrono le gelate: la loro presenza è una delle prove addotte dai cartelli a favore dell'origine saracena di Verezzi. Oggi l'albero non esiste più perché morì a causa dello storico gelo dell'inverno 1929, uno dei più intensi di tutto il Novecento e di cui girano ancora numerose nostalgiche testimonianze sui social.
Arrivo alle prime ville di Borgio, dove mi colpisce un bidone rosso riservato ai pannoloni usati, mai visto prima. Sono un po' in anticipo per la prima visita pomeridiana della grotta, per cui provo a gironzolare per il centro e a cercare invano un caffè, che mi rassegnerò a prendere al distributore della biglietteria, dove è abbastanza dimenticabile, pur essendo un Vergnano (solo durante la visita alla biblioteca mi imbatterò casualmente in un eccellente bar aperto all'ora di pranzo). Prima però bevo anche dell'acqua dalla borraccia, perché mi rendo conto che è ancora integra dal mattino alle 6: il caffè della seconda colazione era stato l'unico liquido assunto, a parte quelli contenuti in focaccia e frutta.
La visita guidata di un’ora, in compagnia di una coppia di escursionisti che arriva accidentalmente all'ultimo minuto, è molto piacevole. Innanzitutto la bellezza e la varietà delle concrezioni e dei laghi sotterranei sono stupefacenti. Sono poi molto interessanti le spiegazioni sulla geologia e paleontologia della grotta, poiché proiettano su tempi della natura che trascendono l’attimo in cui ci agitiamo disordinatamente, mettendo a repentaglio questa e altre meraviglie fragili e delicate, invece di dedicarci a contemplarle e decifrarne i segreti. Infine la scoperta da parte dell'uomo, avvenuta meno di un secolo fa in seguito a una pericolosa esplorazione adolescenziale di tre ragazzini in un pozzo, è un racconto di avventura degno di classici del genere come Huckleberry Finn. Naturalmente la grotta è illuminata da faretti con effetti ponderati da illuminotecnici, come tutte le grotte turistiche da me visitate, e in concordanza con l’immaginario comune di questi ambienti. Tuttavia nelle fini settimana propongono anche giri alla luce delle candele, che è come la videro la prima volta i tre ragazzini. Ed è anche come è rappresentata molto spesso la notte nei quadri, una visione completamente diversa da quella delle notti all’aperto tanto in presenza quanto in assenza di luna, ma più affine a quella che si avrebbe attorno a un falò o in foto con flash e diffusore, sebbene i dipinti siano antecedenti le violente lune elettriche della modernità.

All'uscita il cielo è in gran parte schiarito, per cui ne approfitto per qualche foto ai soggetti del borgo vecchio con la luce del tramonto, compresa la chiesa, dedicata a san Pietro perché fondata dai benedettini della val Varatella, rifatta ex novo a cavallo tra XVII e XIX secolo. Ovviamente oggi è l’unico pomeriggio di chiusura dell’alimentari dall'ordalia digitale focaccesca più favorevole, per cui ripiego sulla panetteria del mattino: oggi non è giorno di riti edonistici ma di cruda spiritualità. Sul treno transappeninico, che arriva in orario ma poi accumula 20 minuti tra San Giuseppe di Cairo (vattene) e Ceva, un malato psichiatrico per qualche fermata sproloquia innocuamente a medio volume senza molestare alcuno, ma innescando comunque nei viaggiatori commenti del tipo «Contessa, abito nel milanese ed è peggio che negli anni 70 durante il terrorismo».
Io invece ripesco il libro di racconti di montagna trascurato all’andata per il sonno. Finora mi ha stupefatto soprattutto la narrazione di un’ascensione sul Kilimanjaro effettuata da un turista da safari, privo di preparazione escursionistica: all’interno di un’esperienza di pura sofferenza, odiando ogni singolo passo della via, ogni singolo incontro umano e ogni singolo ambiente naturale attraversato, raggiungere la meta e subito scendere è l’unica finalità. Ciononostante l’esperienza è connotata positivamente come prova formativa, nel senso di metafora di un atteggiamento costruttivo e aperto all’alterità, da tenere nei confronti delle esperienze fuori dalla consuetudine: salire in montagna odiando l’essenza stessa della montagna e del modo in cui si va a piedi, tutto il contrario di come vivo l’escursionismo tanto nella tranquilla passeggiata odierna quanto nelle escursioni estive da dieci ore di cammino.

Per approfondire

G.A. Demaria, I Cucchi di Verezzi, Borgio Verezzi 2003
M. Montanari, Uomini e orsi nelle fonti agiografiche dell'alto Medioevo, B. Andreolli-M. Montanari [a cura di], Il bosco nel Medioevo, Bologna 1995
M. Pangrazzi, Piccola storia di Borgio Verezzi, Albenga 1974
R. Rao, Il tempo dei lupi, Milano 2018

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San Giuseppe di Cairo
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Borgio
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Caprazoppa
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Borgio
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Villino saraceno
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Parcheggi liguri
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Caprazoppa
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Dalla cava
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Panorama di piano di Orsi
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Lecceta
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Crosa
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Panorama da Crosa
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Piazza
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Verso Roccaro
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Roccaro
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Grotta di Borgio Verezzi
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Grotta di Borgio Verezzi
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Borgio
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San Pietro, Borgio
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