Pracchia-Lago Scaffaiolo
Corno alle Scale
1 settembre
Diario di viaggio
Pracchia è un minuscolo borgo che sembra uscito dai dipinti di Giorgio Morandi, il pittore famoso per le sue nature morte, come del resto un po' tutti i paesini dove si ferma il treno della porrettana che arriva da Bologna. D'altronde era proprio in uno di questi che aveva la casa di campagna e dipingeva i suoi 'paesi', come li chiamava lui. Le case della parte vecchia si stipano tra il Reno e l'incombente collina boscosa, che sale ripida e stringe il paese in una gola lussureggiante. La sera dell'ultimo sabato di agosto le anguste vie sono percorse da gatti circospetti e alcuni bambini che giocano rumorosamente. Gli adulti invece si ritrovano con dei foresti nei locali della Misericordia, dove suona la solita orchestra di liscio.
Il sentiero varca il Reno su un ponte pedonale e segue una strada ripida, che si può evitare imboccando una vecchia mulattiera non segnalata, fino alle case della parte alta di Pracchia. Poi si imbocca un sentiero che sale, anch'esso ripido. Ad un certo punto mi scappa uno starnuto, a cui rispondono delle papere dal bosco. Si attraversa una zona disboscata fino a confluire in località Case, dove gli arredamenti assai rustici dei giardini mi ricordano la casa della nonna. Non meno rustica è la cappella, dove si lascia il sentiero che scende nella valle di Orsigna e si comincia a montare dritti per la dorsale. Nel primo tratto prevalgono i castagni cedui, ma ben presto lasciano spazio ai faggi, gli alberi che dominano gran parte dei boschi che si incontreranno per tutto il viaggio. La salita che si fa più dolce consente di gustare meglio la foresta del Teso. Si attraversa una zona molto bella dove c'è un grosso ometto, per poi marciare sotto alcuni abeti secolari, tra i richiami familiari delle ghiandaie e altri che non riesco a identificare. Attraversando questi ambienti, si giunge a Pian della Trave, dove alcune panche con tavoli si fanno apprezzare per la prima sosta lunga. Mentre mi rilasso, si materializza il primo incontro della giornata. Nonostante sia una domenica estiva, finora non ho incontrato nessuno, perché tutti salgono con l'auto fin dove possono, evitando i percorsi che salgono dal basso.
Si riprende a salire per un breve tratto, passando nei pressi di un minuscolo laghetto, poco più di una pozzanghera, poi il sentiero corre quasi in piano tra faggete fatate. Si raggiunge il Rombic[c]iaio (il numero di “c” è a piacere), dove l'area attrezzata e la vicinanza con la strada attira frotte di merenderos: meno male che la pausa l'ho già fatta prima. La salita, che torna a farsi erta, conduce al rifugio del Montanaro, una piccola struttura gestita dai volontari del CAI di Maresca.
È molto affollato, come lo sono la domenica tutti i rifugi a portata di auto. Decido di mangiare una parte della torta salata che ho dietro e di integrare con una fetta di torta da acquistare qui, ma da buoni toscani hanno preparato solo pasta e carne. Decido allora di mangiare un piatto di spaghetti e i volontari mi fanno accomodare alla loro tavola. Faccio allora una lunga chiacchierata sulla montagna con Olido e il suo amico rauco (a cui mi sono dimenticato di chiedere il nome), che mi dispensano a piene mani la loro saggezza toscana (chiamiamola così). Sono dei tipici CAI della vecchia scuola, testa bassa e pedalare. Mangiamo una montagna di pasta con la carne; loro la accompagnano con vino a garganella e si scandalizzano perché io mi astengo e oserò addirittura rifiutare il digestivo. Dopo un piatto di pasta che mi ha saziato per bene, portano in tavola un gigantesca fiorentina, tre dita di lombata di cui neanche un millimetro cotto. «Si mangia un pezzetto», sentenziano, e un pezzetto alla volta, sempre con l'aiuto del vino, la spazzolano.
Prima di partire riempio la borraccia al rubinetto del rifugio, perché la fonte esterna è secca. Sarà una costante del viaggio, fino a quando un temporale non ripristinerà un filo d'acqua nelle sorgenti. Si riprende a salire moderatamente e in breve si sbuca fuori dal bosco in un ambiente aperto. Apro nello zaino per estrarre il cappellino, ma non lo trovo. Frugo fino in fondo, ma nulla. Lo svuoto completamente, ma continua a non saltare fuori. L'ho dimenticato al Piano della Trave! Disperazione! Prima di partire per comodità mi ero rapato e contavo sul cappellino supertecnologico, tecnico e protezione 40, per ripararmi dal sole. Come fare? Nelle sere successive sarà una vana ricerca di un sostituto, negli empori dei rifugi e dei posti tappa, che hanno di tutto tranne i cappellini da sole. La salvezza arriverà solo a San Pellegrino e sarà tragica.
Al colle oltre il Monte Gennaio, prima asperità erbosa dell'Appennino, il panorama si apre strepitoso a perdita d'occhio sulle colline. Trovo anche un cippo di confine degli stati preunitari, un incontro a cadenza regolare nei primi giorni di viaggio.
L'ultimo tratto per lo stretto intaglio del passo dello Strofinatoio è di nuovo ripido. In tutto oggi la salita sarà di quasi 1500 metri, per di più con lo zaino pesante. In cima un panorama da strabuzzare gli occhi: una conca verde di erba e rossa di mirtilli chiusa da cime erbose. Visto che mi sono portato il cavalletto fotografico da 2,5 kg, al ritorno dalla divagazione al Corno decido che è il momento di giustificare con me stesso questo peso: lo uso per uno scatto rasoterra che dai mirtilli in primo piano si estende alla conca verde e alle cime blu all'orizzonte.
I volontari del Montanaro mi avevano consigliato la salita sulla cima del Corno alle Scale, che è fuori dal percorso ma proprio a un passo. Decido si seguire il suggerimento. Mentre supero i gradoni rocciosi a monte del passo, vi vedo scendere un tizio in sandali. Eh? L'arcano è presto svelato: percorrendo il successivo tratto in piano, scopro che una seggiovia porta gente fin quasi sulla cima. Infatti poco oltre ne vedo altri in tenuta da picnic. Sono ormai a due passi dalla croce di vetta, ma l'idea di condividerla con i motorizzati mi trattiene dal raggiungerla. Le scatto una foto e torno indietro.
Il sentiero prosegue in traverso, disegnando un ampio semicerchio fino al dosso erboso su cui sorge il rifugio Duca degli Abruzzi. Gli ultimi gitanti domenicali si attardano sulle panche esterne, mentre io entro e mi fiondo sotto una doccia meritata, senza neanche fare merenda. Quando riemergo per stendere il bucato, sono rimasto il solo ospite della struttura. Non sarà certo l'unica volta. Mentre aspetto la cena, mi godo il tramonto sul crinale, accanto al lago Scaffaiolo ritiratosi per la siccità estiva, con la sola compagnia di qualche mulo che pascola a breve distanza. Qualche skilift non disturba troppo l'idillio e garantisce al gestore profitti anche invernali.
Dopo cena il gestore ascolta al PC una lezione di chitarra jazz. Io invece alterno la lettura del libro che mi sono portato con una breve uscita per fotografare la stellata. Dò anche una scorsa al libro del rifugio, per vedere quanta percorre la Grande Escursione Appenninica. Si trovano un sacco di firme di gente che è salita qui in giornata, sfruttando la seggiovia o a piedi dal parcheggio. I trekker sono invece molto rari: ogni 5-10 giorni c'è una coppia, o al massimo un gruppetto che dorme qui e va all'Abetone. E ho letto il mese di agosto, quello generalmente più affollato. A settembre, mi spiega il rifugista, è normale che in settimana sia deserto.
Galleria fotografica
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Sergio Chiappino
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