Mandela-Santa Scolastica
Subiaco
3 giugno
Diario di viaggio
Oggi 30 chilometri di asfalto e 30°. Tuttavia la tappa si rivelerà ricca di sorprese, che faranno passare in secondo piano la noia di certi tratti. Inoltre solo due brevi tratti sono trafficati, mentre per il resto si cammina su stradine molto secondarie.
Ho scelto il B&B di un'amica del cammino; si rivela una scelta vincente, perché sono così disponibili da darmi colazione alle 6 senza battere ciglio. Così riuscirò a percorrere i primi chilometri all'ombra e ad arrivare ai piedi di Gerano senza patire il caldo. In più mi regalano due panini per il viaggio. Evito la variante indicata sul sito, che è molto ben segnalata, perché alla fine non mi risparmierebbe asfalto e seguo invece la guida. Oltrepassata la ferrovia, mi infilo in una stretta valle verde, ancora in ombra fino a Sambuci. Cammino a fianco del torrente, che scorre infossato più in basso. Sul ramo di un albero secco vedo bene un airone cinerino, che alla mia apparizione subito fugge. Poco prima mi aveva attraversato la strada uno scoiattolo rosso; sono contento che qui non siano arrivati ancora quelli grigi alloctoni.
A Sambuci la valle si allarga e il sole fa la sua comparsa, ma il caldo si mantiene gradevole ancora per un po', anche se comincio subito ad asciugarmi e a sentire il bisogno di cappellino e occhiali scuri. Sul tragitto da qui a Gerano non ho preso appunti: il percorso è agreste, ma senza picchi d'interesse. O forse sono io che cerco di macinare più chilometri possibile prima che il caldo mi consigli di rallentare.
Prima di Gerano c'è un breve tratto di strada trafficata, ma poi si sale al paese per viuzze dove non passa nessuno. La salita è molto ripida e il caldo si fa già sentire; anche il padovano mi dirà che ha patito molto questo tratto, che lui ha affrontato la sera, con oltre 30 chilometri sulle gambe. Quanto a me, il sudore inizia a colare giù dalla testa e ho pure la malaugurata idea di infilarmi in un forno per comprare un po' di pane. Dentro la temperatura sarà di 40°: subito un fiume di sudore mi cola dalla testa giù per la schiena e dalla schiena giù per le gambe, tanto che devo tosto uscire, aspettare di raffreddarmi e rientrare solo dopo un paio di minuti. Compro poi anche un po' di frutta e pomodori da un ambulante, che mi regala qualche albicocca. Oggi devo caricarmi un po', perché alla foresteria di Santa Scolastica, dove mi fermerò due notti per visitare con calma i monasteri, mi hanno detto che mi daranno il solo pernottamento, per cui devo accumulare abbastanza cibo per essere autonomo per qualche giorno.
Gerano è molto grazioso e ben tenuto. Chiedendo indicazioni, riesco ad arrivare all'anfratto in cui si trova il museo delle scatole di latta, che mi attira moltissimo. La porta è chiusa, ma c'è un numero da chiamare. Lo compongo. «Oggi sono a Roma, mi dispiace. Tanto può passare, domani, no?» mi spiega la collezionista. «No, sto percorrendo il cammino di San Benedetto. Oggi o mai più» «La richiamo tra cinque minuti» Poco dopo il mio telefono squilla. «Viene un mio amico ad aprirle» «Ma grazie!» Infatti, neanche un minuto dopo compare Ivano, che si procura le chiavi e mi guida all'interno. Le tre stanze sono davvero un luogo di meraviglie: tutte le pareti sono fittamente ricoperte da scatole di ogni forma, dimensione e decorazione. Sono soprattutto di biscotti e dolciumi. Ci trovo quelle della Wamar, una fabbrica vicina a dove abitavo da piccolo; mia madre andava allo spaccio a comprare i biscotti venuti male. Vedo una scatola con un cognome tipico del Monferrato e scopro che Ivano ha un cugino da quelle parti. Ci sono poi anche delle scatole di munizioni e una collezione di figurine del periodo coloniale.
La scatola che ha dato il la alla collezione, poi, è quasi un trattato di storia. Non solo perché è appunto di latta, oggi sostituita dalla plastica e dal cartone, ma soprattutto perché descrive il proprio contenuto come «supernutriente». Ricordo di aver visto dalle mie parti un vecchio manifesto pubblicitario di una birra, che metteva in bella mostra le calorie contenute nella bevanda e ne vantava pertanto il valore nutrizionale. Oggi invece vale l'esatto opposto, per cui le bibite si beano di non avere calorie e biscotti ipercalorici sono spacciati come dietetici con una faccia tosta incredibile.
Quando abbiamo finito, Ivano mi invita ancora a casa sua per offrirmi un caffè. Si mette a parlarmi dei pellegrinaggi che fanno dal suo paese. Il più importante è quello di Vallepietra, un santuario nei monti Simbruini, che raggiungono con tre giorni di cammino. Il primo partono alle 3 e si sciroppano ben 60 chilometri. Il santuario è nato dopo la scoperta di un'immagine particolare della Trinità, in una fenditura della roccia. Ivano me la mostra: vi riconosco un'insolita raffigurazione, che nei giorni precedenti avevo visto in varie chiese, in cui ci sono tre uomini uguali affiancati. L'immagine è bizantineggiante, probabilmente opera di qualche eremita, che già dai primi secoli dell'era cristiana, prima ancora di Benedetto, si erano insediati su queste montagne per allontanarsi dal mondo e avvicinarsi a Dio. Tuttavia la memoria storica andò perduta e fu riscoperto solo secoli dopo; il ritrovamento è legato a un evento miracoloso, che Ivano mi racconta come se fosse un fatto normale. A dei contadini un carro trainato da buoi cadde da una parete altissima. Quando riuscirono a raggiungere la base, videro con stupore che i buoi erano incolumi e scoprirono l'immagine in una fenditura della roccia. Mi mostra poi su facebook un po' di foto dei santuari e dei pellegrinaggi: si vedono sempre grandi assembramenti di persone. Sembra invece del tutto disinteressato alle gite sui monti come quelle che faccio io, tanto che non sa nulla del sentiero Coleman che pure passa da Vallepietra. Infine estrae dal portafogli la sua copia dell'immagine e me la regala, non senza avermi lasciato il suo numero di telefono per ogni evenienza.
Lo lascio quasi con le lacrime agli occhi per la commozione e vado a fare uno spuntino su una panchina. Trovo il funzionario del comune che mi aveva spiegato come arrivare al museo e, chiacchierando con lui, scopro che qui quasi tutti hanno qualche parente dalle mie parti. Riprendo a camminare e esco da Gerano con una salita con il 30% di pendenza. Quello che ci vuole col caldo che si fa sentire sempre di più. La strada scende poi verso un fosso in un ambiente molto verde.
Tuttavia non riesco a concentrami sul paesaggio, perché nella mia testa continuo a rivivere l'incontro appena concluso. Mi colpisce in particolare il racconto del ritrovamento dell'immagine e come sia raccontato come un fatto normale nonostante sia colmo di elementi magici e leggendari. Del resto anche la biografia di san Benedetto non è da meno. Io sono più attratto dalle storie contemporanee, forse perché su queste è possibile indagare e scoprire cose interessanti anche a chi non ha grandi competenze. Mi spiego meglio. Alcuni anni or sono, mi era capitato di leggere su Internet che un contadino indiano stava usando la Coca Cola come pesticida, con grande soddisfazione e successo. Possibile che una bevanda assunta da milioni di persone fosse così tossica? La notizia era riportata, quasi ovunque con le stesse parole, su frotte di siti ecologisti. Solo alcuni riportavano alcuni dettagli in più, come il nome del contadino. Googlandolo, riuscii a risalire all'articolo originale, in cui si leggeva che un agronomo gli aveva dato un pesticida e gli aveva consigliato di diluirlo in sciroppo di glucosio, prima di spruzzarlo, affinché gli insetti se lo bevessero più volentieri. Il contadino, visti i prezzi dello sciroppo di glucosio, aveva avuto l'idea geniale di diluirlo nella Coca-Cola, che forse non è proprio la stessa cosa, ma quanto a zucchero non scherza (basta leggere l'etichetta). Ora, la storia originale, riportata su un singolo sito, era ordinaria e ben diversa da quella, mirabolante, diffusa in decine di altri siti. Tuttavia, col tempo, i siti chiudono e ci sono perciò molte più probabilità che rimanga qualcuno dei tanti con la storia fantastica, senza che ci sia più la possibilità di ritrovare la fonte originale. Nel caso dei racconti orali, poi, le storie si deformano con molta più facilità, come sa chi ha provato a registrare la stessa storia raccontata dallo stesso testimone a distanza di tempo, per non dire quando passa di bocca in bocca: molti dettagli fondamentali vanno persi, restano soltanto i pochi a forte impatto emotivo che finiscono col narrare una storia completamente diversa dall'originale. Nel caso delle storie antiche, in cui non si ha accesso alle fonti originali, è ancora possibile cercare di capire come si siano formate, ma è un complesso lavoro da filologi, di cui posso solo leggere i risultati finali, perché il metodo travalica le mie competenze culturali. Con le storie contemporanee, invece, come nell'esempio precedente, anche una persona qualsiasi può scoprire molto.
Mentre la mia mente vaga tra queste riflessioni, perdo un bivio e procedo dritto per la strada anziché svoltare a sinistra. Per fortuna la strada sale, mentre io mi ricordavo dall'altimetria che avrei dovuto procedere più o meno in piano. Così attacco il GPS e mi accorgo dell'errore. Per fortuna sono fuori strada di un solo chilometro. Torno indietro e mi infilo in una stradina, che è un po' più ombreggiata della precedente, così secondaria che viene da chiedersi perché mai l'abbiano asfaltata. Sotto le fonde di un albero mi fermo un po' a mangiare della frutta e a scolare mezza borraccia. Ho anche la tentazione di ficcare i piedi nel torrente costeggiato dalla strada, ma lascio perdere.
Il cammino prosegue in un caldo non ancora opprimente, per i miei gusti da lucertola, ma non certo gradevole. Quando costeggio le case, i cani non mi vengono incontro abbaiando, perché stanno tutti dormendo all'ombra. Per quanto riguarda l'aspetto paesaggistico, si trovano un po' di formazioni di arenaria (credo), che mi ricordano le Langhe. La stradina confluisce in una più grande, che quasi subito affronta una salita, non lunga, ma ripidissima. Esattamente quello che ci voleva con questo clima. Vicino al colmo, a bordo strada c'è una lapide che ricorda una pellegrina di Vallepietra morta qui lungo la strada, una sessantina di anni or sono. L'episodio è descritto con parole strazianti, per quando si riesce a leggere dalle scritte ormai consunte.
Alla salita fa seguito una discesa non meno ripida, che conduce alle sponde dell'Aniene, dove degli adolescenti chiassosi stanno facendo rafting. Alla periferia di Subiaco c'è il convento di San Francesco. Suono per andare in chiesa e solo dopo mi rendo conto che sono arrivato nelle ore di chiusura. Camminando in posti isolati e mangiando quando avevo fame, ho perso del tutto il senso del tempo e, prima di guardare l'orologio, non avevo la minima idea di che ora fosse. Tuttavia mi aprono lo stesso e una suora da una finestra del chiostro mi indica dove andare. La chiesa è ricca di tele rinascimentali di un certo pregio, ma soprattutto è fresca. Mi siedo un po' e mi godo la temperatura gradevole. Nel chiostro ci sono invece alcuni ingenui dipinti ottocenteschi. Esco, attraverso il ponte di San Francesco e vado a sedermi nei giardinetti su una panchina quasi all'ombra. Alle 14.30 pranzo e scarponi slacciati per almeno un'ora.
Riprendo a camminare, percorrendo la trafficata strada che attraversa Subiaco. Il paese non mi ispira per nulla, non so se più per il traffico o le brutte case moderne, per cui non mi sento motivato a visitarlo; Flavio invece vi fa un giro e riesce anche a infilarsi di straforo nella rocca dei Borgia. Prendo un caffè in un bar. Sopra il bancone troneggia una sciarpa della Juve; mi tengo la curiosità perché oggi ho già socializzato a sufficienza. Faccio un po' di spesa al supermercato, in vista dei due giorni di autonomia, incamminandomi poi lungo una strada con poco spazio per i pedoni.
Solo dalla villa di Nerone si trova un percorso pedonale, una bella scalinata in pietra, con una quercia secolare all'inizio. In breve sono a Santa Scolastica.
Dopo la doccia, gironzolo un po' per i dintorni. Mentre sto leggendo i cartelli escursionistici sul ponte in cemento accanto alla foresteria, odo una voce con forte accento inglese che mi chiama. Mi volto e vedo una signora vestita con ampi abiti neri, con grosse scarpe nere, quasi anfibi, che porta una voluminosa cintura come quelle dei muratori. Si copre il volto con un ombrello nero. «Alla foresteria, nel convento sì, ma lì non si può stare». Scendo verso di lei, borbottando qualche parola di scusa e lei si allontana velocemente senza mostrami il suo volto.
Ritrovo Flavio, che è arrivato per mezzogiorno e nel pomeriggio ha visto tutto il visitabile. Prima che il monastero chiuda, chiediamo a un giovane di servizio se possiamo partecipare ai vespri con i monaci. Quegli ci indirizza a un vecchio monaco incurvato con la faccia rugosa e scavata, avvolta dal cappuccio nero, che ci dice di trovarci all'ingresso con un quarto d'ora d'anticipo. Cinque minuti prima dell'inizio, un monaco apre il portone, ci spiega come uscire e ci conduce in chiesa. Facciamo per sederci sui primi banchi, ma lui ci fa cenno di proseguire e ci fa accomodare sugli scranni dei monaci, nel coro dietro all'altare. Senza proferire parola, prende in mano il libro delle preghiere, armeggia un po' con le corde che servono da segno e poi ce lo porge in mano. Mentre noi due sfogliamo nervosamente il libro, alla ricerca della pagina giusta, i monaci cantano in latino un'introduzione e poi in italiano alcuni salmi, intervallandoli con delle preghiere, sempre cantate. Quando finiscono, aspettiamo che tutti abbiano lasciato il loro posto e ci dirigiamo verso l'uscita, sempre senza udire parola. Quando siamo soli nel chiostro, scoppiamo in una risata che scioglie il timore e la soggezione, che ci avevano avvinto mentre eravamo in mezzo agli ieratici monaci neri. «Sembrava di stare in una scena del Nome della rosa», commenta Flavio. Fortuna che non erano incappucciati.
Galleria fotografica
❮ ❯
© 2008-2024
Sergio Chiappino
Questo opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.