Ca' del Monte-Castellaro di Varzi
3 giugno
Diario di viaggio
La seconda tappa lascia le coltivazioni per affrontare una regione decisamente più boschiva, a cavallo tra le valli Staffora e Curone. Ci sono pertanto decisamente meno panorami a lunga gittata. Abbiamo trovato il tratto del sentiero 103 prima di Castagnola di fatto interrotto, perché invaso da un'enorme quantità di alberi caduti, superabili solo con sforzi strenui. Sarebbe stato meglio seguire il sentiero 3 fino a Dego e raggiungere di lì Castagnola sulla strada asfaltata, nonostante il giro nettamente più lungo.
La mattina è abbastanza limpida e il posto è panoramico, per cui ne approfitto per scattare qualche foto al sorgere del sole, tanto più che ho comprato apposta per i trek un cavalletto molto compatto e leggero. Vado al parcheggio, che si affaccia su una zona di calanchi, da cui si dominano le colline sottostanti e l'Appennino, e di lì con il tele isolo qualche dettaglio. Fotografo anche la struttura, visto che è una bella costruzione in arenaria locale. Ho poi ancora tempo abbondante per tornare sotto le lenzuola, vista l'ora dell'aurora in questa stagione. Dopo colazione, prima di metterci in viaggio, accompagno anche gli amici a vedere il panorama: ieri sera infatti non ci eravamo andati all'arrivo, sfiniti com'eravamo, e avevamo poi terminato di cenare a notte fonda.
Riprendiamo la strada lasciata ieri sera, che termina poco oltre, nei pressi di un osservatorio astronomico. Ci inoltriamo poi nel dedalo di sentieri attorno al Castellaro del Guardamonte, un nome doppiamente significativo. Il toponimo castellaro è molto diffuso (ne troveremo un altro stasera) e designa zone arroccate, dove le popolazioni pre-romane dei Liguri avevano delle postazioni fortificate. Qui c'è poi il rafforzativo di Guardamonte, perché il luogo, essendo isolato, è anche molto panoramico sull'Appennino. Attraversiamo boschi di querce, con radure prative; tra le fioriture da segnalare le ginestre, che sniffo a ogni piè sospinto rischiando di trovarmi una zecca negli occhi, e dei gladioli. Peccato che il percorso segnalato eviti la cima: sarebbe valsa la pena fare qualche metro in più per godere del panorama ad angolo giro. Vediamo i primi castagni, in parte anche sfruttati per fare legna: sono il primo segno del passaggio alla vegetazione collinare. Ci sono anche degli ornielli secchi, che hanno patito la siccità dello scorso anno. Penso che la crescita delle temperature e l'intensificarsi dei fenomeni estremi, previsti dai modelli climatici, porterà a un cambiamento della vegetazione climacica delle montagne, o magari a un'evoluzione delle specie, che dovranno sviluppare adattamenti nuovi. Trascuriamo il bivio per le grotte di San Ponzo, troppo lontane per una puntata. Bordato dall'alto un prefabbricato, scendiamo alla strada, da cui ammiriamo bene le formazioni calcaree del castellaro, che avevamo già intravisto nel bosco.
La seguiamo per qualche minuto e poi svoltiamo a destra in una sterrata con evidenti segni di moto. Qui le indicazioni del sentiero 103 latitano, ma basta seguire quelle del 3, che per un lungo tratto coincide con il nostro. Scendiamo vero una zona aperta, da cui godiamo una bella vista su dei calanchi e sulla valle Staffora. Ci immergiamo quindi in un fitto bosco a prevalenza di querce, in cui resteremo a lungo. Raggiungiamo il fondo di una conca e proseguiamo in quota, attraversando zone paludose infestate da nugoli di zanzare assetate del nostro sangue. A un bivio scampiamo per poco a dei motociclisti, che per fortuna prendono l'altra pista. Finalmente prendiamo quota e ritorniamo in una zona più secca, dove le zanzare ci danno tregua. Arriviamo così al passo di Drovi, dove la pista ha il fondo grigio e arido tipico dei calanchi. Da qui è ben visibile il vicino Giarolo, con il vecchio brufolo dell'illic et tunc costretto a soggiacere ai nuovi totem dell'hic et nunc. Nella successione di dossi, non capiamo dove sia il punto panoramico della Colletta. Sta di fatto che arriviamo al primo bivio, per Casa Galeotti, dove facciamo una breve pausa per bere e mangiare un frutto.
Al bivio successivo notiamo che ci sono segnavia solo per il sentiero 3, che qui prende a sinistra, mentre nessuno per il nostro, che prosegue diritto senza ombra di dubbio: descrizione, cartina e traccia GPS mandano tutte dalla stessa parte. Proviamo a seguire il primo per un tratto, ma non troviamo altre deviazioni nella nostra direzione, per cui ritorniamo sui nostri passi e proviamo a seguire le indicazioni. Notiamo subito che questo non è molto frequentato né pulito, ma qualche ramo segato e delle tracce di bici ci rassicurano. Al guado dobbiamo scavalcare qualche tronco per passare e di qui è sempre più invaso dagli alberi. Su un segnavia di plastica qualcuno ha scritto sarcasticamente a pennarello «Dove andiamo? Da dove veniamo? Chi siamo?». Subito dopo c'è una grande pozza fangosa che battezziamo "la pozza dei caimani”, a segnalare quanto sta diventando amazzonico il tragitto. Tocca quindi ad alberi sempre più difficili da scavalcare o aggirare a valle. Gli ultimi, dopo che la pista ha valicato un costone e punta verso Castagnola, ci richiedono di arrampicarci sui rami di una catasta di tronchi ammassati alla rinfusa, perché a monte ce ne sono ancora di più e a valle è troppo ripido per passare. Io che ho poco senso dell'equilibrio, ad un certo punto frano rovinosamente in basso e ci metto un po' a districarmi dalla matassa. Non resta davvero che pensare: «Potrebbe essere peggio: potrebbe piovere». Ho ancora la lucidità per notare che la maggior parte degli alberi a terra sono pini neri, mentre le querce sono rimaste in piedi. Non so se è dovuto al fatto che, essendo stati piantati fuori del loro areale, sono più fragili, oppure semplicemente che ora sono giunti tutti contemporaneamente alla vecchiaia. Una cosa simile capitò in Germania alla prima ondata di rimboschimenti ottocenteschi: gli alberi andarono incontro al deperimento quasi tutti insieme qualche decennio fa. Quanto alla causa scatenante, all'arrivo ci spiegheranno che anche da queste parti quest'inverno è caduta la pioggia congelante come nella vicina Liguria, danneggiando così tanti alberi che la strada per Varzi è rimasta chiusa per due giorni. La cosa mi è stata poi confermata dal servizio parchi della provincia di Alessandria, quando al rientro ho segnalato il problema.
Sfiancati, accaldati e assetati arriviamo alla frazione, dove, con nostra fortuna, ci imbattiamo in un'area sociale con tanto di calcetto e spillatore per birra, accanto alla chiesetta con pronao. Non ci sono segni di presenza umana, ma ha comodi posti a sedere all'esterno. Ci fermiamo a lungo per riposarci e rifocillarci. Sentendoci parlare, ad un certo punto gli abitanti vengono a vedere l'origine di queste voci, non capacitandosi che qualcuno possa passare dal loro paese.
Riprendiamo il cammino lungo la strada di accesso, superati da un bimbo che sfreccia su una bici rumorosa. Quasi subito la lasciamo per una pista erbosa (nessun cartello, una tacca più avanti) che valica un costone nei pressi di una casa e poi scende. Anche qui ci sono dei pini neri caduti, ma sono stati segati e il passaggio liberato. In senso opposto sale un motociclista gentile che si ferma e spegne il motore quando ci incrocia. Da un certo punto in poi la strada coincide con lo sbancamento del metanodotto e va giù per la massima pendenza, con un fondo sabbioso sdrucciolevole e irregolare. Una bella schifezza. In compenso la vista sulla val Curone con Fabbrica sotto di noi è molto bella, nonostante il cielo si sia fatto più cupo e l'afa soffocante. Dopo un po' di pena o purga, che dir si voglia, sbuchiamo su una strada asfaltata, da cui alla spicciolata salgono in senso opposto dei ciclisti di una gara amatoriale. Raggiunte le prime case, prendiamo verso il centro di Fabbrica Curone e ci fermiamo al bar di fronte alla bella chiesa medievale in pietra, a bere qualcosa di fresco. Alla barista dai modi gentili e cortesi, che potrebbe essere polacca, ordino un succo di succo di pompelmo e chiedo un'aggiunta di ghiaccio, prontamente imitato. Prima di ripartire facciamo un giro in chiesa, essenziale fuori, pesante dentro.
Anche stavolta non ci sono cartelli che segnalino l'imbocco del sentiero, ma solo una tacca scolorita su un palo un po' più avanti. La strada diventa ben presto a fondo inghiaiato e sale ripida, facendo un ampio giro. L'atmosfera calda e opprimente ci fa presagire un temporale, che pure oggi non è preannunciato. Ad un certo punto la strada è attraversata da una doppia fila di formiche, che vanno e vengono lungo una stessa direzione, scambiandosi segnali chimici con le antenne, come quando hanno trovato una fonte di cibo. Mi viene in mente che devo sempre leggere il lavoro del celebre naturalista Edward O. Wilson sui formicai. E anche che in qualche altro punto del viaggio ho visto altre formiche che si ammucchiavano su un bruco morto. Cominciamo a sentire dei tuoni in lontananza, dove la strada si affaccia sul pendio sceso prima della pausa. La sterrata poi spiana e attraversa dei bei prati, chissà se ancora tenuti o destinati a essere invasi dalle sterpaglie. All'arrivo ci diranno che da una decina d'anni non si vedono più pastori, da queste parti. Alle spalle dei prati c'è Pareto, distesa su un costone. Oltre le case vediamo cadere la pioggia, per cui ci fermiamo e indossiamo l'abbigliamento del caso, in concomitanza alle prime gocce.
Arrivati alle abitazioni, ci imbattiamo subito in una tettoia ad uso agricolo, sotto cui ci fermiamo, in attesa degli sviluppi. Ben presto l'intensità della pioggia sale e dalla strada comincia a colare un rivolo di acqua fangosa, mentre i lampi si susseguono. Visto che abbiamo ancora tempo a disposizione e all'albergo non ci fanno fretta, restiamo pazientemente ad aspettare che la pioggia cessi. Ad un certo punto dalla strada scende a tutta birra un trattore, con una persona alla guida e una su un rimorchio, entrambe zuppe e sghignazzanti. Poco dopo arriva una terza persona, stavolta a piedi, ma non meno fradicio. Ci racconta di essere un abitante del posto andato fiducioso a fare due passi fino a Cella di Varzi, perché non era prevista pioggia. Ci lascia dicendo che deve ancora controllare portafogli e cellulare. La pioggia è intanto cessata e possiamo ripartire pure noi, proprio mentre fa capolino il sole e il rivolo della strada si secca un poco a poco.
La luce è molto bella e siamo fiduciosi, nonostante verso valle piova ancora e si oda anche qualche tuono. Compare un tenue arcobaleno. Il fango è affrontabile, anche perché non ci sono tratti ripidi. Saliamo tra boschetti e prati fino a un dosso, dove svoltiamo seccamente a sinistra e incominciamo a scendere, anche qui senza insormontabili problemi di scivolosità per il fango. La vegetazione arborea è composta in massima parte di querce, con qualche castagno; anche qui ci sono degli ornielli secchi. C'è una fioritura di grandi campanule rosa. Vediamo il Tempio della Fraternità e Selvapiana, quindi anche Cella di Varzi. Giungiamo alla strada, attraversiamo il paese e proseguiamo verso Castellaro. In realtà il nostro sentiero punta verso Selvapiana, ma sia lì che a Cella gli alberghi erano pieni, per cui abbiamo dovuto scegliere un percorso alternativo. Una scelta fortunata, scopriremo a breve.
Giungiamo all'albergo di nuovo a ora di cena, tra gli sguardi stupiti degli avventori. Il proprietario si dimostra subito disponibile. La cena è ottima, seppur un po' troppo sostanziosa. Il proprietario è un quarantenne nonno di un bimbo delle elementari: «Sa, qui TV e cellulari prendono male e bisogna occupare il tempo». Suo figlio è un intrattenitore nato e ha una mimica simpaticissima. Viste le pessime previsioni del tempo per il giorno successivo, decidiamo di fermarci un giorno. Chiediamo solo che per il giorno successivo ci diano dei pasti un po' più salutisti e saremo pienamente accontentati.
La mattina presto la pioggia mi sorprende mentre faccio un giro fotografico per il paese. Più tardi quando è prevista una pausa nelle precipitazioni, torniamo a Cella per visitare il Tempio della Fraternità. È una chiesa costruita negli anni Cinquanta del Novecento, dopo che la parrocchiale della frazione fu distrutta da una frana. Il fondatore, un cappellano militare, ha raccolto dentro e fuori residuati bellici e testimonianze di guerra di ogni tipo. All'esterno ci sono caccia, carri armati, missili; all'interno ci sono un crocifisso costruito con pezzi di armi e un'ogiva rossa sull'altare preconciliare, tra le innumerevoli altre cose. Anche la cupola del campanile è a forma di proiettile. Ci sono poi testimonianze scritte raccolte su un altarino laterale. Notiamo tristemente che una vetrina è stata sfondata per rubare delle pistole della Seconda Guerra Mondiale. Lo scopo di questa chiesa vorrebbe essere quello di ricordare gli orrori della guerra, ancora brucianti nel momento della sua edificazione. È raggiunto nella parte dei toccanti ricordi delle persone, tuttavia questa parata di armi tirate a lucido ed esposte in bella mostra, lasciano sentimenti contrastanti. Sul resto del paese non c'è molto da dire, se non che non si vede in giro nessuna persona, ma molti gatti.
Il pomeriggio lo passiamo al chiuso, perché una successione di temporali scarica un rovescio dietro l'altro. Non osiamo pensare cosa ci sarebbe capitato se fossimo stati sul monte Chiappo. Tutta questa pioggia ha però i suoi lati positivi: qui è da tre anni che non vedono funghi, a causa delle siccità, mentre quest'anno finalmente ritorneranno. La mattina dopo il figlio del padrone ci saluterà partendo proprio per un giro nei posti proficui, a lui ben noti.
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Sergio Chiappino
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